lunedì 7 luglio 2014

È partita trivella selvaggia Sotto le acque dell’Adriatico si nasconderebbero giacimenti di gas e oro nero.

Così, si dice, anche
in tante altre regioni, dalla Puglia alla Sicilia. Allora via
alle perforazioni. Ma benefici e danni non sono chiari
MONTI HA LASCIATO
IN EREDITÀ
IL RADDOPPIO
DELLA PRODUZIONE
DI IDROCARBURI
NAZIONALI ENTRO
IL 2020, COME
NEGLI ANNI ’90:
QUINDI DAL 7

AL 14 PER CENTO
 di Thomas Mackinson
Un’esca che galleggia lenta nell’Alto Adriatico
rischia di provocare una marea nera lungo
tutte le coste italiane, dal Veneto alla Sicilia. A
lanciarla è stato l’ex premier Romano Prodi
che, in una lettera al M e ss a g g e ro , ha chiesto al governo
di darsi una mossa per cogliere un’occasione d’oro. In
questo caso l’oro è nero, come petrolio.
Proprio lungo la linea di confine delle acque territoriali
della Croazia, sotto 12mila km quadrati di mare, si
nasconderebbero enormi giacimenti di gas e oro nero.
Basterebbe prenderli – assicura il professore – per migliorare
la bilancia dei pagamenti, aumentare le entrate
fiscali, ridurre la bolletta energetica e la dipendenza da
Russia, Libia, Algeria. Problema: rientra tra i tesori che
l’Italia non sfrutta, scrive Prodi, per il principio di precauzione
che tutto blocca. Nel caso del Golfo di Venezia,
le attività di esplorazione e coltivazione di idrocarburi
sono bloccate dal 1991 per il rischio di subsidenza
delle coste e lo rimarranno finché Regione Veneto
e Consiglio dei Ministri – supportati dagli enti di
tutela ambientale – avranno accertato l’assenza di rischi
in via definitiva. Ma in Italia, si sa, nulla è più definitivo
del provvisorio.
La gara con la Croazia
Ecco servita, allora, l’altra ragione per trivellare in
quell’area: se non lo facciamo noi, comunque lo fa la
Croazia. Il nostro dirimpettaio, quel tesoro, non intende
farselo sfuggire. E corre tanto che a gennaio ha
concluso la fase di prospezione dei fondali, entro fine
anno assegnerà le concessioni di sfruttamento delle 19
piattaforme che dal 2019 inizieranno a pompare, secondo
le stime, fino a 3 miliardi di barili.
La mossa, ragiona Prodi, mette due volte in difficoltà
l'Italia: se non fa nulla rischia di condividere tutti i rischi
dell'impresa croata (già evidenziati dal ritrovamento di
carcasse di delfini e tartarughe lungo le coste italiane) e
di lasciare tutti i vantaggi al governo di Zagabria; se si
muove in ritardo rischia poi l'effetto “granita”, per cui
chi succhia per primo dallo stesso giacimento mette in
pancia la parte più nobile e ricca di idrocarburi. L’idea
di uscire dall’angolo deferendo il vicino a un arbitrato
internazionale non sfiora il governo. E non solo per le
scarse possibilità di successo.
Il fatto è che la contesa a largo di Chioggia, con le sue
contraddizioni, potrebbe segnare il match point di una
partita ultraventennale che vede contrapporsi, anno dopo
anno, gli evocatori della nuova Dallas italiana e le
associazioni di ambientalisti, pescatori e cittadini non
arresi all’imperio del petrolio. Una tempesta perfetta in
un bicchier d’acqua, vista l’estensione dell’area marina,
che consentirebbe però ai primi di schiacciare le resistenze
dei secondi sotto il peso di mirabolanti vantaggi
economici. Prodi ricorda, ad esempio, che se l’Italia
accelerasse su progetti e giacimenti già individuati “p otrebbe
produrre 22 milioni di tonnellate entro il 2020,
con investimenti per 15 miliardi di euro e dare lavoro a
decine di imprese”. Messaggio diretto anche a Palazzo
Chigi: “Come i governi precedenti non sa dove trovare
i soldi per fare fronte ai suoi molteplici impegni...”.
E che fa il Governo? Al richiamo della sirena risponde
subito Federica Guidi, ministro del Petrolio in pectore.
Non solo in Adriatico ma in diverse zone del Paese,
spesso localizzate nelle regioni più svantaggiate del
Mezzogiorno, abbiamo importanti giacimenti. Non capisco
perché dovremmo precluderci la possibilità di
utilizzarli, pur mettendo al primo posto la tutela
