Riscaldamento
globale,
veleni,
desertificazione:
ma
le Nazioni Unite
rinviano
le decisioni
alla
conferenza 2015
di
Parigi
di
Maurizio
Chierici
n
COMINCIANO
le
nebbie,
respiriamo
veleni assieme
all’ipocrisia
che arriva dal
palazzo
da New York, Palazzo
di
Vetro: rinvia alla conferenza
2015
di Parigi le decisioni
che
dovrebbero
scongiurare
il riscaldamento
globale.
Minaccia di affogare
non
so quante isole,
allarga
deserti, moltiplica il
cancro
nelle nostre belle città.
Onu
che si conferma regno
dell’assurdo:
dal Trattato
di
Kyoto 1997 la parola
d’ordine
è “rimandare ” le
decisioni
che rallentano il
disfacimento.
Mondo grossolanamente
dualizzato
tra
gli
affari del mercato e la sopravvivenza
della
gente
senza
voce: non conta niente,
paga
per tutti. Cina e India
hanno
snobbato New
York
e sfumeranno Parigi.
Shanghai
e Pechino ormai
camere
a gas eppure non se
la
sentono di avvilire Pil ed
esportazioni.
Per carità Mosca
e
Brics, Brasile, Russia,
India,
Sudafrica. Può il Brasile
rinunciare
al tesoro della
soia
che mangia l’A m a zzonia?
A
Parigi i capi di Stato
declameranno
lezioncine
ispirate
ai vangeli dell’e conomia,
lontanissime
dai popoli
che
patiscono il ritorno
al
medioevo. Ma prima di
discutere,
rimandare o decidere
i
capi di Stato dovrebbero
dare
almeno un’o cchiata
ai
campi di raccolta
del
Ciad dove vegetano in
attesa
di niente migliaia di
profughi
fuggiti ai massacri
petroliferi
del Sud Sudan. Il
segretario
Onu, Ban
Ki-moon,
ha sorvolato il deserto
di
Aral, ex lago, ex mare
lungo
come l’Adriatico da
Trieste
a Santa Maria di
Leuca.
Ormai onde di sabbia
avvelenata
dalle guerre bionia
logiche
che Mosca aveva
sperimentato
nelle “terre di
nessuno“
non importa se un
milione
e mezzo di senza
nome
continuano a vivere
lì.
n
BAN
Ki-moon
torna
sconvolto
da Aralsk, capitale
della
catastrofe. “La più
terribile
tragedia dell’u m anità“.
Nei
giorni felici l’a bbracciavano
foreste
larghe
200
chilometri: proteggevano
il
mare dalle tempeste
che
soffiano dalla Siberia.
Adesso
il vento attraversa i
deserti,
gonfia nuvole di
diossina
e il segretario Onu
non
se l’è sentita di ascoltare
i
morituri. Prima di decidere
a
Parigi i capi di Stato
degli
Stati che decidono dovrebbero
dare
almeno
un’occhiata
per capire quale
futuro
ci aspetta se alzano
le
spalle. Anche l’A m a zzonia
deve
finire così? Foresta
umida,
quando non piove
diventa
sabbia, ma non piove
se
la soia mangia le piante.
Nello
Jari, Stato del Pará,
l’uomo
d’affari americano
Daniel
Ludwing taglia un
milione
di alberi per trasformare
la
regione grande come
l’Italia
in un immenso
pascolo
con aeroporti dai
quali
ogni mattina partivano
le
bistecche per Chicago.
Passano
gli anni, l’erba sparisce,
il
deserto brucia il pascolo.
Sconvolgimenti
che si
ripetono
da un buon investimento
all’altro.
Noi per
fortuna
lontani, ma per
quanto?
49 anni fa l’Aral bagnava
Kazakistan
e Uzbekistan.
La
Mosca dei soviet
devia
i fiumi che scendono
dal
Pamir per creare immense
piantagioni
di cotone.
E
il mare rimpicciolisce,
paludi
e pozzanghere, ecco
il
deserto. Barche di pescatori
abbandonate
fra le dune.
200
chilometri di sabbia
al
posto delle foreste. Chi ha
30
anni non ha mai visto un
filo
d’erba. Dai rubinetti
scende
acqua verdastra: arriva
su
treni interminabili, la
scaricano
nelle tubature incrostate
dai
veleni. La gente
gira
con maschere sulla
bocca,
facce piagate: croste,
eczemi.
Bambini pallidi come
candele
muoiono d’a n emia
e
di chissà quali malattie,
due
o tre al giorno sullo
stesso
letto d’ospedale.
Non
val la pena cambiare le
lenzuola.
Non è finita: il Kazakistan
galleggia
sul petrolio,
riserve
di gas sepolte
sotto
il mare che non c’è più.
E
i cinesi e le 9 sorelle
dell’oro
nero trivellano felici
con
operai e tecnici kamikaze.
Rimanda
e rimanda
chissà
quanti di noi finiranno
così.
mchierici2@libero.it
il fatto quotidiano 30 settembre 2014
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