Emanuele Bompan
Si è aperta ieri a Durban, Sud Africa, la 17esima Conferenza delle Parti (COP) delle Nazioni Unite nel tentativo di siglare quanto prima un trattato internazionale per fermare il riscaldamento globale
Si è aperta ieri a Durban, Sud Africa, la 17 Conferenza delle Parti (COP) delle Nazioni Unite nel tentativo di siglare quanto prima un trattato internazionale per fermare il riscaldamento globale.
Per i climatologi la necessità di agire si fa ogni giorno più urgente: continuando di questo passo l'aumento delle temperature medie (previsto in caso di inazione intorno ai 4°C) nel corso del secolo potrà avere effetti catastrofici. Un rapporto presentato oggi dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) ha rivelato che la decade appena conclusasi è stata la più calda della storia. Da qui la necessità di negoziare un accordo globale per agire con rapidità e fermare l'emissioni di Gas serra.
Sebbene non sono attesi risultati clamorosi dopo il fallimento di Copenhagen e il mezzo successo dello scorso anno a Cancun, questa sessione del negoziato per il clima, che si chiuderà il prossimo 9 dicembre, potrebbe essere più complicata del previsto. «La mia paura è che si ripeterà il circolo di chiacchiere ed inazione a cui abbiamo assistito nell'ultima decade», – ha dichiarato all'autore il leader ambientalista americano Bill McKibben del movimento 350.org – «Ma ho anche una speranza, che la forte presenza africana a questo incontro porti quel senso di urgenza necessario per risolvere l'ingiustizia climatica». L'Africa infatti è responsabile di meno del 5% delle emissioni di gas serra, ma è il continente più esposto agli effetti catastrofici del riscaldamento globale.
Per le associazioni ambientaliste come il WWF “L'obbiettivo principale è preservare il quadro di lavoro Onu, lavorando per un secondo periodo del Protocollo di Kyoto (in scadenza a fine 2012) e cercando di determinare una road map per poter siglare un trattato internazionale legalmente vincolante entro il 2020.» Ma la guerra di veti incrociati tra potenze (su tutti Cina, Usa, Eu, India, Brasile) potrebbe essere un'ostacolo a questo obbiettivo.
A Durban si giocano simultaneamente due partite. Una tecnica – ma non secondaria – legata ad elementi puntuali, necessari per delineare meccanismi come finanzia climatica con la creazione di un fondo da 100 miliardi (Green Climate Fund) l'anno entro il 2020 per sostenere la transizione verso un mondo post-carbon, il sistema REDD+ per fermare la deforestazione, oppure ancora il trasferimento tecnologico per diffondere know how amico dell'ambiente. I negoziatori, orientati ad un approccio pragmatico ritengono “che ci siano buone possibilità di riuscita per giungere a risultati certi almeno per una parte degli elementi tecnici sul tavolo», ha dichiarato un negoziatore di medio livello che preferisce rimanere anonimo.
Ma ça va sans dire che anche il nodo geopolitico sarà sul tavolo, per una partita ancora più dura. Non si potrà fuggire infatti dalla discussione sulla seconda fase su Protocollo di Kyoto (che oggi include solo il 30% dei paesi inquinatori) in scadenza il prossimo anno, e sull'istituzione di una road map chiara per giungere a nuovi lavori a partire del 2014-2015 e firmare il prima possibile (in molti ritengono il 2020 una data probabile) il trattato internazionale legalmente vincolante tanto atteso che potrebbe cambiare le sorti del pianeta. Per molti mettere da parte Kyoto significa aprire una nuova fase, molto più inclusiva (dato che il Protocollo esclude grandi inquinatori come India Brasile e Cina), che modificherebbe le divisioni tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Allo stesso tempo proseguire unicamente nel solco creato dal Copenhagen Accord potrebbe creare grande incertezza, in primis nei mercati della Co2 e in meccanismi flessibili come i CDM (clean Development Mechanism).
«Postporre o eliminare un accordo (Kyoto 2, nda) che si sarebbe dovuto siglare nel 2013 è una decisione politica non certo dettata dai tempi della scienza» ha tuonato il commissario Ue per il Clima, Connie Hedegaard – «l'UE è pronta da anni a siglare un trattato globale a Durban, ma la realtà è che altre economie, come Usa e Cina, non lo sono». Ma anche l'Europa sa che bisogna andare oltre Kyoto in caso di fallimentto. «Siamo chiari: l'Ue sostiene il protocollo di Kyoto, ma un secondo periodo con l'Ue sola, che rappresenta l'11% delle emissioni di CO2 del Pianeta, non è abbastanza per il clima, questo non può costituire un successo a Durban.». Quindi bisogna guardare ad altro.
