“LE
LEGGI RAZZIALI FURONO UNA DELUSIONE, NON UNA SORPRESA”;“NON
CREDEMMO
AI
RACCONTI INGLESI SULLO STERMINIO DEGLI EBREI”; “ERAVAMO STUPIDI E
ANESTETIZZATI:
ABBIAMO
CHIUSO GLI OCCHI E IN TANTI HANNO PAGATO”. PRIMO
LEVIRACCONTA
A ENZO
BIAGI
LA SUA VITA DA TORINO AD AUSCHWITZ E RITORNO: STUDENTE, PARTIGIANO,
DEPORTATO,
SOPRAVVISSUTO, SCRITTORE. “COME MI SONO SALVATO? FORTUNA, DIREI”
“Questo
secolo”
L’incontro
tra Enzo Biagi e Primo Levi andò in
onda
su RaiUno l’8 giugno 1982 nel programma
“Questo
secolo”: lo scrittore morirà cinque anni dopo
in
circostanze non chiare (per alcuni si suicidò)
Qual
è la differenza tra
i
campi di concentramento
nazisti
e quelli russi?
Il
numero di vittime è
paragonabile,
ma una ce n’è,
credo:
lo scopo dei primi non
era
stroncare una resistenza
politica,
ma la morte
Erano
stati costruiti
per
lo sterminio di un popolo
di
Enzo
Biagi Levi
come ricorda la promulgazione delle leggi
razziali?
Non
è stata una sorpresa quello che è avvenuto
nell’estate
del ’38. Era luglio quando uscì Il
manifesto
della
razza,
dove era scritto che gli ebrei
non
appartenevano alla razza italiana. Tutto
questo
era già nell’aria da tempo, erano già accaduti
fatti
antisemiti, ma nessuno si immaginava
a
quali conseguenze avrebbero portato le
leggi
razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo
che
si sperò che fosse un’eresia del fascismo,
fatta
per accontentare Hitler. Poi si è visto che
non
era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con
grande
paura sin dall’inizio mitigata dal falso
istinto
di conservazione: “Qui certe cose sono
impossibili”.
Cioè negare il pericolo.
Che
cosa cambiò per lei da quel momento?
Abbastanza
poco, perché una disposizione delle
leggi
razziali permetteva che gli studenti ebrei,
già
iscritti all’università, finissero il corso. Con
noi
c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi,
perfino
tedeschi che, essendo già iscritti
al
primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente
quello
che è accaduto al sottoscritto.
Lei
si sentiva ebreo?
Mi
sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo
a
una famiglia ebrea. I miei genitori
non
erano praticanti, andavano in sinagoga una
o
due volte all’anno più per ragioni sociali che
religiose,
per accontentare i nonni, io mai.
Quanto
al resto dell’ebraismo, cioè all’apparte -
nenza
a una certa cultura, da noi non era molto
sentita,
in famiglia si parlava sempre l’italiano,
vestivamo
come gli altri italiani, avevamo lo stesso
aspetto
fisico, eravamo perfettamente integrati,
eravamo
indistinguibili.
C’era
una vita delle comunità ebraiche?
Sì
anche perché le comunità erano numerose,
molto
più di ora. Una vita religiosa, naturalmente,
una
vita sociale e assistenziale, per quello che
era
possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola,
una
casa di riposo per gli anziani e per i malati.
Tutto
questo aggregava gli ebrei e costituiva la
comunità.
Per me non era molto importante.
Quando
Mussolini entrò in guerra, lei come la
prese?
Con
un po’ di paura, ma senza rendermi conto,
come
del resto molti miei coetanei. Non avevamo
un’educazione
politica. Il fascismo aveva
funzionato
soprattutto come anestetico, cioè
privandoci
della sensibilità. C’era la convinzione
che
la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente
e
in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato
a
vedere come erano messe le truppe che
andavano
al fronte occidentale, abbiamo capito
che
finiva male.
Sapevate
quello che stava accadendo in Germania?
Abbastanza
poco, anche per la stupidità, che è
intrinseca
nell’uomo che è in pericolo. La maggior
parte
delle persone quando sono in pericolo
invece
di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi,
come
hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante
certe
notizie che arrivavano da studenti
profughi,
che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia:
raccontavano
cose spaventose. Era uscito
allora
un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava
clandestinamente,
su cosa stava accadendo in
Germania,
sulle atrocità tedesche, lo tradussi io.
Avevo
vent’anni e pensavo che, quando si è in
guerra,
si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario.