dell’ambiente e della salute”, ha detto all’ultimo G7. Il
governo ha dunque intenzione di dar seguito agli strampalati obiettivi della “Strategia energetica nazionale”
che un dimissionario governo Monti ha lasciato in
eredità, con l'indicazione di raddoppiare la produzione
di idrocarburi nazionali entro il 2020, tornando ai livelli
degli anni Novanta, e di portare il loro contributo al
fabbisogno energetico dal 7 al 14 per cento.
La leva individuata nella Sen per “liberare” questo potenziale
imprigionato nella roccia è la stessa chiesta a
gran voce dai petrolieri: accelerare e semplificare le
procedure di rilascio dei titoli minerari. La risposta è un
nuovo modello di conferimento dei permessi che preveda
un titolo abilitativo unico per esplorazione e produzione,
con anche un termine ultimo per gli enti interessati
dalle procedure di valutazione”, fanno sapere
dal Mise. Una volta passato il termine, la decisione
spetta solo al Consiglio dei Ministri (come previsto dal
DL 83/2012). In pratica si ridimensiona, fino a estrometterli
del tutto dai processi di valutazione, proprio
quegli enti, territori e associazioni che negli ultimi 20
anni hanno dato battaglia contro la devastazione ambientale
e accresciuto la sensibilità pubblica in tutto il
Paese.
Lo sblocco delle piattaforme
L’effetto sarebbe devastante”, spiega Giorgio Zampetti
di Legambiente. In una manciata d’anni, dalla dorsale
adriatica alle coste dell’Abruzzo, fino al tratto di mare
tra Sicilia e Malta, si assisterebbe a un’epopea delle
trivelle in mare che non ha precedenti. Alle 105 piattaforme
e ai 366 pozzi attivi oggi nell’offshore italiano si
aggiungerebbero quelli derivanti dallo sblocco di 44
istanze per permesso di ricerca e 9 istanze di coltivazione
depositate dalle compagnie. Per non dire dell'effetto-
calamita che una regolazione del settore ancor
più favorevole ai produttori avrebbe sulla presentazione
di ulteriori richieste.
Senza scomodare gli scenari dei rischi e dei costi ambientali
che tutto questo comporta tocca chiedersi: a che
pro? Alessandro Giannì, direttore della campagne di
Greenpeace, non ha dubbi. “Questa campagna per le
perforazioni si basa su presupposti falsi. I nostri fondali
marini non sono poi così ricchi di giacimenti, come si
vuol far credere. Le riserve certe ammontano a soli 10,3
milioni di tonnellate di petrolio che, ai consumi attuali,
sarebbero sufficienti a coprire il fabbisogno nazionale
per qualche mese. Alla luce di questo vorrei che qualcuno
ci spiegasse che senso ha questa corsa al raddoppio
delle produzioni che espone le nostre coste, soprattutto
quando i consumi nazionali di idrocarburi sono in costante
calo”.
Obiezione cui ministero (e petrolieri) rispondono
all’unisono: “Lo Stato avrà sempre valori delle riserve
sottostimati se agli operatori non
viene concessa la possibilità di condurre
operazioni di accertamento e
quantificazione delle potenzialità
del sottosuolo”, replica Franco Terlizzese,
capo della direzione per le
risorse minerarie ed energetiche del
Mise.
Anziché ragionare su come aumentare
la produzione d'idrocarburi –
insiste Zampetti – potremmo mettere
in campo adeguate politiche di
riduzione di combustibili fossili, a
partire da settori arretrati come l’a utotrasporto
cui in 10 anni abbiamo
regalato qualcosa come 4 miliardi tra
buoni carburante, sgravi fiscali e bonus
pedaggi autostradali. Basterebbe
usare diversamente quei soldi per incentivare
il trasporto merci su rotaia
e ridurre senza sforzi la nostra bolletta
petrolifera”. Ma su questi temi
la “svolta buona” sembra lontana.
Far consumare carburante in Italia - attraverso tasse,
accise e Iva - resta il modo più comodo per ripagare
buona parte della spesa corrente dello Stato. Il petrolio,
a suo modo, è welfare. Rendere altrettanto profittevole
l'oro blu richiederebbe ai decisori pubblici ben altro
impegno. il fatto quotidiano 7 luglio 2014


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