I G2 (Usa e Cina) latitano e snobbano l'EU, sempre più isolata, e non ne vogliono saperne di trattati o di protocolli finché i dettagli non sono ben chiari e delineati. Niente protocollo di Kyoto 2 nemmeno per Canada, Russia, Giappone, che ritengono il protocollo dannoso specie per i paesi ad industrializzazione avanzata. A mostrare la reticenza Usa ci pensa il capo della delegazione americana a Durban, Todd Stern. «Concentriamoci sui dettagli tecnici come la finanza climatica e l'istituzione del Green Climate Fund», ha dichiarato. «Kyoto 2 non è sul tavolo, per quanto riguarda gli Usa». Meglio un'alternativa che includa tutte le principali economie (rappresentate nel Major Economic Fourm, che include l'Italia) in un accordo che comporti responsabilità condivise ma differenti (per i tecnici quest'approccio si chiama Nationally Appropriate Mitigation Action, o Nama)
Chi rimane fortemente a favore a Kyoto 2, oltre i paesi meno sviluppati, specie quelli africani e gli stati insulari, sono il Brasile ed India, principalmente per interessi economici. Durante una teleconferenza il capo negoziatore brasiliano Luiz Alberto Figueiredo ha dichiarato che «dobbiamo dare avvio ad un secondo periodo del protocollo di Kyoto, l'unica strategia per garantire il futuro della lotta contro il climate change e la sopravvivenza di un trattato internazionale». Avesse dichiarato che il Brasile era pronto a firmare Kyoto 2, si che avrebbe sorpreso la stampa.
La Cina dal canto suo ribadisce la voglia di un modello di accordo volontario, dove “dal basso” ogni nazione dimostri la propria volontà a tagliare le emissioni e un sistema di verifica internazionale rendiconti i gas serra prodotti (MRV in gergo) Non a caso negli ultimi giorni i media di stato cinesi e giornali come il China Daily hanno decantato lodi sperticate degli “incredibili tagli alla Co2 avvenuti nel 2010 e 2011”. «A Durban meglio lavorare su elementi importanti e tecnici. Prima di stabilire quando firmare un trattato internazionale sul clima dobbiamo sapere esattamente cosa esso conterrà», ha ribadito alla stampa Xie Zhenhua, capo negoziatore cinese, se non fosse ancora chiara la direzione che Pechino vuole mantenere.
Alcuni Paesi in via di sviluppo guidati dal combattivo Costa Rica potrebbero persino “occupare” Durban e fare pressione affinché i big prendano decisioni. A lanciare la provocazione Jose Maria Figueres, ex presidente dello stato del Centro-america e fratello di Christina Figueres, combattiva segretaria dell'UNFCCC. «I paesi più colpiti dal climate change, stufi di attendere le grandi nazioni, dovrebbero bloccare il negoziato finche non si prendano decisioni urgenti e concrete». L'attenzione mediatica e di pubblico però è scarsa, specie in Europa dove gli occhi sono tutti puntati sulla crisi economica. Eppure per molti un trattato sul clima potrebbe rilanciare una post-carbon/green economy e risollevare le sorti dell'economia sfracellata. Ma sembra che i potenti del mondo proprio non ne vogliano saper di trasformare la crisi in una opportunità.
http://www.terranews.it/news/2011/11/durban-si-tratta-il-futuro-del-pianeta
Oxfam: “Agire sul clima prima che inondazioni e siccità aggravino la crisi alimentare” Nell'ambito della Conferenza sul Clima di Durban, l'ong inglese lancia l'allarme: gli eventi climatici estremi sono sempre più frequenti e ridurranno alla fame una fetta sempre più consistente della popolazione. Non solo nel Sud del MondoIntervenire contro i cambiamenti climatici in modo sistematico per evitare che inondazioni e siccità portino a un escalation dei prezzi alimentari e dunque a nuove possibili emergenze umanitarie. È l’appello lanciato da Oxfam International che, in occasione dell’apertura della conferenza della Nazioni unite sul clima a Durban (Sud Africa), ha presentato i risultati dello studio “Eventi climatici estremi: una minaccia per la sicurezza alimentare”.
Secondo il dossier dell’organizzazione britannica, che ha monitorato l’evolversi della situazione nel biennio 2010-2011, gli eventi climatici estremi sono sempre più frequenti. Con effetti spesso devastanti sui raccolti, che vanno dall’erosione delle scorte alimentati alla destabilizzazione dei mercati provocando un’impennata dei prezzi tali da ridurre alla fame un numero sempre più elevato di persone. Soprattutto nei paesi meno sviluppati, alle prese con indici di povertà preoccupanti e per questo meno in grado di sostenere le popolazioni colpite.
