IN LIBRERIA L’IMPERDIBILE BIOGRAFIA DI EMILIO RIVA SCRITTA DALLA VEDOVA GIOVANNA DU LAC CAPET QU I S QU I L I E
La vicenda giudiziaria
è così liquidata: come
può essere colpevole
di disastro ambientale
uno che a Natale regalava
olio prodotto a Taranto? L’ILVA DI TARANTO
Gli operai e gli abitanti di
Tamburi non disturbano.
Tutt’al più, morendo,
producono puro rumore
nella storia di una gloriosa
ascesa nel potere
Daniela Ranieri
i sono pure le colf eritree che
usano i verbi all
C’infinito, le serate
alla Scala e le aste di beneficenza,
la Milano “dentro
le mura” e la casa a Montecarlo
anzi Monaco, come dicono
i ricchi nei film di Tognazzi,
in questa imperdibile
biografia postuma di Emilio
Riva, L’ultimo uomo d’a cc i a i o
(Mondadori), scritta dalla
sua compagna Giovanna du
Lac Capet. Tutto colazioni e
battute di caccia, Africa e
Lombardia, soldi e capi d’a ccusa,
fino alla morte di Riva,
ucciso non dal cancro ma
“dall’ingiustizia”, a sentire
Vittorio Feltri nella prefazione.
È IL 1976 quando Giovanna,
da poco coabitante more uxorio
con l’imprenditore del ferro
(dal 1995 padrone dell’Ilva
ex Italsider), rientra nella villa
di Malnate, accolta dalla colf:
“È con me da due anni e non
ricordo un compito domestico
che questa donna eritrea
non sappia svolgere perfettamente”.
Non solo: un po’ co -
me tutti gli africani “ci somministra
perle di saggezza sublime”
parlando come la tata
negra di Via col vento:“‘Teberi,
ha chiamato qualcuno?’ ‘Te -
lefonato signor Emilio’ ‘Ha
detto quando rientra?’ ‘Non
sapere’” (citazione testuale). È
una giornataccia: Emilio è
stato arrestato, lo dice lui al
telefono. “Giovanna, t’ho detto
di stare tranquilla. È per via
di quell’operaio in fabbrica di
cui ti ho accennato”. L’in -
combenza è delle più spiacevoli.
La sera prima c’è stato un
incidente in fabbrica: “Abbia -
mo un percorso tracciato apposta
per raggiungere uno dei
forni. A volte qualcuno lo taglia,
per fare prima. Forse era
a fine turno, forse aveva fretta”.
“Si è fatto male?”, chiede
la signora candidamente.
“Giovanna, è morto”, risponde
il padrone con tempi
drammatici perfetti. Seccante.
Giovanna, “nobile donna
italiana e africana, bizantina e
francese, discendente dei re
Capetingi, di Costantino il
Grande e degli imperatori
dell’Impero romano d’Orien -
te” (sempre Feltri), è sconvolta:
“Emilio in centrale, e lui
cosa c’entra?”. L’accusa è di
omicidio, ma è ora di cena: “Il
maresciallo concede uno
strappo. Gli offre la cena” e
poi, invece di condurlo nel
carcere di Busto Arsizio, “gli
offre ospitalità nella sua casa,
e addirittura nel letto del figlio”.
È un mondo di galanterie
perdute, dove Emilio, in
galera, gioca a poker coi detenuti
e a Pasqua cucina per
tutti un capretto “da acquistare
tassativamente da Peck, la
salumeria più rinomata di
Milano”.
Lui è “il riassunto umano della
concretezza. È presuntuoso,
spesso arrogante”,
“l’esempio più fulgido del vero
self-made man”. L’ha conosciuto
in Africa, e dire che
l’incontro prometteva bene:
“La jeep era già piena. ‘Dove
mi siedo?’ dissi prima di salire
anch’io. ‘Sulle mie gambe,
bella signorina’, esclamò una
voce che era già a bordo”. Era
Riva.
Un giorno Emilio torna:
“Amore, sei tornato?”, dice
Giovanna, come facciamo
tutte quando un marito ci
esce di galera. Teberi gli dà il
bentornato come la servitù de
La mia Africa: “Signor Emilio,
vuoi caffè, vuoi acqua?”. “No,
lasciatemi fare una doccia”,
risponde tetragono il patriarca.
Giovanna si precipita in
bagno per sistemare, sa quanto
lui odia il disordine, “anche
un dentifricio chiuso male
poteva farci litigare”.
Tutto a posto? No: un giorno,
mentre la signora è impegnata
in un burraco “con mezza
dozzina di ospiti” nella villa in
Costa Azzurra, squilla il telefono.
È Emilio, da Roma:
“Giovanna, mi hanno arrestato”.
Oh no, di nuovo. “Arre -
stato? Ma non avevi un appuntamento
al ministero?”,
chiede lei. Eh, “è saltato”, come
succede quando ti arrestano.
Gli amici accendono la
Tv: disastro ambientale. “I
mass media sparano a raffica
notizie sconvolgenti: donne,
uomini, bambini. Improvvisamente
attorno a noi sono
tutti morti, morti a causa delle
esalazioni prodotte dall’ac -
ciaieria”. Proprio adesso che
c’è il burraco. La signora sta
per svenire: “Mio Dio, non ne
sapevo niente. Ma sono morti
tutti adesso? Cosa sta succedendo
a Taranto?”. Questi
meridionali. Quando si tratta
di morire non hanno nemmeno
il buongusto di aspettare
che finisca il tè con le amiche.
È disperata, piange, “stanno
attaccando Emilio come fosse
un nuovo Hitler”.
