in tante altre regioni, dalla Puglia alla Sicilia. Allora via
alle perforazioni. Ma benefici e danni non sono chiari
MONTI
HA LASCIATO
IN
EREDITÀ
IL
RADDOPPIO
DELLA
PRODUZIONE
DI
IDROCARBURI
NAZIONALI
ENTRO
IL
2020, COME
NEGLI
ANNI ’90:
QUINDI
DAL 7
AL
14 PER CENTO
di
Thomas
Mackinson
Un’esca
che galleggia lenta nell’Alto Adriatico
rischia
di provocare una marea nera lungo
tutte
le coste italiane, dal Veneto alla Sicilia. A
lanciarla
è stato l’ex premier Romano Prodi
che,
in una lettera al M
e ss a g g e ro ,
ha chiesto al governo
di
darsi una mossa per cogliere un’occasione d’oro. In
questo
caso l’oro è nero, come petrolio.
Proprio
lungo la linea di confine delle acque territoriali
della
Croazia, sotto 12mila km quadrati di mare, si
nasconderebbero
enormi giacimenti di gas e oro nero.
Basterebbe
prenderli – assicura il professore – per migliorare
la
bilancia dei pagamenti, aumentare le entrate
fiscali,
ridurre la bolletta energetica e la dipendenza da
Russia,
Libia, Algeria. Problema: rientra tra i tesori che
l’Italia
non sfrutta, scrive Prodi, per il principio di precauzione
che
tutto blocca. Nel caso del Golfo di Venezia,
le
attività di esplorazione e coltivazione di idrocarburi
sono
bloccate dal 1991 per il rischio di subsidenza
delle
coste e lo rimarranno finché Regione Veneto
e
Consiglio dei Ministri – supportati dagli enti di
tutela
ambientale – avranno accertato l’assenza di rischi
in
via definitiva. Ma in Italia, si sa, nulla è più definitivo
del
provvisorio.
La
gara con
la Croazia
Ecco
servita, allora, l’altra ragione per trivellare in
quell’area:
se non lo facciamo noi, comunque lo fa la
Croazia.
Il nostro dirimpettaio, quel tesoro, non intende
farselo
sfuggire. E corre tanto che a gennaio ha
concluso
la fase di prospezione dei fondali, entro fine
anno
assegnerà le concessioni di sfruttamento delle 19
piattaforme
che dal 2019 inizieranno a pompare, secondo
le
stime, fino a 3 miliardi di barili.
La
mossa, ragiona Prodi, mette due volte in difficoltà
l'Italia:
se non fa nulla rischia di condividere tutti i rischi
dell'impresa
croata (già evidenziati dal ritrovamento di
carcasse
di delfini e tartarughe lungo le coste italiane) e
di
lasciare tutti i vantaggi al governo di Zagabria; se si
muove
in ritardo rischia poi l'effetto “granita”, per cui
chi
succhia per primo dallo stesso giacimento mette in
pancia
la parte più nobile e ricca di idrocarburi. L’idea
di
uscire dall’angolo deferendo il vicino a un arbitrato
internazionale
non sfiora il governo. E non solo per le
scarse
possibilità di successo.
Il
fatto è che la contesa a largo di Chioggia, con le sue
contraddizioni,
potrebbe segnare il match
point di
una
partita
ultraventennale che vede contrapporsi, anno dopo
anno,
gli evocatori della nuova Dallas italiana e le
associazioni
di ambientalisti, pescatori e cittadini non
arresi
all’imperio del petrolio. Una tempesta perfetta in
un
bicchier d’acqua, vista l’estensione dell’area marina,
che
consentirebbe però ai primi di schiacciare le resistenze
dei
secondi sotto il peso di mirabolanti vantaggi
economici.
Prodi ricorda, ad esempio, che se l’Italia
accelerasse
su progetti e giacimenti già individuati “p otrebbe
produrre
22 milioni di tonnellate entro il 2020,
con
investimenti per 15 miliardi di euro e dare lavoro a
decine
di imprese”. Messaggio diretto anche a Palazzo
Chigi:
“Come i governi precedenti non sa dove trovare
i
soldi per fare fronte ai suoi molteplici impegni...”.
E
che fa il Governo? Al richiamo della sirena risponde
subito
Federica Guidi, ministro del Petrolio in
pectore.
