mercoledì 1 ottobre 2014

clima e riscaldamento globale Il palazzo dell’assurdo che sa solo rimandare IPOCRISIE ONU

Riscaldamento globale,
veleni, desertificazione:
ma le Nazioni Unite
rinviano le decisioni
alla conferenza 2015
di Parigi
di Maurizio Chierici
n COMINCIANO le nebbie,
respiriamo veleni assieme
all’ipocrisia che arriva dal
palazzo da New York, Palazzo
di Vetro: rinvia alla conferenza
2015 di Parigi le decisioni
che dovrebbero
scongiurare il riscaldamento
globale. Minaccia di affogare
non so quante isole,
allarga deserti, moltiplica il
cancro nelle nostre belle città.
Onu che si conferma regno
dell’assurdo: dal Trattato
di Kyoto 1997 la parola
d’ordine è “rimandare ” le
decisioni che rallentano il
disfacimento. Mondo grossolanamente
dualizzato tra
gli affari del mercato e la sopravvivenza
della gente
senza voce: non conta niente,
paga per tutti. Cina e India
hanno snobbato New
York e sfumeranno Parigi.
Shanghai e Pechino ormai
camere a gas eppure non se
la sentono di avvilire Pil ed
esportazioni. Per carità Mosca
e Brics, Brasile, Russia,
India, Sudafrica. Può il Brasile
rinunciare al tesoro della
soia che mangia l’A m a zzonia?
A Parigi i capi di Stato
declameranno lezioncine
ispirate ai vangeli dell’e conomia,
lontanissime dai popoli
che patiscono il ritorno
al medioevo. Ma prima di
discutere, rimandare o decidere
i capi di Stato dovrebbero
dare almeno un’o cchiata
ai campi di raccolta
del Ciad dove vegetano in
attesa di niente migliaia di
profughi fuggiti ai massacri
petroliferi del Sud Sudan. Il
segretario Onu, Ban
Ki-moon, ha sorvolato il deserto
di Aral, ex lago, ex mare
lungo come l’Adriatico da
Trieste a Santa Maria di
Leuca. Ormai onde di sabbia
avvelenata dalle guerre bionia
logiche che Mosca aveva
sperimentato nelle “terre di
nessuno“ non importa se un
milione e mezzo di senza
nome continuano a vivere
lì.
n BAN Ki-moon torna
sconvolto da Aralsk, capitale
della catastrofe. “La più
terribile tragedia dell’u m anità“.
Nei giorni felici l’a bbracciavano
foreste larghe
200 chilometri: proteggevano
il mare dalle tempeste
che soffiano dalla Siberia.
Adesso il vento attraversa i
deserti, gonfia nuvole di
diossina e il segretario Onu
non se l’è sentita di ascoltare
i morituri. Prima di decidere
a Parigi i capi di Stato
degli Stati che decidono dovrebbero
dare almeno
un’occhiata per capire quale
futuro ci aspetta se alzano
le spalle. Anche l’A m a zzonia
deve finire così? Foresta
umida, quando non piove
diventa sabbia, ma non piove
se la soia mangia le piante.
Nello Jari, Stato del Pará,
l’uomo d’affari americano
Daniel Ludwing taglia un
milione di alberi per trasformare
la regione grande come
l’Italia in un immenso
pascolo con aeroporti dai
quali ogni mattina partivano
le bistecche per Chicago.
Passano gli anni, l’erba sparisce,
il deserto brucia il pascolo.
Sconvolgimenti che si
ripetono da un buon investimento
all’altro. Noi per
fortuna lontani, ma per
quanto? 49 anni fa l’Aral bagnava
Kazakistan e Uzbekistan.
La Mosca dei soviet
devia i fiumi che scendono
dal Pamir per creare immense
piantagioni di cotone.
E il mare rimpicciolisce,
paludi e pozzanghere, ecco
il deserto. Barche di pescatori
abbandonate fra le dune.
200 chilometri di sabbia
al posto delle foreste. Chi ha
30 anni non ha mai visto un
filo d’erba. Dai rubinetti
scende acqua verdastra: arriva
su treni interminabili, la
scaricano nelle tubature incrostate
dai veleni. La gente
gira con maschere sulla
bocca, facce piagate: croste,
eczemi. Bambini pallidi come
candele muoiono d’a n emia
e di chissà quali malattie,
due o tre al giorno sullo
stesso letto d’ospedale.
Non val la pena cambiare le
lenzuola. Non è finita: il Kazakistan
galleggia sul petrolio,
riserve di gas sepolte
sotto il mare che non c’è più.
E i cinesi e le 9 sorelle
dell’oro nero trivellano felici
con operai e tecnici kamikaze.
Rimanda e rimanda
chissà quanti di noi finiranno
così.
mchierici2@libero.it

il fatto quotidiano 30 settembre 2014

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