L’anno che si sta per chiudere ha visto solo in Africa, del resto, almeno 13 milioni di persone colpite dai devastanti effetti dell’ondata di siccità che ha investito diverse regioni del Corno d’Africa, alcune delle quali, secondo le Nazioni unite, hanno dovuto far fronte a una vera e propria carestia.
Cambiano le latitudini ma l’emergenza resta: la siccità e gli incendi causati dall’ondata di calore straordinaria che ha colpito Russia e Ucraina, per esempio, ha falcidiato buona parte del raccolto del 2010, provocando un rialzo dei prezzi globali del grano tra il 60 e l’80 per cento in appena tre mesi. Un’emergenza sempre più frequente se si considerano le intense piogge monsoniche e i numerosi tifoni nel Sudest asiatico che hanno ucciso più di 1.100 persone e contribuito a far aumentare i prezzi del riso del 25 per cento in Thailandia e del 30 in Vietnam nel giro di un anno. Anche in Paesi come l’Afghanistan la siccità ha prodotto un allarmante rialzo dei prezzi del grano e della farina di grano, saliti lo scorso luglio del 79 per cento rispetto al 2010.
“Dal Corno d’Africa al Sudest asiatico, dalla Russia all’Afghanistan, un anno di inondazioni, siccità e caldo estremo ha contribuito a diffondere fame e povertà”, ha dichiarato Kelly Dent, portavoce di Oxfam. “Lo scenario può soltanto peggiorare perché i cambiamenti climatici si intensificano e gli agricoltori devono fare i conti con le alte temperature”. Motivo per il quale l’organizzazione britannica chiede con urgenza che i governi riuniti a Durban si muovano in fretta e in maniera coordinata “per salvaguardare le scorte di cibo ed evitare che milioni di persone finiscano per soffrire fame e povertà”.
Se così non sarà, il rischio è che l’eccezione diventi sempre più frequente. Come avvisa il Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico (Ipcc), a meno di un cambio di rotta, gli eventi climatici estremi aumenteranno e le conseguenze per le popolazioni colpite saranno sempre più gravi. “Per i più poveri e i più vulnerabili, che spendono fino al 75 per cento del loro reddito per acquistare cibo, le conseguenze potrebbero essere disastrose”, sottolinea Elisa Bacciotti, portavoce di Oxfam Italia.
Motivo per il quale Oxfam chiede che la Conferenza Onu faccia propri tre obiettivi chiave: puntare al rinnovo del protocollo di Kyoto da accompagnare a un nuovo accordo legalmente vincolante, potenziare i tagli alle emissioni di CO2 prima del 2020 ed assicurare i fondi a lungo termine a sostegno delle popolazioni colpite. Il riferimento diretto è al cosiddetto Fondo verde per il clima che, secondo Oxfam, “non può restare un contenitore vuoto” ma deve avere “le risorse necessarie per entrare in funzione”.
Punti che, almeno in parte, sono già in testa alla fittissima agenda dei lavori di Durban, dove i rappresentanti di quasi 200 Paesi fino al 9 dicembre saranno riuniti nel tentativo di scongiurare il bis del vertice di Copenaghen del 2009, finito con un nulla di fatto.
I temi, in parte, sono gli stessi. Il rinnovo di Kyoto, in scadenza nel 2012, la limitazione drastica di emissioni di Co2 con l’obiettivo di riportare il riscaldamento globale sotto la soglia dei 2 gradi centigradi, lo stesso finanziamento del Fondo verde (che dovrebbe contare su 100 miliardi di dollari all’anno), lotta alla deforestazione e investimenti sulla Green economy. Il tutto mentre l’Europa è alle prese con la crisi economica e l’attacco dei mercati internazionali e gli Stati uniti, già diffidenti verso il protocollo di Kyoto, fanno ancora i conti con gli effetti della crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008.
di Tiziana Guerrisi
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/28/conferenza-durban-oxfam-%E2%80%9Cagire-clima-prima-inondazioni-siccita-aggravino/173737/
Durban, ultima spiaggia
per salvare il pianeta
Si apre domani in Sudafrica la conferenza Onu. La prima fase del protocollo di Kyoto scade alla fine del 2012 e alcuni Paesi hanno già fatto sapere che non intendono assumere ulteriori impegni. Tra il 1990 e il 2009 le emissioni serra sono aumentate del 38%. Ma la scommessa non è ancora persa
di ANTONIO CIANCIULLO
Manifestazione in vista della conferenza Onu a Durban (reuters)
Le emissioni serra sono cresciute del 38 per cento tra il 1990 e il 2009. Il fragile accordo per ridurle, che impegna solo una minoranza dei Paesi inquinatori, sta per scadere. Il numero di governi pronti a sottoscrivere un'intesa per difendere l'atmosfera diminuisce. I climatologi avvertono che, continuando di questo passo, l'aumento di temperatura nel corso del secolo sarà devastante.