Ci
siamo costruiti intorno una falsa
difesa,
abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno
pagato
per questo.
Come
ha vissuto quel tempo fino alla caduta del
fascismo?
Abbastanza
tranquillo, studiando, andando in
montagna.
Avevo un vago presentimento che
l’andare
in montagna mi sarebbe servito. È stato
un
allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.
E
quando è arrivato l’8 settembre?
Io
stavo a Milano, lavoravo regolarmente per
una
ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i
miei
che erano sfollati in collina per decidere il da
farsi.
La
situazione con l’avvento della Repubblica sociale
peggiorò?
Sì,
certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre
’43,
disse esplicitamente, attraverso un manifesto,
che
tutti gli ebrei dovevano presentarsi per
essere
internati nei campi di concentramento.
Cosa
fece?
Nel
dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato
diventai
partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato
nel
marzo del ’44 e poi deportato.
Lei
è stato deportato perché era partigiano o perché
era
ebreo?
Mi
hanno catturato perché ero partigiano, che
fossi
ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti
che
mi hanno catturato lo sospettavano già,
perché
qualcuno glielo aveva detto, nella valle
ero
abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se
sei
ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento
di
Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo
al
muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe
venuto
fuori lo stesso, avevo dei documenti
falsi
che erano mal fatti.
Che
cos’è un lager?
Lager
in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse,
compreso
i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire
giaciglio,
vuol dire accampamento, vuol dire luogo
in cui
si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia
attuale
lager significa solo campo di
concentramento,
è il campo di distruzione.
Lei
ricorda il viaggio verso Auschwitz?
Lo
ricordo come il momento peggiore. Ero in un
vagone
con cinquanta persone, c’erano anche
bambini
e un neonato che avrebbe dovuto prendere
il
latte, ma la madre non ne aveva più, perché
non si
poteva bere, non c’era acqua. Eravamo
tutti
pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la
volontà
precisa, malvagia, maligna, che volevano
farci
del male. Avrebbero potuto darci un po’
d’acqua,
non gli costava niente. Questo non è
accaduto
per tutti i cinque giorni di viaggio. Era
un
atto persecutorio. Volevano farci soffrire il
più
possibile.
Come
ricorda la vita ad Auschwitz?
L’ho
descritta in Se
questo è un uomo.
La notte,
sotto
i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco
in un
mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I
tedeschi
creavano il fracasso a scopo intimidatorio.
Questo
l’ho capito dopo, serviva a far soffrire,
a
spaventare per troncare l’eventuale resistenza,
anche
quella passiva. Siamo stati privati
di
tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle
famiglie
subito.
Esistono
lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?
Per
mia fortuna non ho visto i lager russi, se non
in
condizioni molto diverse, cioè in transito durante
il
viaggio di ritorno, che ho raccontato nel
libro
La
tregua.
Non posso fare un confronto. Ma
per
quello che ho letto non si possono lodare
quelli
russi: hanno avuto un numero di vittime
paragonabile
a quelle dei lager tedeschi, ma per
conto
mio una differenza c’era, ed è fondamentale:
in
quelli tedeschi si cercava la morte, era lo
scopo
principale, erano stati costruiti per sterminare
un
popolo, quelli russi sterminavano
ugualmente
ma lo scopo era diverso, era quello
di
stroncare una resistenza politica, un avversario
politico.
Che
cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di
concentra
mento?
Principalmente
la fortuna. Non c’era una regola
precisa,
visibile, che faceva sopravvivere il più colto
o
il più ignorante, il più religioso o il più incredulo.
Prima
di tutto la fortuna, poi a molta distanza
la
salute e proseguendo ancora, la mia curiosità
verso
il mondo intero, che mi ha permesso
di
non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere
l’interesse
per il mondo era mortale, voleva
dire
cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.
Come
ha vissuto ad Auschwitz?
Ero
nel campo centrale, quello più grande, eravamo
in
dieci-dodici mila prigionieri. Il campo
era
incorporato nell’industria chimica, per me è
stato
provvidenziale perché io sono laureato in
Chimica.
Ero non Primo Levi ma il chimico n.
4517,
questo mi ha permesso di lavorare negli
ultimi
due mesi, quelli più freddi, dentro a un
laboratorio.
Questo mi ha aiutato a sopravvivere.
C’erano
due allarmi al giorno: quando suonava
la
prima sirena, dovevo portare tutta l’ap -
parecchiatura
in cantina, poi, quando suonava
quella
di cessato allarme, dovevo riportare di
nuovo
tutto su.
