lunedì 28 novembre 2011

acqua pubblica, come i gestori hanno tradito il referendum

Referendum sull’acqua: volontà popolare imprigionata nei cavilli giuridici dei gestori Subito dopo l'esito della consultazione popolare del 12 e 13 giugno scorsi, l'Acea ha chiesto rassicurazioni sul mantenimento degli accordi stipulati a Giulio Napolitano, avvocato, esperto del settore e figlio del Presidente della Repubblica. Secondo il parere legale, l'esito dei quesiti non sarebbe sufficiente a intaccare gli interessi delle società idriche. Ecco perchéIl Sì all’acqua pubblica uscito dalle urne lo scorso giugno rischia di vedere i suoi effetti allontanarsi nel tempo, imprigionando la volontà popolare nelle pastoie giuridiche della giustizia amministrativa. E’ questa la tattica che i gestori privati dell’acqua hanno messo in campo subito dopo il voto dei ventisette milioni di italiani il 12 e 13 giugno scorsi, preparando le battaglie legali che potranno affollare i Tribunali nei prossimi mesi.

La mossa avviata da Acea - primo operatore idrico, società quotata in Borsa – che ha chiesto ad un giurista esperto quali armi tecniche utilizzare per contrastare la volontà dei cittadini italiani, è arrivata all’indomani del voto, dopo un Consiglio di amministrazione dove predominavano le facce cupe. Un parere contenuto in un documento di sedici pagine – che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare – con la pesante firma dell’avvocato Giulio Napolitano, ordinario di diritto pubblico a Roma Tre, uno dei due figli del Presidente della Repubblica – che gira dallo scorso giugno riservatamente tra i gestori dell’acqua, citato nei Consigli di amministrazione di tante Spa che si occupano di risorse idriche. Un dossier articolato, inviato a Renato Conti, manager della multinazionale romana, a capo della Direzione funzione legale, quando nelle piazze ancora si festeggiava la vittoria dei Sì.

Due i quesiti che Acea ha posto poche ore dopo il risultato del referendum: “Conoscere il nuovo assetto normativo dei servizi pubblici locali, verificando la legittimità delle convenzioni” e “un parere in merito alla nuova disciplina delle tariffa”, chiedendo lumi sulla “legittimità e validità degli atti stipulati”. In altre parole Acea voleva essere rassicurata dalla voce autorevole di Giulio Napolitano sul mantenimento di quelle condizioni di gestione dell’acqua contestate da tanti comitati che avevano portato milioni di italiani ad esprimere il loro voto per una gestione pubblica del servizio idrico integrato.

L’importanza del documento – di per se assolutamente legittimo – sta nella data, il 24 giugno 2011. L’interpretazione giuridica contenuta anticipa le tesi sostenute poi in tutta Italia dalle Autorità d’Ambito, che fino ad oggi hanno negato la riduzione delle bollette dopo l’abrogazione referendaria del 7% di profitto garantito.

Acqua pubblica


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Chi pensava che con il referendum si potesse tornare alla gestione pubblica dell’acqua, secondo Giulio Napolitano si deve mettere l’anima in pace: con il risultato del voto “in nessun modo (…) è possibile trarre indicazioni prescrittive in ordine ad un ipotetico ritorno a forme di gestione integralmente pubblica dei servizi idrici”. Nulla da fare – almeno nell’immediato – anche per il secondo quesito, quello che ha eliminato il profitto garantito, considerato dai gestori privati dell’acqua come una vera e propria bomba atomica in grado di eliminare ogni convenienza nel business degli acquedotti.

“La valutazione dell’effettivo impatto dell’abrogazione referendaria – si legge nel parere inviato ad Acea – è resa più complessa (…) dal decreto legge 70/2011″, ovvero dalla norma del governo Berlusconi che ha creato l’Agenzia di vigilanza delle risorse idriche. Secondo Giulio Napolitano toccherà proprio a questo organismo modificare la tariffa, come poi hanno sostenuto i gestori in tutta Italia. Peccato che questo nuovo organismo non è stato creato fino ad oggi. E, secondo il documento, le conferenze dei sindaci non hanno nessun potere per cambiare immediatamente la tariffa, perché questa operazione non terrebbe conto del “costo finanziario della fornitura del servizio”. Una tesi che avrà un particolare successo, partendo dalla Puglia - che non ha abrogato il 7% ritenendolo, appunto, un costo finanziario – fino all’ultimo documento di fine ottobre della commissione di vigilanza delle risorse idriche.

