lunedì 2 febbraio 2015

Discarica Bussi: sentenza, area gravemente inquinata Per i giudici c'è disastro ma non condotta dolosa

''L'intera zona in questione non solo è gravemente inquinata, ma vi è anche una obiettiva diffusività delle sostanze pericolose principalmente mediante le falde acquifere''. Lo si legge nelle 190 pagine della sentenza della Corte d'Assise di Chieti che lo scorso 19 dicembre ha assolto i 19 imputati della megadiscarica dei veleni della Montedison di Bussi sul Tirino dai reati di avvelenamento delle acque e disastro ambientale dolosi. Il giudice relatore della sentenza di Assise sulla discarica dei veleni di Bussi Paolo Di Geronimo però contemporaneamente spiega che ''se tale circostanza non ha in concreto determinato l'avvelenamento delle acque destinate all'alimentazione umana, ciò non esclude affatto che vi sia stata una compromissione rilevante e difficilmente reversibile delle matrici costituenti un presupposto della salubrità ambientali, in modo da determinare che terreni ed acque collocate in prossimità degli impianti ed in corrispondenza delle discariche sono divenuti sicuramente insuscettibili di qualsivoglia impiego, se non a rischio di esporre i frequentatori ed utilizzatori delle suddette aree ad un concreto pericolo per la salute pubblica''.

Sentenza 'Assolti, no interesse personale' No avvelenamento doloso,contrario pure interesse imprenditoriale
I 19 imputati del processo in Corte d'Assise a Chieti per la mega discarica dei veleni di Bussi sul Tirino sono stati assolti da reato di avvelenamento doloso delle acque di falda perchè ''non vi era alcuna ragione sotto il profilo dell'interesse personale dei singoli imputati, ma anche nell'ottica di una sorta di interesse superiore ed unificante estrinsecantesi in direttive date in attuazione della politica di impresa volta a minimizzare i costi per la tutela ambientale, che potesse in alcun modo giustificare la scelta - volontaria e consapevole - di avvelenare le acque di falda emunte al campo pozzi. A ben vedere una simile scelta sarebbe stata non solo del tutto incompatibile con l'ordinario agire umano, ma anche controproducente sotto il profilo strettamente imprenditoriale''. Lo si legge nelle 190 pagine delle motivazioni della sentenza scritta dal presidente d'Assise Camillo Romandini e dal giudice al latere Paolo Di Geronimo, che lo scorso 19 dicembre ha chiuso la prima tappa della vicenda. 
I giudici della Corte d'Assise hanno proseguito l'argomentazione che ha declassato l'avvelenamento da doloso in colposo - sul quale poi è intercorsa la prescrizione - spiegando che ''l'operatore economico pur avendo sempre di mira la necessità di ridurre spese improduttive, ha un generale e prioritario interesse a proseguire la gestione d'impresa in maniera tale da non dar luogo a possibili cause impeditive del normale svolgimento dell'attività''. ''In quest'ottica - scrivono i giudici - cagionare volontariamente l'avvelenamento delle acque destinate ad una numerosa popolazione, con il rischio di far insorgere forme di malattia agevolmente riconducibili all'attività chimica svolta presso il sito di Bussi, avrebbe rappresentato una scelta non solo criminale, ma contraria allo stesso interesse alla prosecuzione dell'attività imprenditoriale''. La Montedison quindi non ha deliberatamente inquinato, questa la tesi, da un lato perchè su Bussi ha avuto ''una programmazione temporale ampia e certamente non limitata al breve periodo'', tale che ove si fosse avuta la certezza di cagionare l'avvelenamento delle acque agendo con dolo diretto, si sarebbero poste le condizioni per una perdita economica futura ma certa e di notevole quantità, basti solo considerare la possibile perdita di valore del complesso industriale e la maggiore difficoltà dell'eventuale cessione a terzi''.

Disastro ma no condotta dolosaPer quanto riguarda il reato di disastro doloso per la discarica di Bussi, la Corte d'Assise nella sua sentenza lo ha derubricato in colposo e dichiarato prescritto. La sentenza come per l'avvelenamento doloso delle acque suggerisce ''analoghe conclusioni al reato di disastro ambientale''. ''Appare ben difficile desumere l'esistenza del dolo - peraltro intenzionale - sulla base della indimostrata equazione per cui la logica imprenditoriale, tesa a massimizzare il profitto, perseguirebbe i propri fini anche a discapito di valori di fondamentale importanza quale la tutela della salubrità ambientale. Una simile affermazione - scrivono i giudici - oltre ad essere obbiettivamente di difficile affermazione allorchè si vuole sostenere l'esistenza dell'elemento doloso intenzionale ad una pluralità di soggetti succedutesi nel corso dei decenni nella gestione industriale, si scontra col dato emergente dai documenti acquisiti agli atti, e in particolare da quelli concernenti gli interventi eseguiti nel corso degli anni all'interno dello stabilimento per migliorare lo standard di qualità ambientale''. ''In conclusione - scrivono i giudici Romandini e Di Geronimo - la conoscenza parziale del reale stato di contaminazione e soprattutto delle cause che lo determinavano, costituisce di per se un elemento difficilmente sormontabile nell'ottica della tesi d'accusa volta a sostenere la commissione dolosa del reato di disastro ambientale''.

E non si può parlare di disastro ambientale perchè ''è lecito affermare che essendo le ipotesi di disastro tipizzate tutti reati istantanei ad effetti permanenti, analoga struttura deve avere anche il disastro innominato'', prosegue la lettura della sentenza dei giudici di Corte d'Assise di Chieti. I disastro di Bussi non è quindi 'immediato' come una frana o una inondazione, ma frutto di una condotta che si è semmai protratta nel tempo. ''Un disastro - scrive la sentenza - deve consistere in un macroevento, riconoscibile per la sua gravità, diffusività, idoneità a produrre un pericolo non agevolmente controllabile''. Ebbene, per datare un disastro ambientale come quello di Bussi bisogna ritornare ''al momento in cui la condotta di inquinamento è assurta a livello di gravità, diffusività e pericolosità per la salute tale da integrare la nozione di disastro''. Quindi siccome lo sversamento delle sostanze inquinanti è il risultato del disastro e non la consumazione del reato, ''tutte le condotte che hanno cagionato il disastro ambientale risalgono ad una epoca molto precedente al capo di imputazione, al più tardi negli anni 90''. La cessazione del della condotta quindi ''risale di molto nel tempo e non fino al 2007'', tale da spostare ''a ritroso, pur nella obbiettiva difficoltà di individuare i termini di assoluta certezza l'epoca della commissione del reato, è ragionevole affermare che sia avvenuto al più tardi in epoca prossima al 1995, e quindi in un periodo sicuramente coperto dalla prescrizione''.
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