Pochi i controlli. E così si uccidono anche i cetacei mediterranei. Nel Dna dei pescatori di frodo c’è lo sfregio per il rispetto di una risorsa comune
L’onore della pesca è salvo, ma i cetacei e i pescespada sono ancora in pericolo nonostante la soddisfazione espressa dal ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina all’annuncio della chiusura della procedura di infrazione contro l’Italia per l’uso delle reti derivanti. Poche ore prima che il ministro e la Commissione europea riconoscessero «il grande lavoro fatto dall’Italia nell’ultimo triennio sul fronte della legalità in mare», le nostre telecamere documentavano lo sbarco notturno e furtivo di pescespada nel porto di Bagnara Calabra da parte di una motonave che, nonostante il divieto, deteneva le reti illegali a bordo. [English version of the video below]
Scampato il pericolo delle ispezioni comunitarie, i pirati hanno ricominciato a pescare sotto gli occhi poco vigili della Capitaneria di porto che avrebbe il compito di sequestrare le reti illegali e il pesce, oltre a comminare sanzioni. Dieci anni da sorvegliati speciali ma non troppo, visto che a noi è bastata una sola notte sul molo di Bagnara per accertare la fondatezza delle segnalazioni che da giugno arrivavano insistentemente dai pescatori onesti, quelli che si armano di attrezzi legali come il palangaro e la fiocina sperando di pescare quel poco che sfugge ai «muri della morte», i chilometri di reti calati in mare per tutta la notte che intrappolano tutto, incluse tartarughe e cetacei, che non potendo riemergere muoiono soffocati dopo atroci sofferenze. Quelle reti sono la prima causa di morte per i cetacei e nel solo Mediterraneo si stima che, quando le spadare erano legali, ne morissero diecimila all’anno. Per i pescespada e i tonni la sorte porta dritti ai mercati del pesce, al prezzo salato che conosciamo.
Abbiamo pagato cara la sovvenzione milionaria a 700 pescherecci affinché si armassero di attrezzi di pesca più sostenibili ma almeno un centinaio, soprattutto calabresi, siciliani e campani, hanno preso i soldi senza buttare le spadare. Hanno continuato illegalmente ma alla luce del sole con la complicità della politica e delle capitanerie. A sei anni dal bando, nel 2008, la Commissione scriveva: «È ampiamente provato che il sistema di controllo e sanzione applicato in Italia in merito alle reti derivanti sia del tutto insufficiente».
Nel Dna dei pescatori di frodo c’è qualcosa che va oltre la semplice devianza. C’è lo sfregio per il rispetto di una risorsa comune, il liturgico piagnisteo e la devota riconoscenza a tutti i politici che hanno barattato la legalità con i loro voti. C’è una finta povertà che nasconde evasione fiscale un tanto al chilo (un pesce spada può valere anche mille euro).
Nello specchio d’acqua in cui gettano le spadare si riflette la nostra politica ambientalista che ha concesso illegalità e leggi speciali per dieci, lunghi anni, persino quella che sdoganava una spadara più piccola (ferrettara) fino al 2011, nove anni dopo il bando delle reti derivanti! Dopo tanti anni di complicità i recidivi leggeranno l’assoluzione di Bruxelles come un’opportunità per armarsi di spadare. E, come abbiamo dimostrato, lo stanno facendo. Ma insieme a noi, su quel molo, non c’era un solo uomo della capitaneria. Non vogliamo pensare (male) che l’ordine di chiudere un occhio a inizio stagione sia stato impartito dall’alto per evitare che nei registri delle sanzioni in mare (pubbliche) emergesse ancora la pratica illegale, cosa che avrebbe dimostrato la diffusione del fenomeno mettendo a rischio l’assoluzione di Bruxelles. Dunque, è prematuro per il ministro cantare l’Inno alla Gioia, finché non impartirà l’ordine perentorio di non fare più sconti e di procedere con i controlli in mare e al sequestro definitivo delle reti illegali. Perché incombe il rischio di una nuova procedura di infrazione che sarebbe una figuraccia senza precedenti.
La scorsa notte, insieme alla nostra telecamera, c’era un osservatore dell’organizzazione ambientalista Oceana che in una nota ufficiale denuncerà quanto visto alla Commissione europea. D’altro canto la stessa Commissione ha concesso al nostro Paese dieci anni di illegalità per poi chiudere la procedura (guarda il caso) in coincidenza con il semestre di presidenza italiana, che di certo non poteva guidare con la patente di pirata del mare. Oramai l’Europa, nonostante i recenti sforzi per tutelare quel che resta della risorsa ittica, ha sostenuto con regolamenti ad hoc lo sfruttamento indiscriminato della risorse. Dopo avere svuotato i nostri mari, le flotte europee stanno impoverendo quelli altrui.
Siamo spesso convinti di mangiare pesce del Mediterraneo quando il 70 per cento è di importazione. Basti pensare agli accordi che consentono di acquistare pescespada dal Marocco. Lontano dagli occhi e dai regolamenti. Oceana ha documentato un mese fa la presenza di numerose spadare sui pescherecci di Tangeri, in Marocco, Paese che esporta soprattutto in Italia. La delocalizzazione dell’illegalità benedetta da Bruxelles. A questo si deve aggiungere il dato biologico che il pescespada è un animale che da decenni sta soffrendo a causa di una pesca indiscriminata. A rigor di logica non andrebbe consumato, così come non andrebbero consumate molte altre specie che arrivano sulle tavole e nei sacchetti congelati a tutela dei grandi interessi.
Il consumatore è l’unico arbitro che oggi ha lo strumento del boicottaggio per decidere se preservare l’ambiente oppure prediligere i propri appetiti, assecondando anche quelli di chi, in trent’anni di pesca industriale, ha ridotto gli stock ittici del 90 per cento. Con la complicità dei politici di tutto il mondo. Il pesce comincia a puzzare, sempre, dalla testa.
19 luglio 2014 | 12:38
Nessun commento:
Posta un commento