Ma c’è di più, una sorta di cavallo di Troia che potrebbe garantire alle società private dell’acqua di mantenere inalterati i dividendi dopo il referendum: “Tutti gli investimenti già effettuati dal gestore – spiega Napolitano -, anche laddove le opere non siano completate, dovranno continuare a essere coperti e remunerati in base alla tariffa a suo tempo fissata dall’Autorità d’Ambito“. In altre parole, se l’investimento del gestore è ammortizzato anche sui prossimi anni, il 7% di remunerazione del capitale rimane, con buona pace del referendum.

Per capire l’importanza di questo punto occorre guardare da vicino i conti di Acea, scoprendo gli incredibili meccanismi – permessi da quella legge poi abrogata – che hanno portato a utili milionari. Quando Acea ha iniziato a gestire, ad esempio, l’acqua nella provincia di Roma, ha stimato il proprio valore – e quindi la base per il calcolo del profitto del 7% – in 894,34 milioni di euro. Una cifra che viene sommata, anno dopo anno, all’ammortamento degli investimenti, facendo così crescere esponenzialmente la remunerazione, che, dopo le tasse, finisce nei dividendi per gli azionisti (oltre al Comune di Roma, che detiene il 51%, il gruppo Caltagirone, la Suez e tanti altri investitori privati). Quel valore iniziale doveva essere confermato da una perizia fatta dalla conferenza dei sindaci, atto che, però, non è mai stato realizzato, come ha ammesso la stessa segreteria tecnica operativa. Questo meccanismo ha garantito ad Acea, per la sola gestione dell’acqua nella provincia di Roma, dal 2003 al 2008, 404 milioni di euro di remunerazione del capitale investito, una cifra che ha alimentato i conti – non sempre rosei – della holding romana. Ora è probabile che Acea consideri quella cifra iniziale – che valuta il suo valore basandosi su criteri come il posizionamento sul mercato e il management – come un investimento avvenuto prima del referendum, e quindi, secondo il parere chiesto al giurista, intoccabile.

La battaglia che i comitati hanno annunciato sotto il nome di “obbedienza civile” si preannuncia, dunque, campale. La difesa del voto dovrà passare per i meandri giuridici pronti a bloccare quella piccola rivoluzione di giugno che punta a difendere i beni comuni.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/27/ecco-come-disinnesca-referendum-sullacqua-tutto-norma-legge/173509/

La piazza non basta, tantomeno il voto. Il Sì all’acqua pubblica uscito dalle urne rischia di vedere i suoi effetti allontanarsi nel tempo, imprigionando la volontà popolare nelle pastoie giuridiche della giustizia amministrativa. E’ questa la tattica che i gestori privati dell’acqua hanno messo in campo subito dopo il voto del 12 e 13 giugno scorsi. La mossa avviata da Acea - primo operatore idrico e società quotata in Borsa – è arrivata immediatamente dopo le urne. Un parere - contenuto in un documento di sedici pagine firmato dall’avvocato Giulio Napolitano - che fino ad oggi è circolato riservatamente tra i gestori dell’acqua. Tra cavilli, eccezioni e norme, il testo dice sostanzialmente una cosa: il Sì di 27 milioni di persone non è sufficiente ad intaccare profitto e gestione dell'acqua. Per gli amministratori delle società idriche è abbastanza per difendere lo status quo, e aspettare anni di ricorsi per adeguarsi ad eventuali sentenze amministrative di Andrea Palladino

