mercoledì 3 dicembre 2014

Bhopal e la fabbrica mai bonificata dagli Usa dopo 30 anni dall'incidente dell'Unione Carbide

di Pierfrancesco Curzi
Bhopal (Madhya Pradesh, India)
Bruciano i fantocci di paglia, le torce illuminano
la notte sulla “Spianata nera” di Bhopal.
A centinaia, a piedi, fino alla fabbrica della
morte, lo stabilimento del colosso chimico statunitense
Union Carbide, per chiedere giustizia.
Il corteo pacifico ha mosso da Iqbal Maidan, il
cuore musulmano della città, snodandosi attraverso
le strette strade del bazaar. Infine mescolandosi
al traffico impazzito quotidiano e alla
puzza di diossina derivante dai rifiuti dati alle
fiamme nelle decine di discariche a cielo aperto.
Siamo una cosa sola e lotteremo fino alla morte,
perché la Dow Chemical ha le mani insaguinate,
sangue di innocenti indiani”. A mezzanotte e cinque
di ieri (le 19 e 35 in Italia) una folla di bhopalesi
ha urlato la sua rabbia davanti all'ingresso
della fabbrica, a nord del capoluogo del Madhya
Pradesh: “Vogliamo giustizia e il riconoscimento
da parte della Dow Chemical per quanto spetta
alle famiglie colpite dal disastro - attacca Namdew
Balkrishna, leader del movimento dei sopravvissuti
prima che il pupazzo raffigurante la Uniona
Carbide venga dato alle fiamme in mezzo alla
strada - ma devono fare la loro parte anche il nostro
presidente, Narendra Modi, e le autorità locali.
Trent'anni sono troppi per avere il giusto risarcimento”.
Compito arduo. Il nuovo presidente,
in carica da pochi mesi, difficilmente si metterà
ai ferri corti con Barack Obama per obbligare i
vertici della Dow Chemical a scucire somme dovute
dai vecchi manager della ex Union Carbide.
DA QUATTRO ANNI dietro l'affaire Bhopal si
muove poco sotto il profilo giudiziario. Da quando,
settembre 2010, la Corte Suprema di Delhi ha
accolto il ricorso del governo indiano per inasprire
il capo di imputazione: da negligenza criminale,
con cui 3 mesi prima erano stati condannati 7 dirigenti
dell'allora Union Carbide (2 anni di reclusione
e 1.700 euro di multa), a omicidio di massa.
La politica e le relazioni internazionali fanno il loro
corso, passando sopra la testa dei disgraziati
che, trent'anni dopo la nube tossica a base di isocianato
di metile, continuano ad ammalarsi. Secondo
Salil Shetty, segretario generale di Amnesty
International , che nei giorni scorsi ha visitato la fabbrica
della morte “i resti della produzione chimica
del sito di Bhopal continuano a uccidere la popolazione.
L'acqua è contaminata, eppure la Dow
Chemical si rifiuta di pagare anche questa bonifica.
I termini dell'accordo del 1989 tra Union Carbide
e autorità indiane (470 milioni di dollari contro
una richiesta di 3,3 miliardi di dollari) vanno
rivisti”. Morti e ammalati di prima e di seconda
generazione. Presto toccherà alla terza.
Riyaz Uddin la sera del 2 dicembre 1984 era in
servizio alla fabbrica come vigile del fuoco e addetto
alla sicurezza. Oggi fa il pompiere alla stazione
principale e porta addosso i segni del gas: “In
pochi minuti i livelli si sono alterati fino a quando
c'è stato un frastuono, come un'esplosione. Eravamo
in due pompieri, cosa potevamo fare se non
fuggire? Dai serbatoi e dalle tubazioni usciva di
tutto. L'indomani siamo tornati, c'erano solo morti.
Io intanto vedevo la mia pelle cambiare”. La
visita al sito dura 30 minuti. Per ottenere il permesso
basta avere la pazienza di sopportare le lungaggini
burocratiche di un Paese di oltre 1,3 miliardi
di persone dove il miraggio della tecnologia
è ancora per pochi. Dentro è rimasto tutto come
allora, gli impianti, la sala macchine, la direzione.
Il tristemente noto serbatoio E-610, che quella
notte conteneva 40 tonnellate di gas velenoso, è
stato buttato in mezzo agli sterpi e giace come il
relitto di un piccolo sommergibile.
Emblematica la storia di Sathyu Sarangi, fondatore
del Gruppo d'Azione pochi giorni dopo la tragedia:
Allora ero un giovane attivista e mi occupavo
dei diritti dei lavoratori nelle campagne tra
Varanasi e Patna. Quando ho sentito cosa era accaduto
a Bhopal ho lasciato tutto. Da allora mi
batto per gli ammalati e per le famiglie dei morti
provocati dalla fabbrica. Una guerra difficile, ma
io non mollo”.
MERCOLEDÌ 3 DICEMBRE 2014 il ALTRI MONDI Fatto Quotidiano


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