LA QUESTIONE di ANTONIO CIANCIULLO
Rifiuti nucleari, il problema italiano
si cerca il "cimitero radioattivo"
"Radiografia" di un carro ferroviario carico di rifiuti nucleari che emettono alti quantitativi di calore
Il nostro Paese deve sistemare 80-90mila tonnellate di scorie. In parte sono all'estero a vetrificare, in parte le produciamo ancora (ad esempio, negli ospedali). A Saluggia ci sono ancora il due per cento delle barre di combustibile irraggiato che facevano andare il reattore. Costi previsti: enormi. Smantellare una centrale costa quasi come costruirlaROMA - "E' come se dappertutto degli aerei decollassero prima che sia messa in condizioni di funzionare adeguatamente la pista di atterraggio dell'aeroporto di destinazione". Questa metafora, pubblicata nel 1987 da Claus Offe, a lungo assistente di Jürgen Habermas, resta perfettamente valida a distanza di un quarto di secolo. L'industria nucleare è decollata più di mezzo secolo fa e nel mondo oggi ci sono più di 400 reattori in funzione ma nessuno è ancora riuscito a costruire un luogo in cui deporre le scorie radioattive prodotte dall'attività delle centrali.
Nell'epoca d'oro del nucleare, gli anni Sessanta, era diffusa la convinzione che conveniva far partire l'industria dell'atomo perché molto presto sarebbe stata messa a punto la tecnologia che avrebbe consentito un atterraggio tranquillo. Sta succedendo il contrario. Il nucleare registra segnali di crisi a livello globale e rallenta il passo, ma ancora non si è trovato un sistema per far uscire di scena i rifiuti.
Le scorie radioattive non rappresentano solo un problema tecnologico ma un interrogativo etico e tecnico a cui finora nessuno ha dato risposta. E' lecito creare un'attività produttiva il cui prezzo sarà pagato da decine di migliaia di generazioni successive? E - se si decidesse di rispondere sì a questa domanda - come fare a lasciare un'informazione sul luogo in cui è stato sepolto il pericolo capace di essere conservata e compresa per centinaia di migliaia di anni?
Ma, accanto al problema di lungo periodo, ce n'è un altro immediato e urgente: guadagnare tempo, evitare un danno immediato. L'Italia ha cominciato a inviare i suoi rifiuti radioattivi all'impianto di trattamento britannico di Sellafield prima del referendum del 1987 che ha portato alla chiusura delle quattro centrali nucleari che all'epoca erano in funzione. Il ritorno di questi materiali radioattivi è stato più volte rinviato e non c'è ancora una soluzione operativa in vista.
Nel 2007 inoltre è stato firmato un secondo accordo, questa volta con la Francia: secondo questa intesa l'invio al centro di trattamento La Hague di circa 235 tonnellate di combustibile irraggiato si dovrà completare entro il 2015, mentre il rientro delle scorie vetrificate dovrà avvenire tra il 2020 e il 2025.
La Sogin, la società che ha il compito di gestire i rifiuti nucleari e lo smantellamento delle centrali, precisa che il processo di invio dei materiali radioattivi in Francia è in fase di completamento: solo il 2 per cento delle barre di combustibile irraggiato è ancora a Saluggia e nel deposito "Avogadro". L'operazione si concluderà entro il 2012, poi il materiale radioattivo tornerà da La Hague in forma vetrificata per essere conservato (la procedura richiede anche il raffreddamento) e dovrà trovare posto in un deposito radioattivo di superficie grande circa 300 ettari che sarà scelto tra i 50 siti candidati. Nessuno di questi siti coincide con l'ubicazione di una delle vecchie centrali perché un impianto nucleare per funzionare ha bisogno di acqua, mentre un cimitero radioattivo ha bisogno di stare lontano dall'acqua (e di posarsi su uno strato geologico impermeabile).
Complessivamente, includendo anche i rifiuti radioattivi ospedalieri, si tratta di trovare una collocazione per 80-90mila metri cubi di sostanze radioattive. Un'operazione su cui è molto difficile fare una previsione di spesa perché, non essendoci precedenti a livello globale (tranne lo smantellamento di piccolissimi siti sperimentali) le cifre oscillano molto. Ad esempio il governo inglese ha valutato in 23 miliardi di sterline il costo del decommissioning del parco nucleare britannico: sono 3 miliardi di euro a centrale, un costo vicino a quello di costruzione.
"Noi siamo convinti di riuscire a fare un buon lavoro a una cifra molto più bassa perché disponiamo di un know how che ci sta facendo guadagnare commesse in un mercato mondiale in forte espansione, un mercato che vale 200 miliardi di euro", afferma Giuseppe Nucci, amministratore delegato di Sogin. "Il decommissioning dei siti nucleari italiani, che occorre realizzare entro il 2020, costerà oltre 6 miliardi di euro (1,7 speso finora, più 4,8 da qui in poi): tutte le centrali spariranno e sui siti tornerà un prato. Si tratta di un progetto che ridurrà fortemente il rischio perché metterà in sicurezza materiali che oggi sono sparsi in vari siti che non erano stati pensati per questa funzione".
"Scontiamo ancora gli errori del passato: portare i rifiuti radioattivi all'estero non solo non risolve in alcun modo la nostra questione della sistemazione delle scorie, perché quelle vetrificate di ritorno dalla Francia dovranno comunque essere sistemate in Italia, ma rappresenta una fonte di inquinamento e di rischio nucleare durante le fasi di trasporto", replica Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace. "Il ritrattamento serve non alla sicurezza ma a recuperare uranio e plutonio dalle barre esauste per creare nuovo combustibile o armi nucleari: meglio il cosiddetto stoccaggio a secco scelto durante il primo governo Prodi. Del resto dal 1977 gli Stati Uniti hanno abbandonato la scelta del ritrattamento del combustibile irraggiato".
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/07/12/news/problema_scorie-18914579/?inchiesta=%2Fit%2Frepubblica%2Frep-it%2F2011%2F07%2F12%2Fnews%2Fnuclear_express-18914442%2F
12 luglio 2011© Riproduzione riservata
martedì 12 luglio 2011
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