"REFERENDUM TRADITO", LA MAPPA DEI PROVVEDIMENTI
L'ACQUA "SALATA" DELLA TOSCANA
“Tradito l’esito del referendum”
Il popolo dell’acqua di nuovo in piazza Leggi nazionali e norme locali contro quanto stabilito dai quesiti di giugno: da nord a sud, la mappa dei provvedimenti contrari alla volontà popolare. Con una eccezione: Napoli. E i comitati tornano a manifestare a Roma, dove tutto era iniziatoDi nuovo in piazza. E’ così che il popolo dell’acqua lotta. E’ così che lo fa ancora una volta, con una manifestazione a Roma. Un corteo da piazza della Repubblica alla Bocca della Verità, proprio lì dove le bandiere dell’acqua sventolavano in festa a giugno, forti di un risultato “storico”. Già, perché è vero che il referendum del 12 e del 13 giugno è stato vinto – stravinto –, dopo 15 anni in cui le consultazioni dal basso all’italiana non erano riuscite a raggiungere sistematicamente il quorum. E’ vero che 27 milioni di italiani hanno detto no alla privatizzazione dell’acqua. Ma è anche vero che, dicono i Comitati, la volontà popolare non solo non è stata rispettata, ma rischia di essere “cancellata”.

I movimenti per l’acqua si sentono “custodi” degli oltre 27 milioni di elettori ai referendum, e ritengono di esserlo anche per la giurisprudenza. In questi giorni piangono la scomparsa di Danielle Mitterand, “grande donna, attivista per l’acqua e per i diritti umani”, una signora “che apparteneva al mondo intero”. E’ anche nel suo nome che vogliono “far valere il mandato del popolo italiano, andando verso la ripubblicizzazione del servizio pubblico”.

“Si scrive acqua, si legge democrazia” è da sempre il motto di questo movimento. Ecco perché i comitati referendari, forti non solo del risultato di giugno ma anche di tutto quello che a quella vittoria ha portato (non ultimo aver raccolto un milione e 400mila firme per presentare i quesiti), solleveranno a giorni la questione del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato presso la Corte Costituzionale. Il governo – spiegano – ha approvato infatti norme contrarie all’esito referendario. Norme, secondo la tesi dei giuristi del Forum – in “contrasto costituzionale” con il voto popolare, potere dello Stato tanto quanto l’esecutivo e del quale i Comitati referendari sono rappresentanti.

Ma cosa sta succedendo? Il punto è che dalle parti del potere centrale, ma anche da quelle della politica locale, il post-referendum è stato un proliferare di provvedimenti “lontani” da quanto espresso dagli italiani. Prima di tutto la manovra estiva, a nemmeno un mese dalla ratifica del Capo dello Stato del risultato del referendum – e quindi dall’abrogazione della norma (l’art.23bis del decreto Ronchi) che obbligava a mettere a gara la gestione dei servizi pubblici locali. Il l3 agosto, nell’articolo 4 della manovra, è stata approvata quella che i comitati chiamano una “fotocopia del decreto Ronchi”. Una norma che ricalcherebbe “fedelmente” l’art.23bis, reinserendo la liberalizzazione dei servizi pubblici locali abrogata dal primo quesito del referendum. Unica accortezza, la specifica: “tranne per il servizio idrico”. “Come se gli italiani avessero votato solo per l’acqua”, dice Marco Bersani di Attac Italia. “Tra l’altro sappiamo che l’intenzione è quella di inserire anche il servizio idrico”. E poi. Nella legge di stabilità si rinforza il concetto, stabilendo che i sindaci che non metteranno a gara i servizi pubblici locali entro il 31 marzo 2012 potranno essere commissariati o destituiti.


