DIFETTI
DI LEGGE
“La
norma attuale
sarebbe
comunque
un’arma
spuntata,
per
la misura (bassa)
e
la prescrizione
scatta
in tempi brevi”
Caro
direttore, io non
temo
affatto che il reato
di
disastro ambientale
possa
essere incostituzionale
(il
Fatto Quotidiano di
sabato 20 dicembre).
Al
contrario, sostengo che, purtroppo,
quel
reato non è finora previsto dal nostro
Codice
penale e auspico che possa entrarvi
al
più presto (com’è noto, dopo i tentativi
falliti
nelle precedenti legislature, il ddl sui
delitti
contro l’ambiente, approvato in febbraio
dalla
Camera, è all’esame delle commissioni
Giustizia
e Territorio del Senato).
Ritengo
– questo è vero – che l’attuale articolo
434
del Codice penale
sarebbe
(parzialmente)
incostituzionale
se, come
sostiene
una parte della
giurisprudenza,
si volesse
includere
il disastro ambientale
nel
generico “altro
disastro”
previsto e punito
da
quell’articolo. E questo
perché
la Costituzione prevede
che
i comportamenti
e
i fatti di rilievo penale siano
espressamente
previsti
dalla
legge (princìpi di determinatezza
e
tassatività).
Inoltre,
la norma attuale
sarebbe
comunque un’arma spuntata, perché
la
misura (bassa) della pena minima, e la
difficoltà
di prolungare nel tempo il momento
in
cui il reato si “consuma”, fanno sì
che
la prescrizione scatti in tempi abbastanza
brevi,
perfino anteriori al verificarsi degli
effetti
dannosi, ed eventualmente delittuosi,
sulla
popolazione e l’ambiente. L’epilogo recente
del
caso Eternit in Cassazione, e quello
recentissimo
– sia pure di primo grado,
quindi
non definitivo – per la discarica di
rifiuti
tossici e pericolosi nella Valpescara,
stanno
lì a dimostrarlo. Sulla questione la
giurisprudenza
non si è consolidata. Per
questo
la Corte costituzionale, in una sentenza
del
2008 di cui fui relatore (n. 327),
ritenne
non fondata la questione
di
legittimità costituzionale
(come
sempre avviene
quando,
di una norma,
siano
possibili più interpretazioni,
almeno
una delle
quali
non sia incostituzionale).
Ma
avvertì che se la giurisprudenza
si
fosse consolidata
nell’interpretazione,
per
così
dire, “estensiva” dell’a rticolo
434
Codice penale,
avrebbe
potuto riconsiderare
la
questione. Soprattutto, definì
“auspicabile
che (...)
il disastro
ambientale
(formi) oggetto
di
autonoma considerazione da parte
del
legislatore penale, anche nell’ottica
dell’accresciuta
attenzione alla tutela ambientale
ed
a quella dell’integrità fisica e della
salute”.
Siamo ancora in attesa del legislatore.
Naturalmente
l’assenza di un reato
specifico
non esclude la possibilità di sanzionare
i
danni alla salute e alle persone,
come
le lesioni, le patologie permanenti, i
decessi
(ma l’esperienza mostra la difficoltà
– almeno
ai fini processuali – di stabilire il
nesso
diretto tra il danno ambientale e il
danno
alla salute delle singole persone,
quando
sia differito nel tempo). Soprattutto,
non
esclude i risarcimenti in
sede
civile e l’obbligo amministrativo
di
bonifica dei
luoghi
inquinati. Luigi Ferrarella,
sul
Corriere
della Sera
di
sabato 20 dicembre, lo ha
ricordato
con una immagine
efficace:
per le aziende colpevoli
dei
disastri può essere
più
temibile il “fucile di precisione”
delle
azioni civili e
amministrative,
di un “b azooka
penale”
che spari a
salve.
Caro direttore, consideri
questo
mio intervento –
per
il quale le chiedo ospitalità
– un
contributo al dibattito
e,
soprattutto, alla soluzione
di
un problema grave;
non
già una rettifica ai
sensi
della legge sulla stampa,
assolutamente
non dovuta
perché
Antonio Massari
ha
correttamente citato in
due
occasioni la mia posizione
e
l’estraneità al processo
di
Chieti, tenendo conto delle mie risposte
telefoniche
alla sua richiesta di chiarimenti.
Semmai
mi riservo di verificare e
approfondire
quanto avrebbe detto in aula
(uso
il condizionale perché il rito abbreviato
si
svolge a porte chiuse, come pure è stato
ricordato
negli articoli) l’avvocato dello Stato,
definendo
il parere pro
veritate da
me reso
in
altro processo, “un messaggio per i giudici
di
Chieti” (il
Fatto Quotidiano di
venerdì
19
dicembre 2014). Un’insinuazione di questo
tipo
deve essere valutata in altre sedi. La
mia
posizione è nota da tempo agli addetti ai
lavori
e anche ai non tecnici (da ultimo, ne
ho
parlato nell’intervista al Corriere
della Sera
del
22 novembre). Soprattutto, non è mia
abitudine
inviare messaggi trasversali, intimidatori
o
mafiosi a nessuno, perché metto
la
firma e la faccia solo
sulle
cose che penso. Da
quando
ho lasciato la Corte
costituzionale,
e concluso
alcuni
incarichi da civil
servant
,
sono numerose le richieste
di
parere che ricevo,
ma
assai rari i pareri che
esprimo.
Il motivo è semplice:
i
pareri pro
veritate r
i g u a rdano
questioni
di diritto
(non
fatti specifici) e sono
chiesti
dalla difesa degli imputati
per
rafforzare la propria
linea
difensiva e la posizione
del
cliente. Io non
utilizzo
la mia competenza
giuridica
per sostenere in
qualche
modo tesi che portino
acqua
al mulino della
difesa.
Studio la questione,
anticipo
le mie conclusioni,
e
chiedo al collega se davvero
sia
interessato alla mia
opinione.
Il più delle volte
l’esito
è negativo: l’avvocato
riferisce
al cliente la cattiva
notizia
del parere mancato, e
la
buona notizia della parcella risparmiata.
Anche
per questo troverei intollerabile l’i nsinuazione
di
utilizzare l’autorevolezza derivante
da
passati incarichi istituzionali, per
esercitare
pressioni sui giudici. Grazie per
l’ospitalità
10
MARTEDÌ
23 DICEMBRE 2014
VELENI
D’I TA L I A il
Fatto Quotidiano
Nessun commento:
Posta un commento