Messa in questi termini la scommessa di Durban, la conferenza Onu sul clima che si apre domani in Sudafrica, appare persa in partenza. La prima fase del protocollo di Kyoto del 1997, che impegnava i Paesi industrializzati a ridurre del 5,2 per cento le emissioni di gas serra entro il 2012, si concluderà alla fine del prossimo anno. Calcolando che per ratificarlo ci sono voluti sette anni di negoziati, con gli Stati Uniti che frenavano e l'Europa che spingeva, si comprende perché la missione di arrivare in tempo alla seconda fase di impegni appare impossibile.
Anche perché Canada, Russia e Giappone hanno già fatto sapere che non intendono firmare un impegno per il periodo che si apre con il 2013. Gli Stati Uniti non hanno mai sottoscritto alcun accordo vincolante sul clima. E i Paesi di nuova industrializzazione, dal 2008 responsabili della maggior parte delle emissioni serra, utilizzano la formula delle "responsabilità comuni ma differenziate" per rinviare l'accettazione di un target obbligato di riduzione.
La conferenza di Durban, presentata come "l'ultima occasione per salvare il clima", segnerà dunque il tramonto di un impegno per la difesa dell'atmosfera? Non è detto perché molti dei protagonisti della battaglia climatica non hanno gettato la spugna. L'Unione europea, che ha mantenuto gli impegni assunti a Kyoto, ritiene che solo se le emissioni globali di gas serra si dimezzeranno rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050 si potrà avere un 50 per cento di possibilità di contenere l'aumento della temperatura globale di 2 gradi, il tetto oltre il quale i danni comincerebbero ad assumere una dimensione catastrofica.
E l'Unep, il Programma Ambiente delle Nazioni Unite, ha elaborato uno scenario di riduzione nei vari settori (produzione di energia elettrica, trasporti, edilizia, agricoltura, rifiuti) in cui si dimostra che i tagli sono realizzabili non solo a costi contenuti, ma con meccanismi che porterebbero a ricadute positive sull'insieme del'economia.
Da Durban, con buona probabilità, uscirà dunque uno scenario di transizione, un ponte tra il 2012 e il 2015, l'anno in cui potrebbe essere raggiunto un accordo più ampio. Un'intesa che probabilmente risulterà agevolata dal ruolo crescente della green economy nei Paesi caratterizzati dalle economie più dinamiche, a cominciare dalla Cina che ha già conquistato la leadership nel campo dell'eolico e del fotovoltaico.
Già a Cancun, alla conferenza sul clima del 2010, i Paesi industrializzati avevano scelto la strada degli incentivi economici impegnandosi a stanziare un fondo per il trasferimento di tecnologie pulite ai Paesi in via di sviluppo di 30 miliardi di dollari nel periodo 2010-2012 e di 100 miliardi di dollari l'anno fino al 2020. Una cifra in linea con quella che, secondo i calcoli di Confindustria, servirebbe per realizzare gli obiettivi volontari proposti al tavolo del negoziato dai Paesi che hanno firmato l'accordo di Cancun: 40 miliardi di dollari all'anno da qui al 2020. Inoltre il mercato del carbonio, cioè la compravendita di emissioni serra, nel 2008 è arrivato a 92 miliardi di euro e continua a crescere.
Insomma i meccanismi di mercato stanno timidamente cominciando a rivelare la verità dei prezzi, cioè il costo occulto prodotto dall'inquinamento. Un costo nascosto dal fiume di denaro che per decenni ha sostenuto il sistema produttivo basato sui combustibili fossili (ancora oggi incentivati con 400 miliardi di dollari di sussidi l'anno). Ma il processo è lento, mentre il disastro climatico avanza veloce. La sfida di Durban è tutta qui: si riuscirà ad accelerare il percorso di guarigione dell'atmosfera prima che la malattia diventi devastante?
(27 novembre 2011)
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/11/27/news/conferenza_onu_durban-25672159/
mercoledì 30 novembre 2011
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