sabato 26 aprile 2014

Scorie nucleari, ecco quanto ci costerà la megadiscarica I rifiuti delle ex centrali atomiche italiane devono essere stoccati in un unico posto: grande come un campo da calcio e profondo come un palazzo di cinque piani. Un'opera da 2,5 miliardi di euro. Che nessuno vuole sul suo territorio di Stefano Vergine

devono essere stoccati in un unico posto: grande come un campo da calcio e profondo come un palazzo di cinque piani. Un'opera da 2,5 miliardi di euro. Che nessuno vuole sul suo territorio



«Sarà grande come un campo di calcio e alto come una palazzina di cinque piani»: così alla Sogin, l’azienda pubblica che gestisce l’eredità nucleare italiana, descrivono il sarcofago dei rifiuti atomici. Un sepolcro che dovrà resistere intatto per almeno tre secoli, se vogliamo evitare disastri. Perché dentro la struttura, che secondo i progettisti alla fine dovrebbe assomigliare a una collina d’erba, saranno rinchiusi 90mila metri cubi di rifiuti: quelli delle vecchie centrali e quelli che si continuano a produrre con medicina, industria e ricerca. Migliaia di fusti metallici verranno riempiti di materiale radioattivo, inseriti in una gigantesca cassa di cemento armato e ricoperti di terra argillosa. Un’impresa di cui si parla da decenni, tra ritardi e battute d’arresto. E che ora dovrebbe essere arrivata a una svolta.

La creazione di un’unica discarica per i rifiuti nucleari è richiesta da una direttiva europea e consigliata da un po’ tutti gli esperti, pro e anti nucleare. «L’alternativa è di dover costruire tanti piccoli depositi, un’ipotesi sconveniente anche dal punto di vista economico», fa notare Antonio Sileo, ricercatore di politiche energetiche allo Iefe Bocconi. Che l’opera sia necessaria è chiaro da decenni. Il primo atto istitutivo risale agli anni Novanta, quando i calcoli si facevano con le lire. Ora dovremmo essere vicini al traguardo: entro sette mesi si saprà quali saranno i luoghi idonei ad ospitare la discarica.

A costruire e gestire questo megadeposito sarà Sogin, l’azienda pubblica incaricata di smontare le vecchie centrali. Con scarsi risultati, per la verità. Quando fu creata, nel 1999, si prevedeva di smantellare gli impianti entro il 2020, spendendo 3 miliardi e mezzo di euro. L’ultima stima ipotizza la fine dei lavori nel 2029. Con una spesa praticamente raddoppiata: 6,7 miliardi. Soldi a cui si aggiungeranno i circa 2,5 miliardi necessari per costruire il deposito unico, che nei piani di Sogin dovrà essere inserito in un parco tecnologico dedicato alla ricerca sulle scorie nucleari. Insomma, l’esame del passato non ispira fiducia. Mentre in dodici anni è stato realizzato meno di un quarto dell’operazione pulizia, l’azienda di Stato ha invece conquistato spesso le cronache per sprechi, costi esorbitanti e curiosi finanziamenti. Come i 300mila euro stanziati per uno stand al Salone del libro antico di Milano, organizzato da Marcello Dell’Utri ai tempi del governo Berlusconi. O il sontuoso ufficio di Mosca, con venti dipendenti, per un progetto che vedeva l’Italia al fianco della Russia nello smantellamento di 117 sommergibili nucleari in disuso.

Riccardo Casale, 50 anni, arrivato sei mesi fa alla Sogin come amministratore delegato, assicura che «adesso le cose sono cambiate». E promette di terminare entro il 2016 la metà dei lavori di smantellamento delle centrali, cioè di fare in tre anni quanto realizzato in tredici.

Il primo obiettivo dell’ingegnere genovese, manager pubblico vicino al Pd scelto dal governo Letta, è cambiare l’immagine della società. Per dare un segnale, Casale si è ridotto lo stipendio ancora prima che la legge lo imponesse. Appena subentrato a Giuseppe Nucci, che guadagnava 570mila euro all’anno, si è auto-fissato il taglio fino a 261mila euro. «Vogliamo andare sul mercato», è stata una delle prime dichiarazioni, «distribuire dividendi, prendere anche l’1 per cento del settore mondiale dello smantellamento delle centrali», stimato tra i 600 e gli 800 miliardi di dollari. Di certo ora la priorità è costruire il consenso per la nascita del deposito.


