Ilva, chiesto sequestro dell’impianto
di Taranto. Ma il lavoro continua Il rapporto dei carabinieri di Lecce è un macigno. La procura accusa la proprietà di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico. Ma la struttura occupa 11.500 persone e produce il 70% del pil della provincia “Si ritiene necessaria l’emissione di un provvedimento cautelare reale, diretto all’evitare di protrarsi di attività illecite descritte nell’arco di 40 giorni di monitoraggio. È altresì fondamentale richiamare l’azienda agli obblighi di legge”. Il rapporto del Nucleo Operativo Ecologico (Noe) di Lecce (di cui Il Fatto è in possesso) è un macigno, perché l’azienda di cui si riferisce ai pm di Taranto è l’Ilva. Si richiede il sequestro dell’impianto di Taranto, che occupa 11.500 persone e produce il 70% del pil della provincia.
Lavoro contro salute: la gente sa che l’inquinamento entra nei suoi polmoni, con ogni respiro. Hanno paura gli abitanti e i lavoratori dell’Ilva, stretti tra il posto di lavoro e le giornate passate a 50 gradi nella cokeria. Timori confermati dalla Procura: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico sono i reati per i quali sono indagati tra gli altri Emilio Riva, 84 anni, presidente dell’Ilva sino al 2010, e Nicola Riva, attuale presidente. Accuse che gli imprenditori respingono (Il Fatto ieri ha cercato di raccogliere la versione dell’Ilva, senza risposta).
Difficile dire che cosa sia più pesante per i cittadini di Taranto che vivono all’ombra dei 220 metri della ciminiera E 312 (la più alta d’Europa): se i timori per la salute e per il lavoro. O l’insicurezza: il 5 luglio è stata chiusa l’istruttoria per dotare l’Ilva del certificato Aia, l’Autorizzazione Integrata Ambientale. In molti hanno gridato a una vittoria per l’ambiente e la salute. Ma ecco arrivare l’allarme dei Noe.
A chi devono credere gli abitanti del quartiere Tamburi, case basse, colori spenti dalla polvere che si accumula su facciate, serramenti, vestiti stesi? Per capire bisogna guardare Taranto da lontano: l’orizzonte segnato dal fumo delle ciminiere, l’aria scura e l’acciaieria grande il doppio della città, a ridosso delle case.
Un medico disse una volta: “O si sposta l’acciaieria oppure Taranto”. Pare impossibile dipanare il nodo. Mancano dati ufficiali sulla diffusione delle malattie, l’efficacia dei controlli – quando ci sono – è contestata. Il punto di partenza potrebbe essere il rapporto dei Noe: “Sono state osservate… consistenti emissioni riconducibili allo “slooping”, all’utilizzo improprio di sei torce al servizio delle acciaierie”. Segue una tabella con decine di episodi con “una nube rossastra… eccezionale e imponente”. I Noe parlano anche di “intense emissioni non convogliate… capaci di propagarsi oltre i confini dell’Ilva” derivanti dal riversamento sul terreno di scorie per raffreddarle. Si apre un nuovo capitolo sulle “emissioni diffuse”, che sfuggono finora ai controlli. Gli investigatori richiedono “il sequestro degli impianti”.
Ma allora è giusto concedere l’Aia all’Ilva? Da una parte si schierano la Regione di Nichi Vendola e i sindacati, dall’altra ambientalisti e comitati. “L’autorizzazione mette delle certezze, toglie ogni alibi all’Ilva”, è convinto Rosario Rappa, segretario generale della Fiom Cgil. “Con l’Aia – assicura Lorenzo Nicastro, assessore regionale all’Ambiente – entreranno in vigore limiti emissivi più bassi rispetto a quelli vigenti, in linea con le migliori tecnologie disponibili”. Gli ambientalisti e i comitati contestano: “Si dà una patente di legittimità a un impianto che porta rischi pesantissimi”, è sicuro Angelo Bonelli, presidente dei Verdi. Pierfelice Zazzera (Idv) fa un elenco delle emergenze: “I parchi minerari, colline di sostanze tossiche che appena viene il vento finiscono nei polmoni, sono senza copertura come invece avviene all’estero. I famosi filtri per la ciminiera E312 non funzionano”. Fabio Matacchiera, un insegnante che guida il Fondo Anti-diossina aggiunge: “Non ci sono solo le emissioni dei 200 camini dell’acciaieria, ma anche i fumi diffusi non censiti. Poi c’è il nodo dei controlli. Gli uomini dell’Arpa, dai cancelli impiegano novanta minuti per arrivare alla ciminiera. Abbastanza per consentire, a chi lo volesse, di ridurre le emissioni. I campionamenti avvengono poche volte all’anno e di giorno”.
Dalla cronaca notizie allarmanti. L’anno scorso sono state abbattute 650 pecore imbottite di diossina: pascolavano entro il limite di 20 chilometri dall’acciaieria fissato dalla Regione. Poi le analisi Asl rivelano presenze di policlorobifenili nelle acque del Mar Piccolo. Scatta il divieto di allevare le cozze: 24 operatori su 103 rischiano il lavoro.
Così si vive a Taranto, dove la diossina si è accumulata per decenni nella terra, nell’acqua. Nell’aria che respiri. Ricorda Rappa: “Ci vuole un risanamento drastico. Ma il Governo ha destinato ad altro i soldi già stanziati”. Interessi enormi ruotano intorno al più grande impianto siderurgico del Paese. Non c’è da stupirsi se chi si schiera va incontro a minacce, anche di morte. Su tutto regna l’incertezza. Nel 2010 il Governo vara la legge “salva-Ilva” che rimanda al 2013 l’obiettivo di un nanogrammo per metrocubo di benzo(a)pirene in aria. La Regione risponde con una norma che prevede limiti più stringenti. “Bene – commenta Rappa – ma occorre dare mezzi all’Arpa per i controlli”.
Qui si innesta la polemica di ambientalisti e comitati con la Regione: “Vendola annuncia novità che non ci sono. Si continuerà a morire”, sostiene Bonelli. Al governatore si attribuisce un atteggiamento morbido nei confronti dei Riva. Lui, Vendola, risponde così: “Abbiamo imposto all’Ilva una normativa drastica di riduzione delle diossine e poi una normativa anti-benzoapirene, portando controlli a tappeto su tutto il territorio”. Aggiunge: “Dobbiamo uscire dalla contrapposizione tra rispetto dell’ambiente e salvaguardia del lavoro. Non si tratta di cercare un compromesso bensì di conseguire il rispetto delle regole e imporre i giusti livelli di tutela ambientale”.
I sindacati lo sostengono. Ma Rappa (Fiom) precisa: “In passato abbiamo difeso il posto di lavoro a scapito della salute. Oggi no, speriamo di salvare sia l’industria che la salute. Si può”. Gli ambientalisti non credono più a questa terza via. E neanche molti cittadini.
da Il Fatto Quotidiano del 5 agosto 2011
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