POI DI NUOVO scenate di gelosia
e party in Costa Azzurra,
bolliti e salotti silenziosi tipo
L’Ad a l g i s a di Gadda, fino al
2012, quando Emilio viene arrestato
per l’ultima volta, per
gli stessi reati per cui fu condannato
in via definitiva nel
2002 e nel 2007. Una vita dove
si va dall’Africa in Svizzera
per rilassarsi qualche giorno,
dove le case non si vendono
ma, come le fabbriche, si
“chiudono”, degli anni d’oro
di Montecarlo, quando potevi
“incontrare Jackie Kennedy
sul Riva che si spostava lungo
le spiagge della Costa Azzurra”
o “Onassis e Niarchos, con
le loro donne che amavano
sfoggiare i gioielli più sfavillanti
del mondo”, dice la du
Lac con un filo di malinconia.
Essì, perché dal patriarca,
“uno che con la propria donna
in un istante si comporta
da stronzo e l’istante dopo è la
persona più meravigliosa che
esista”, solo grettezza e vanagloria,
come quando da “im -
prenditore dentro” qual è le
impedisce di comprare degli
orecchini da 3 mila lire in un
mercatino di Ibiza ma poi a
un’asta se ne aggiudica uno da
10 mila dollari, così. E lei lì a
pensare a porcellane di Meissen,
bicchieri di Baccarat, tovaglie
ricamate di Jesurum,
merletti di Bruxelles, tappeti
iraniani e al “meraviglioso design
italiano nell’arredamen -
to e nella moda”, tutte cose
che non esisterebbero, “senza
i ricchi che spendono il proprio
denaro”. Peccato che
Emilio, nato povero, arruolatosi
a 17 anni nella Repubblica
di Salò, ai soldi ci tenga
troppo per goderseli, a dai ristoranti
fugga prima del conto
per fare “uno scherzo” a un
socio altrettanto taccagno
(ma poi al cospetto dell’im -
peratore di Etiopia si fa benvolere
perché i chihuahua del
sovrano non gli abbaiano
contro).
La principessa presto s’accor -
ge che la grande famiglia industriale
ha poco di grande e
forse pure di famiglia: divorziata
per stare con Riva, è
odiata dai quattro figli di lui
che la mobbizzano; così lo minaccia
tipo “o me o loro” e
vince lei, siccome lui è “os -
sessionato dal pensiero che,
appena fossi diventata economicamente
indipendente,
l’avrei subito lasciato”. “Pen -
siero di uno squallore atroce”,
ammette l’autrice, ma “ai miei
occhi restava coerente con le
sue convinzioni: col denaro si
compra tutto”. LO SQUALLORE, pur atroce,
era “un aspetto che mi faceva
comunque avvertire il suo
amore e il suo bisogno di me”,
e “finiva col gratificarmi moltissimo”,
come sanno le donne
che competono con la roba
dei propri mariti, il “sacro -
santo privato privatissimo
mio, mio!… mio proprio e
particolare possesso” (ancora
Gadda) che per Riva valeva
più di tutto.
Così questi B u d d e n b ro o k del
carrello dei lessi si muovono
nella storia italiana, senza lasciar
tracce se non le emissioni
delle loro fabbriche, che
peraltro resteranno nei cuori
dei tarantini nel senso più
crudamente letterale della parola.
Del resto la vicenda giudiziaria
la signora la liquida
con un’evidenza lucente: come
può essere colpevole di disastro
ambientale uno che a
Natale “regalava amici e parenti
lattine d’olio prodotto
nei terreni dell’Ilva, con etichetta
Ilva”, come può aver
avvelenato le acque se “il capretto
tarantino era invece
uno dei due protagonisti della
nostra tavola durante il pranzo
di Pasqua”? La giustizia
mondana è quel che è. Piuttosto:
colazioni con Prodi, allora presidente dell’Iri, che racconta barzellette terrificanti
su alcuni pappagalli che
fanno sbellicare i siderurgici;
cene con miliardari poliglotti,
in cui Emilio, che “non parla
una parola d’inglese e di nessuna
altra lingua che non sia
l’italiano”, fa un po’ la figura
dell’arricchito; cene per gli
operai con 25 anni di carriera,
quelli vivi, “in una rinomatissima
trattoria” di Verona, gite
a Parigi col noleggio di un
“Boeing dell’Alitalia”, e persino
il dono di “un lingotto
d’oro massiccio da 100 grammi”.
Intorno, i nemici: i giornali
(specie il Fatto), l’opinione
pubblica che non ragiona, i
poveri che odiano i ricchi.
Non disturbano gli operai e
gli abitanti del quartiere Tamburi
di Taranto, una specie di
colonia da cui attingere risorse
alimentari, spezie, fiumi di
denaro; tutt’al più, morendo,
producono puro rumore nella
storia di una gloriosa ascesa
nel potere cieco e sordo che
non crea sapienza e estingue
una dinastia.E QUI IL LIBRO della du Lac
smette di essere un elogio funebre
o una difesa postuma
del suo uomo e diventa un romanzo
storico sulla fine della
grande borghesia industriale,
l'autoritratto impietoso e inconsapevole
di una generazione
di arricchiti che sono
l’alfa e l’omega del dramma
italiano, condottieri del boom
che, senza mai riscattarsi dalla
loro arrogante ignoranza, trascinano
con sé nella tomba le
loro fabbriche, il lavoro e il
benessere che raccontavano
di aver creato. “In ogni pagina
di questo volume ho avvertito
la minaccia continua del cattivo
gusto”, confessa la Du
Lac. “Mi rendevo conto di
avere un fantasma che mi
braccava. Gli ammalati di tumore
a Taranto. Sono l’argo -
mento impossibile da affrontare
che blocca ogni parola”.
Fortuna che i morti non parlano:
abbiamo rischiato che
questo libro non uscisse mai. il fatto quotidiano 14 marzo 2015
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