Non voglio sparare sulla Croce Rossa ma francamente, in attesa del nuovo governo, mi sembra il momento giusto per chiedersi se realmente sia utile per gli interessi collettivi continuare a mantenere in vita un ministero dell’Ambiente quale l’attuale. Intendiamoci, non voglio offendere la suscettibilità di alcuno ma, con il massimo rispetto per tutti, mi sembra innegabile che, a partire dal “governo dei professori”, ormai questo ministero, più che difendere l’ambiente, privile...
Continua a leggereGianfranco Amendola
Ex magistrato, esperto in normativa ambientale
Non voglio sparare sulla Croce Rossa ma francamente, in attesa del nuovo governo, mi sembra il momento giusto per chiedersi se realmente sia utile per gli interessi collettivi continuare a mantenere in vita un ministero dell’Ambiente quale l’attuale. Intendiamoci, non voglio offendere la suscettibilità di alcuno ma, con il massimo rispetto per tutti, mi sembra innegabile che, a partire dal “governo dei professori”, ormai questo ministero, più che difendere l’ambiente, privilegia scelte coincidenti con quelle dei grandi gruppi industriali pudicamente nascoste sotto la cortina fumogena delle “esigenze di produttività” e della “crescita” ovvero con la “tutela dei posti di lavoro“.
Trattasi di un percorso, peraltro, largamente coincidente con l’atteggiamento verso il binomio “ecologia-economia” assunto dal Pd di governo (l’apice è il periodo renziano) e da alcune associazioni ambientaliste ad esso satelliti. Ho già detto che non voglio sparare sulla Croce Rossa, e pertanto tralascio argomenti che tutti conosciamo, dalle trivelle alla rete nazionale di inceneritori, dall’Ilva alla depenalizzazione per le violazioni connesse all’Aia(cioè delle maggiori aziende inquinanti) ecc..
Mi limito, quindi, ad alcuni cenni su quattro recenti argomenti poco conosciuti che evidenziano con grande chiarezza il ruolo del ministero dell’Ambiente, avvertendo da subito che, ovviamente, chi vuole approfondimenti tecnici può trovarli in rete attraverso articoli (anche a mia firma) pubblicati in varie riviste specializzate.
1. Il primo riguarda le terre e rocce da scavo anche pesantemente contaminate (si pensi ai lavori per la Tav). Ebbene, attraverso un Regolamento (Dpr 120 del 2017) di 31 articoli (con 10 allegati) ed una “circolare interpretativa”, il ministero dell’Ambiente è riuscito a liberalizzarne l’uso, giungendo addirittura a dichiarare ex lege “non contaminate” – e, quindi, escluse dalla disciplina sui rifiuti – anche terre da scavo non allo stato naturale ma contenenti rifiuti di origine antropica con materiali artificiali di ogni tipo, dal calcestruzzo alla vetroresina. E così tante discariche scompaionoper miracolo ministeriale.
2. Il secondo riguarda la problematica dei rifiuti con “voci a specchio” di quei rifiuti che, a seconda della composizione e delle loro caratteristiche, possono essere pericolosi o non; accertamento che, ovviamente, in prima battuta spetta al produttore, dato che conosce la composizione del rifiuto. Principio sancito, dopo accese polemiche, da una legge italiana del 2014 la quale aveva stabilito la procedura di accertamento che il produttore del rifiuto doveva seguire, a partire dalla sua composizione, concludendo che, per ilprincipio di precauzione, in caso di dubbio, il rifiuto doveva essere considerato pericoloso.
Ebbene, in concomitanza con alcuni delicati processi a carico di noti industriali, il nostro governo, riprendendo una tesi già adombrata in una nota “interpretativa” della Direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento del ministero Ambiente del 28 settembre 2015, infilava nel decreto legge n. 91 del 2017, intitolato a “Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno“, un art. 9 che, evidentemente per il bene del Mezzogiorno, abrogava la legge “garantista” del 2014, dicendo che si applicano solo le disposizioni comunitarie.
Provocando, a questo punto, notevole confusione, perché, in mancanza di una procedura certa, ciascun produttore può fare quello che vuole per accertare la pericolosità di un rifiuto. Tanto è vero che la Cassazione ha chiesto, in proposito, l’intervento della Corte europea di giustizia.
3. Il terzo riguarda il momento importantissimo di quando un rifiuto, dopo il recupero, cessa di essere tale (Eow, fine rifiuto); momento che una legge italiana del 2010 fa dipendere dal rispetto di alcune condizioni fissate, per le singole categorie di rifiuti, dal ministero dell’Ambiente. Ebbene, a tutt’oggi il ministero, tranne un caso, non ha fatto niente e nel 2015 ha tentato di lavarsene le mani demandando, con la solita “circolare interpretativa”, alle regioni la competenza a lui attribuita per legge. Circolare che, ovviamente, pochi giorni fa è stata pesantemente sconfessata dal Consiglio di Stato il quale, tra l’altro, ha evidenziato giustamente che in proposito occorre una disciplina uniforme per tutto il territorio nazionale. Con conseguenze (per colpa del ministero) pesanti per le aziende che vi avevano fatto affidamento.
4. Il quarto riguarda la gravissima questione dei numerosissimi “incendi” liberatori in impianti di rifiuti, oggetto di una completa e recentissima relazione da parte della Commissione bicamerale “ecomafia”, dove il Ministero, invece di affrontare il nodo della qualità della raccolta differenziata e del recupero di rifiuti, ha tentato di uscirsene con la solita “circolare” del tutto generica che non fornisce alcuna indicazione operativa su come eseguire i controlli, come coordinarli nonché sui provvedimenti da adottare in caso di inadempienza. Potrei continuare ma mi sembra sufficiente. Un ministero dell’ambiente ha un senso se tutela l’ambiente ed adempie ai suoi obblighi, lasciando alla magistratura il compito di interpretare le leggi. Altrimenti, meglio abolirlo e lasciare tutto al ministero dell’industria.
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