LOMBARDIA

Questo a livello nazionale. Ma anche tra gli enti locali c’è un bel fermento. A partire dal caso di Cremona. Gli acquedotti della provincia lombarda, infatti, “rischiano”, nonostante il referendum, di andare in gestione a una società mista. La conferenza dei sindaci dell’Ato, l’autorità d’ambito, doveva decidere l’affidamento del servizio idrico a una società misto pubblico-privata (60% in mano al pubblico, 40% in mano ai privati) per poi passare alla gara ad evidenza pubblica. Per ora la mobilitazione dei comitati per l’acqua pubblica, con un presidio di 250 persone lo scorso 22 novembre mentre era in corso l’assemblea dei sindaci, ha bloccato l’iter. I sindaci hanno fatto mancare il numero legale, ma il “pericolo” resta. L’articolo 23bis del decreto Ronchi obbligava a privatizzare entro il 31 dicembre 2011: abrogata quella norma con il primo quesito referendario, si fa riferimento – secondo i dettami della Corte Costituzionale – alla disciplina comunitaria, che prevede tutte le forme di gestione possibili, privatizzazione inclusa (ecco perché i Comitati per l’acqua pubblica ce l’hanno anche con l’Unione europea, rea di ammettere e anche spingere le liberalizzazioni, compresa quella del servizio idrico). E il “pericolo” resta, a Cremona e dintorni, anche rispetto alle intenzioni dell’amministrazione comunale (con il sindaco Oreste Perri in quota An-Pdl) e di quella provinciale (con Massimiliano Salini, uomo di Roberto Formigoni). Perché – dicono – necessari e urgenti sono gli interventi su acquedotti, fogne e depuratori, tubature e pozzi a rischio inquinamento. La stima dell’Ato è di una spesa di 371 milioni di euro per i prossimi due decenni. I Comuni, si sa, non godono di buona salute economica e l’allarme lanciato da Cremona è che lasciare il servizio in mano pubblica – come l’esito referendario richiederebbe – porterebbe ad un aumento delle tariffe per ovviare alla carenza di risorse.

TORINO

E poi c’è Torino, con Piero Fassino sindaco. E con la sua delibera per la privatizzazione delle aziende dei rifiuti e dei trasporti pubblici locali ancora in capo al Comune. Eppure il Pd, alla fine – tra se, ma, forse, chissà, però, ma anche – sul carro dei vincitori del referendum ci era salito, appoggiandolo. Per il momento, all’ombra della Mole, l’acqua resta fuori dalla delibera fassiniana, ma il problema resta. Nel “fare finta che gli italiani abbiano votato solo per il servizio idrico e non per tutti i servizi pubblici locali” e perché neanche l’acqua sembra veramente salva, annoverando tra i suoi potenziali nemici (a Torino ma anche nel resto d’Italia) persino il partito di Nichi Vendola.

PUGLIA

Sel è accusato di comportamenti “ambigui” di fronte all’esito referendario. E Vendola è un “sorvegliato speciale”. Perché quella dell’acqua come bene comune è stata a lungo una battaglia della quale il buon Nichi si è fatto carico in Puglia. E di fronte alla quale oggi risulta in “colpevole ritardo”: da ‘ormai troppo tempo’ il Comitato pugliese Acqua bene comune invita il governatore “a rendere finalmente Legge regionale” il Ddl che trasforma l’Acquedotto pugliese da S.p.A. in “azienda di diritto pubblico”. E da ‘ormai troppo tempo’ la risposta che Vendola avrebbe dato ai Comitati (ovvero che “l’iter è in capo al consiglio regionale e il presidente ha poteri limitati”, raccontano) al popolo dell’acqua, pugliese ma non solo, non basta più.

FIRENZE

Buone notizie arrivano invece da Firenze, dove è stata approvata in Commissione Ambiente – con voto trasversale di Sel, Pd e Pdl – la mozione sull’adeguamento all’esito del referendum di giugno delle bollette di Publiacqua. L’atto impegna ora l’amministrazione a presentare nella prima assemblea utile dell’Ato la proposta di adeguare la tariffa del servizio idrico all’esito referendario, abrogando il 7% di remunerazione garantita del capitale investito.