Il fantasma di Scanzano Jonico non è stato dimenticato. Il paesino della Basilicata nel 2003 fu indicato per decreto dal governo Berlusconi come sede del deposito unico nazionale. Ma le proteste riuscirono a fermare tutto e il progetto finì nel dimenticatoio. Nel frattempo il problema non si è risolto, anzi continua ad aumentare. Oggi i nostri rifiuti sono in parte custoditi nei vecchi impianti nazionali e in parte sono stati mandati all’estero. Il 98 per cento del combustibile è stato spedito nella centrale francese di Le Hague e in quella inglese di Sellafield. In gergo tecnico, si chiama riprocessamento: Parigi e Londra lavorano il combustibile italiano per estrarne uranio e plutonio. Un materiale, quest’ultimo, particolarmente ambito dall’industria nucleare. «A fine ciclo questa operazione ci costerà un miliardo e mezzo», calcola Casale. I contratti firmati con Francia e Inghilterra prevedono però che una volta “riprocessate” le scorie tornino nella Penisola entro il 2025. E poi c’è una legge europea che obbliga ogni paese dell’Ue a gestire autonomamente i propri rifiuti nucleari. Ecco perché lo Stato è obbligato a intervenire.

Ora l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) sta per definire le linee guida che orienteranno la localizzazione della discarica. Poi Sogin avrà sette mesi per presentare la lista delle aree dove si può fare  il deposito. Impossibile sapere se esista già una rosa di nomi, ma le zone papabili si conoscono dal 2001, quando l’Enea pubblicò la prima mappa (vedi cartina). Spiega Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia: «Le regioni dove si concentra la maggior parte delle zone adatte sono sempre le stesse: Puglia, Basilicata, Lazio e Toscana. Alcuni di questi siti potrebbero non essere più idonei, sia per i cambiamenti intervenuti nel frattempo sul territorio sia per le eventuali modifiche delle linee guida da parte dell’Ispra. Ma ci sono aree adatte anche in altre regioni; una questione non marginale sarà quella del trasporto di questi rifiuti e vedremo se questo peserà nei criteri di localizzazione».

Qualsiasi sia la scelta finale, quello sarà il momento più difficile: perché tutti sono d’accordo sull’idea di creare un deposito unico, ma quando il cantiere deve sorgere vicino casa, le cose cambiano. Non è casuale che l’iter scelto per decidere dove piazzare il cimitero nucleare sia lunghissimo. Da quando Sogin presenterà la lista delle aree potenzialmente idonee al momento in cui verrà poggiata la prima pietra passeranno almeno quattro anni: un tempo destinato a  consultazioni pubbliche, osservazioni e indagini tecniche. Tutto per coinvolgere il più possibile ambientalisti e popolazioni locali. In realtà l’intento di Casale è quello di non dover nemmeno scegliere un posto, ma di ricevere candidature volontarie: «In Svezia è successo, due paesini si sono fatti concorrenza».

Ma a quanto ammontano le compensazioni per le popolazioni italiane che ospiteranno il cimitero nucleare? «Su questo deve decidere il governo», taglia corto Casale, «di certo il deposito creerà lavoro, circa mille posti tra diretti e indiretti». Per il resto degli italiani, il sarcofago atomico rischia di portare in dote un’altra sorpresa: l’aumento del costo dell’elettricità. Per la sua attività Sogin si finanzia infatti attraverso due componenti della bolletta: la A2 e la Mct. Si tratta di circa 4,5 euro all’anno per un utente domestico tipo, che nel 2013 sono valsi 227 milioni di euro. Il problema è che dal 2005 lo Stato ha deciso di prelevare da quel conto parecchi milioni per altre finalità. Così l’anno scorso Sogin ha incassato solo 85 milioni di euro. Morale della favola? Per quei 2,5 miliardi di investimento previsti per creare deposito e parco tecnologico, al momento non sono stati accantonati soldi. «È verosimile perciò immaginare un aumento in bolletta», ammette Casale.  


Resta un problema strutturale. Il deposito non sarà sufficiente per tutti i rifiuti radioattivi italiani. La discarica  che Sogin ha in mente, secondo le norme internazionali è infatti adatta a ospitare per sempre le scorie a bassa e media attività, non quelle ad alta attività (il 15 per cento del totale nazionale). Spiega Giuseppe Onufrio, fisico nucleare oltre che direttore di Greenpeace Italia: «Mentre le scorie di prima e seconda categoria in tre secoli esauriscono la loro radioattività, quelle di terza categoria hanno bisogno di millenni. Insomma il deposito unico risolve solo una parte del problema». Per l’altra parte, quella delle scorie altamente radioattive, Casale prevede di tenerle «per qualche decennio nel deposito unico». E poi? L’obiettivo è seppellirle all’estero: «C’è una direttiva europea che permette a Paesi della Ue con scarse quantità di rifiuti ad alta radioattività di mettersi d’accordo e creare un unico deposito sotterraneo dove convogliare tutti i rifiuti». http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/04/17/news/scorie-radioattive-arriva-il-deposito-resta-solo-un-dubbio-dove-costruirlo-1.161654
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