martedì 12 luglio 2011
nucleare, espresso delle scorie radioattive e la centrale che muore di Trino Vercellese
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/07/12/news/nuclear_express-18914442/?ref=HRER2-1
Per dodici volte all'anno, lungo le ferrovie del Piemonte, viaggiano i treni carichi di scorie nucleari dirette a Le Hague, in Francia. Portano i materiali dello smantellamento della centrale di Trino Vercellese. Viaggiano col buio e la popolazione, in genere, non viene avvertita. La cosa ha suscitato la protesta degli ambientalisti e dei ferrovieri francesi che ritengono questi viaggi pericolosi. Questa inchiesta racconta come l'ultimo di questi treni è stato sospeso e come viene smantellata la centrale di Trino
Vercelli, rinviato il convoglio che doveva portare il materiale nucleare dal deposito della centrale di Saluggia a Le Hague in Francia. Si temono le contestazioni dei No Tav. Il viaggio (uno dei dodici previsti dall'accordo con la Francia) rinviato ad agosto. Alcuni comuni della zona hanno protestato: chiedono più notizie per i cittadini di MAURIZIO BONGIOANNI. VIDEO di MAURO RAVARINO
QUELLE SCORIE TRA LA DORA E IL PO, MA LA SOGIN CHIEDE UN ALTRO SITO
TRINO VERCELLESE di VERA SCHIAVAZZI
Viaggio nella centrale che muore
Anni e tanti soldi per smantellarla
Ci vorranno almeno tre lustri prima che l'operazione di smontaggio della "Enrico Fermi", iniziata un quarto di secolo fa, venga completata. Al lavoro una squadra di esperti: gli stessi che l'hanno costruita. Dentro ci sono ancora 47 barre di carburante. La visita è come un viaggio nel tempo: misure di sicurezza attentissime e storie di un'altra cultura industrialeTRINO VERCELLESE - La centrale addormentata non fa paura a nessuno. Ma, lo stesso, per entrarci dentro devi ottenere un permesso speciale, superare controlli e barriere, mentre molte zone, come la piscina che ancora contiene 47 barre di combustibile, non possono essere fotografate. La "Enrico Fermi" di Trino Vercellese, un impianto piccolo ma efficiente, un fiore all'occhiello della breve e ormai lontana stagione nucleare italiana, è sdraiata tra le risaie, sulle rive del Po. Dentro, cinquanta persone continuano a lavorare in un'atmosfera vagamente surreale, nell'attesa che dopo anni e anni di ordini e contrordini qualcuno dica loro, definitivamente, che cosa fare. La strada è tracciata: occorre far partire per Le Hague, in Normandia, le ultime barre, circa un quarto del totale che serviva a far funzionare la centrale, poi smontare il reattore, ormai "freddo" e privo di radioattività, dopo averlo sommerso d'acqua. Per farlo, servono grandi robot manovrati dall'esterno, macchine che nessuno ha mai progettato perché negli anni Cinquanta e Sessanta, quando sono nate queste centrali, nessuno ci aveva pensato e la "soluzione finale" che si immaginava dopo il loro pensionamento era una tomba di cemento armato.
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Davide Galli e i suoi colleghi, uomini e (poche) donne super-qualificati, fisici e medici, ingegneri e tecnici, amano questa centrale. La amano perché ha sempre funzionato bene, mai un problema serio, mai una contestazione violenta (e del resto quasi tutti i dipendenti, oggi passati alla Sogin, arrivano dai paesini qui intorno), mai uno sciopero. E non è difficile cogliere un filo, ma proprio un filo di dispiacere ora che si tratta di cancellarla. Entrare nella centrale è come fare un viaggio nel passato, quando l'Italia stava uscendo dal dopoguerra e dalla povertà e ci si cominciava a chiedere con quale energia alimentare il boom economico. Così, i doppi portelloni di sicurezza dipinti di bianco che immettono nell'enorme "torre" di acciaio dove dorme il rettore si aprono ancora a mano, ci vogliono due uomini, prima l'uno poi l'altro, a portata di voce e di segnale. E l'addetto che, da solo alla consolle, sorveglia l'enorme sala controllo anch'essa spenta sembra uscito da un'immagine del realismo sovietico, nel grande stanzone rivestito di formica verdina con le lancette e i quadranti che ancora si illuminano e risuonano (ma solo a comando, per stupire i visitatori).
Il reattore pesa 250 tonnellate, soltanto smontarlo costerà 50 milioni di euro, dicono le previsioni. Ma, dopo aver deciso per due volte a distanza di quasi 25 anni che non volevano il nucleare, o almeno non in casa loro, gli italiani si sono, comprensibilmente, disinteressati del dopo e del come. Resta naturalmente, e qui nel Vercellese è particolarmente attiva, una pattuglia di ambientalisti che non si stanca di lanciare l'allarme: "Non è vero che il combustibile, una volta vetrificato, non è più radioattivo. Il deposito nazionale? Non si farà mai, dunque le scorie torneranno nei siti di origine". Gli uomini della Sogin sono più tranquilli: "Quando la Francia ci restituirà le nostre scorie, non prima del 2020-2025, il loro volume sarà ridotto al 5 per cento di quello attuale. Noi stiamo smantellando come quando si trasloca da una casa, e alla fine la lasceremo vuota, con una valigia ben chiusa dentro uno sgabuzzino. La valigia se ne andrà quando il deposito nazionale sarà stato allestito".
Intanto a Trino si continua a vivere e a lavorare. Guanti, camici, cuffie e sovrascarpe continuano a andare e venire da spogliatoi "caldi" e "freddi" e da speciali procedure di lavaggio, nel rispetto scrupoloso (e probabilmente inutile, perché la radioattività qui è poca e ben custodita) delle regole che prevengono ogni più piccola fuga di radiazioni. Chi lavora qui ha il suo dosimetro personale, custodito in una casella. Quando entra nella zona controllata lo porta con sé, quando ne esce verifica se la lancetta si è spostata, poi firma un registro. E, prima di andarsene, deve comunque passare attraverso un detector di radiazioni che lo esamina da ogni parte: la barra si apre soltanto quando la voce sintetica ha finito di contare. Per affetto, e anche un po' per orgoglio, i tecnici di Trino stanno "salvando" i pezzi più belli, precorrendo quello che, forse, diventerà un nuovo filone dell'archeologia industriale: all'esterno, sul prato, una turbina campeggia come un monumento, mentre si discute che cosa fare con l'unico cask (il cilindro di acciaio destinato ai trasporti delle barre) mai prodotto in Italia.
Dentro la centrale ormai semivuota ci si sposta in bicicletta, come in una fabbrica che sta per chiudere. Eppure non mancano poche settimane, e neppure pochi mesi, ma dieci o quindici anni prima che la centrale delle risaie scompaia davvero. Alla fine resterà solo il guscio, e qualcuno dovrà decidere se abbatterlo o riconvertirlo. E, solo dopo, il "prato verde", come i tecnici chiamano la restituzione dei siti. Quasi ottant'anni di lavoro, di denaro e di sforzi per un'esperienza che, a Trino come nel resto d'Italia, è durata poco più di venti.
12 luglio 2011
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