SALERNO E NAPOLI

A Salerno, secondo i Comitati, non si privatizza formalmente, ma la costituzione di una holding multiservizi, in cui è stata inserita anche la gestione del servizio idrico, rappresenta per il referendari il “primo passo verso la privatizzazione”. La giunta di centrosinistra, con a capo Vincenzo De Luca, ha, infatti, ceduto la Salerno Sistemi Spa, controllata dal Comune, alla Salerno Energia Spa, azienda mista di diritto privato. Sempre dalla Campania, però, arriva l’altra buona notizia, con Napoli. Il capoluogo partenopeo rappresenta, ad oggi, l’unico caso reale in Italia di pubblicizzazione del servizio idrico. La giunta di Luigi De Magistris ha trasformato l’Arin Spa, società a totale capitale pubblico, in un’azienda speciale chiamata “Acqua bene comune Napoli”. E’ quello che chiede il popolo dell’acqua: un ente di diritto pubblico a cui parteciperanno cittadini e lavoratori del Servizio idrico integrato. “Napoli lo ha fatto in tre mesi”, dice Paolo Carsetti. “Non si capisce perché nessun altro in Italia lo abbia fatto”.

ROMA

E nella Capitale cosa succede? Nessuno – ricorda il Forum – ha mai smentito la notizia diffusa alcuni giorni fa in merito al presunto finanziamento (200mila euro con causale “relazioni pubbliche”) da parte di Acea – della quale il Campidoglio detiene il 51% delle azioni – al comitato del “no” al referendum durante la campagna referendaria. Comitato cui fa capo anche Franco Bassanini, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti, e il cui presidente è Walter Mazzitti. 200mila euro che sarebbero arrivati nelle casse del comitato per il no, movimentati – questa l’accusa – dall’amministratore delegato di Acea, Marco Staderini, e dal presidente della società Giancarlo Cremonesi, senza passare per il Cda.

di Angela Gennaro
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/26/tradito-lesito-referendum-popolo-dellacqua-nuovo-piazza/173315/

Acqua ‘salata’ in Toscana: dopo il referendum
i cittadini invece di rispamiare pagano di più La beffa legata al caso Publiacqua, società pubblica al 60% (la parte privata è controllata dalla politica di ogni colore): la gente risparmia sui consumi, ma deve sborsare anche per quello che non ha utilizzatoIl numero uno di Publiacqua, Erasmo D'Angelis, con il suo mentore politico, il sindaco di Firenze Matteo Renzi L’Ambito territoriale ottimale (Ato) numero 3 del Medio Valdarno (territorio che comprende le 4 province di Firenze, Prato, Pistoia e Arezzo), ha riconosciuto per i prossimi 10 anni al gestore Publiacqua una remunerazione sul capitale investito con un tasso del 7%, che ammonta in totale alla cifra di 294 milioni di euro. A questa cifra occorre aggiungere che gli utenti hanno già pagato in tariffa remunerazioni e ammortamenti per investimenti non effettuati per un valore di 38,4 milioni di euro. Altri 46 milioni dovranno essere resi a Pubbliacqua che li pretende per i minori consumi effettuati rispetto alle previsioni.

A denunciare la situazione, scagliandosi contro la holding Pubbliacqua e l’acquiescenza di alcuni sindaci di Ato3 è Piera Ballabio, capogruppo della lista civica Libero Mugello nel Comune di Borgo San Lorenzo. “Abbiamo esaminato nel dettaglio – afferma – la terza revisione tariffaria approvata il 17 dicembre 2010 dai sindaci che compongono Ato3. Con il documento, la maggioranza dei sindaci ha respinto la richiesta del comune di Firenze di prorogare al 2026 la concessione del servizio a Publiacqua. La revisione è stata poi allegata definitivamente ad una delibera del consiglio di amministrazione dell’Ato del 22 luglio 2011, approvata quindi dopo l’esito referendario, senza che vi sia stato il benché minimo accenno ai cambiamenti introdotti dal risultato delle urne”.

Oltre al danno, la beffa. I cittadini che si sono visti costretti a pagare di tasca loro la remunerazione del capitale (accordata a Pubbliacqua fino al 2021, anno in cui scade la concessione) e le spese per gli ammortamenti su investimenti non effettuati hanno pensato che la cifra sborsata in eccedenza gli venisse restituita nei prossimi anni. E’ successo invece l’esatto contrario: i risparmi sui consumi di acqua effettuati dai cittadini (3 milioni di metri cubi nel 2002, 4 nel 2004, 2 nel 2009) hanno smentito le previsioni di entrata di Publiacqua e così ai 14,70 milioni di euro, resi nel triennio appena trascorso, si aggiungono 46,2 milioni, che gli utenti stanno rendendo e renderanno nei prossimi tre anni.