“Non
solo in Adriatico ma in diverse zone del Paese,
spesso
localizzate nelle regioni più svantaggiate del
Mezzogiorno,
abbiamo importanti giacimenti. Non capisco
perché
dovremmo precluderci la possibilità di
utilizzarli,
pur mettendo al primo posto la tutela
dell’ambiente
e della salute”, ha detto all’ultimo G7. Il
governo
ha dunque intenzione di dar seguito agli strampalati
obiettivi della “Strategia energetica nazionale”
che
un dimissionario governo Monti ha lasciato in
eredità,
con l'indicazione di raddoppiare la produzione
di
idrocarburi nazionali entro il 2020, tornando ai livelli
degli
anni Novanta, e di portare il loro contributo al
fabbisogno
energetico dal 7 al 14 per cento.
La
leva individuata nella Sen per “liberare” questo potenziale
imprigionato
nella roccia è la stessa chiesta a
gran
voce dai petrolieri: accelerare e semplificare le
procedure
di rilascio dei titoli minerari. La risposta è un
“nuovo
modello di conferimento dei permessi che preveda
un
titolo abilitativo unico per esplorazione e produzione,
con
anche un termine ultimo per gli enti interessati
dalle
procedure di valutazione”, fanno sapere
dal
Mise. Una volta passato il termine, la decisione
spetta
solo al Consiglio dei Ministri (come previsto dal
DL
83/2012). In pratica si ridimensiona, fino a estrometterli
del
tutto dai processi di valutazione, proprio
quegli
enti, territori e associazioni che negli ultimi 20
anni
hanno dato battaglia contro la devastazione ambientale
e
accresciuto la sensibilità pubblica in tutto il
Paese.
Lo
sblocco delle
piattaforme
“L’effetto
sarebbe devastante”, spiega Giorgio Zampetti
di
Legambiente. In una manciata d’anni, dalla dorsale
adriatica
alle coste dell’Abruzzo, fino al tratto di mare
tra
Sicilia e Malta, si assisterebbe a un’epopea delle
trivelle
in mare che non ha precedenti. Alle 105 piattaforme
e
ai 366 pozzi attivi oggi nell’offshore italiano si
aggiungerebbero
quelli derivanti dallo sblocco di 44
istanze
per permesso di ricerca e 9 istanze di coltivazione
depositate
dalle compagnie. Per non dire dell'effetto-
calamita
che una regolazione del settore ancor
più
favorevole ai produttori avrebbe sulla presentazione
di
ulteriori richieste.
Senza
scomodare gli scenari dei rischi e dei costi ambientali
che
tutto questo comporta tocca chiedersi: a che
pro?
Alessandro Giannì, direttore della campagne di
Greenpeace,
non ha dubbi. “Questa campagna per le
perforazioni
si basa su presupposti falsi. I nostri fondali
marini
non sono poi così ricchi di giacimenti, come si
vuol
far credere. Le riserve certe ammontano a soli 10,3
milioni
di tonnellate di petrolio che, ai consumi attuali,
sarebbero
sufficienti a coprire il fabbisogno nazionale
per
qualche mese. Alla luce di questo vorrei che qualcuno
ci
spiegasse che senso ha questa corsa al raddoppio
delle
produzioni che espone le nostre coste, soprattutto
quando
i consumi nazionali di idrocarburi sono in costante
calo”.
Obiezione
cui ministero (e petrolieri) rispondono
all’unisono:
“Lo Stato avrà sempre valori delle riserve
sottostimati
se agli operatori non
viene
concessa la possibilità di condurre
operazioni
di accertamento e
quantificazione
delle potenzialità
del
sottosuolo”, replica Franco Terlizzese,
capo
della direzione per le
risorse
minerarie ed energetiche del
Mise.
“Anziché
ragionare su come aumentare
la
produzione d'idrocarburi –
insiste
Zampetti – potremmo mettere
in
campo adeguate politiche di
riduzione
di combustibili fossili, a
partire
da settori arretrati come l’a utotrasporto
cui
in 10 anni abbiamo
regalato
qualcosa come 4 miliardi tra
buoni
carburante, sgravi fiscali e bonus
pedaggi
autostradali. Basterebbe
usare
diversamente quei soldi per incentivare
il
trasporto merci su rotaia
e
ridurre senza sforzi la nostra bolletta
petrolifera”.
Ma su questi temi
la
“svolta buona” sembra lontana.
Far
consumare carburante in Italia - attraverso tasse,
accise
e Iva - resta il modo più comodo per ripagare
buona
parte della spesa corrente dello Stato. Il petrolio,
a
suo modo, è welfare. Rendere altrettanto profittevole
l'oro
blu richiederebbe ai decisori pubblici ben altro
impegno. il fatto quotidiano 7 luglio 2014
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