Lei
ha scritto che sopravvivevano più facilmente
quelli
che avevano fede.
Sì,
questa è una constatazione che ho fatto e che
in
molti mi hanno confermato. Qualunque fede
religiosa,
cattolica, ebraica o protestante, o fede
politica.
È il percepire se stessi non più come individui
ma
come membri di un gruppo: “Anche
se
muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza
non
è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza
non
lo avevo.
È
vero che cadevano più facilmente i più robusti?
È
vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un
uomo
di quaranta-cinquanta chili mangia la metà
di
un uomo di novanta, ha bisogno di metà
calorie,
e siccome le calorie erano sempre quelle,
ed
erano molto poche, un uomo robusto rischiava
di
più la vita. Quando sono entrato nel lager
pesavo
49 chili, ero molto magro, non ero malato.
Molti
contadini ebrei ungheresi, pur essendo
dei
colossi, morivano di fame in sei o sette
giorni.
Che
cosa mancava di più: la facoltà di decidere?
In
primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di
tutti.
Quando uno aveva mangiato un pezzo di
pane
allora venivano a galla le altre mancanze, il
freddo,
la mancanza di contatti umani, la lontananza
da
casa...
La
nostalgia, pesava di più?
Pesava
soltanto quando i bisogni elementari erano
soddisfatti.
La nostalgia è un dolore umano,
un
dolore al di sopra della cintola, diciamo, che
riguarda
l’essere pensante, che gli animali non
conoscono.
La vita del lager era animalesca e le
sofferenze
che prevalevano erano quelle delle bestie.
Poi
venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a
qualsiasi
ora. Anche un asino soffre per le botte,
per
la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti,
in
cui capitava che le sofferenze primarie,
accadeva
molto di rado, erano per un momento
soddisfatte,
allora affiorava la nostalgia della famiglia
perduta.
La paura della morte era relegata
in
secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la
storia
di un compagno di prigionia condannato
alla
camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava
per
morire, davano una seconda razione di
zuppa,
siccome avevano dimenticato di dargliela,
ha
protestato: “Ma signor capo baracca io vado
nella
camera a gas quindi devo avere un’altra
porzione
di minestra”.
Lei
ha raccontato che nei lager si verificavano pochi
suicidi:
la disperazione non arrivava che raramente
alla
autodistruzione.
Sì,
è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi
e
filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le
ragioni
erano molte, una per me è la più credibile:
gli
animali non si suicidano e noi eravamo animali
intenti
per la maggior parte del tempo a far
passare
la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore
della
morte era al di là della nostra portata.
Quando
ha saputo dell’esistenza dei forni?
Per
gradi, ma la parola crematorio è una delle
prime
che ho imparato appena arrivato nel campo,
ma
non gli ho dato molta importanza perché
non
ero lucido, eravamo tutti molto depressi.
Crematorio,
gas, sono parole che sono entrate
subito
nelle nostra testa, raccontate da chi aveva
più
esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli
impianti
con i forni a tre o quattro chilometri da
noi.
Io mi sono esattamente comportato come
allora
quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci
e
poi dimenticando. Questo per necessità,
le
reazioni d’ira erano impossibili, era meglio
calare
il sipario e non occuparsene.
Poi
arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda
quel
giorno?
Il
giorno della liberazione non è stato un giorno
lieto
perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri.
Per
nostra fortuna i tedeschi erano scappati
senza
mitragliarci, come hanno fatto in altri
lager.
I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono
rimasti
solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo
stati
abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi,
al
gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche
patate
che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento,
in
quei dieci giorni seicento sono morti di
fame
e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato
vivo
in mezzo a tanti morti.
Questa
esperienza ha cambiato la sua visione del
mondo?
Penso
di sì, anche se non ho ben chiara quale
sarebbe
stata la mia visione del mondo se non
fossi
stato deportato, se non fossi ebreo, se non
fossi
italiano e così via. Questa esperienza mi ha
insegnato
molte cose, è stata la mia seconda università,
quella
vera. Il lager mi ha maturato, non
durante
ma dopo, pensando a tutto quello che ho
vissuto.
Ho capito che non esiste né la felicità, né
l’infelicità
perfetta. Ho imparato che non bisogna
mai
nascondersi per non guardare in faccia
la
realtà e sempre bisogna trovare la forza per
pensare.
Grazie,
Levi.
Biagi,
grazie a lei.
Il fatto quotidiano 26 gennaio 2014
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