Numeri di tutto rispetto, insomma, che stupiscono ancora di più se si pensa che Publiacqua, una società che vanta un fatturato da 160 milioni di euro, è pubblica al 60%. La quota restante è in mano alla Spa Acque Blu Fiorentine, un partner privato di cui Acea Spa detiene il 68,99%. Le altre quote sono delle Spa Ondeo Italia (22,83%), Mps Investments (8%). Il residuo 0,18% è detenuto dal CCC (Consorzio cooperative costruzioni) di Bologna, da Vianini lavori (società per azioni controllata dalla holding Caltagirone Spa) e dal Consorzio toscano cooperative (CTC).

A farla da padrone, tra i soci privati, è Acea, una delle principali multiutility italiane. La società, quotata in Borsa dal 1999, è il primo operatore nazionale nel settore idrico, il terzo nella distribuzione di elettricità e nella vendita di energia e il quinto nel settore ambientale. Il gruppo, che conta oltre 6.700 dipendenti, è a maggioranza pubblica: il Comune di Roma infatti ne detiene il 51%. Della restante quota il 15% è di Francesco Gaetano Caltagirone, l’11,5 della francese Suez Environnement (di cui il colosso GDF Suez S.A. è azionista al 35%), il 22,4% invece è diviso tra numerosi azionisti minoritari.

Se si analizza l’organigramma societario di Acea balzano agli occhi i nomi di due degli uomini d’oro dell’acqua italiana. A capo della società è stato messo, per volere del sindaco di Roma Gianni Alemanno, Giancarlo Cremonesi (ex-presidente dell’associazione dei costruttori romani), ora presidente di Confservizi, della Camera di commercio romana e di Unioncamere. Amministratore delegato di Acea è Marco Staderini, ex-consigliere Rai e presidente e amministratore di Lottomatica, in quota Udc. La sua nomina è stata sostenuta da Alemanno e da Caltagirone: Staderini è nome gradito a Pier Ferdinando Casini, genero di Caltagirone.

Come una nomina ai vertici di Acea è d’area casiniana, così la poltrona più importante di Pubbliacqua è occupata da Erasmo D’Angelis, vicino al sindaco di Firenze Matteo Renzi. Il presidente della partecipata che gestisce le risorse idriche di Ato3 e serve 49 Comuni in cui abita un terzo della popolazione regionale (circa 1 milione 277 mila abitanti) è un giornalista professionista. D’Angelis è stato capo della redazione fiorentina de il Manifesto e in passato ha portato avanti diverse battaglie all’interno di Legambiente, salvo poi sposare il progetto della variante di valico. In politica è sceso a fianco della Margherita, di cui è stato consigliere regionale in Toscana. Oggi D’Angelis è un sostenitore di un altro ex della Margherita, il primo cittadino di Firenze Matteo Renzi. Insieme a lui, a dar forza al blocco del rottamatore, si sono schierati due pilastri di Legambiente: il senatore Roberto Della Seta e l’onorevole Ermete Realacci. Il sostegno accordato a Renzi non ha tardato a dare i suoi frutti: terminato l’incarico in Regione, il sindaco fiorentino ha messo D’Angelis a capo di Pubbliacqua.

La partita che si gioca sull’acqua nel territorio toscano dell’Ato3 non può che attirare nuovi investitori privati: i cittadini consumano meno, ma pagano di più. L’affare c’è, e lo sanno bene gli attuali gestori della cordata fiorentina-romana. Ballabio, dati alla mano, parla di un futuro non esattamente roseo per le tasche dei cittadini che vivono nell’area gestita da Pubbliacqua: “Il risultato finale di questa terza revisione tariffaria è la crescita continua della tariffa nei prossimi dieci anni: nel 2021 l’acqua costerà il 33,7% in più, la fognatura sarà aumentata del 102,2% e la depurazione del 33,3%”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/26/acqua-salata-toscana-dopo-referendum-cittadini-invece-rispamiare-pagano/173329/

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