di
Lorenzo Tosa
Le
grandi opere? Sono come gli
elefanti
bianchi che, nel '700-800,
i
sovrani siamesi donavano agli aristocratici
europei.
Animali di pregio,
ma
che dopo un po' si rivelavano solo
un
enorme dispendio di risorse. Oggi
sta
accadendo lo stesso, solo che il cibo
dell'elefante
lo paga la collettività".
Luca
Mercalli si allenta il fiocco e impugna
la
sciabola. Un po' climatologo,
un
po' filosofo, da anni combatte una
battaglia
ostinata e contraria "contro
un
modello di sviluppo che non funziona
più".
In
che senso?
Le
grandi opere, per loro natura, tendono
a
concentrare grandi quantità di
denaro
in un luogo, con obiettivi ridotti
e
risultati limitati. Quei soldi potrebbero,
invece,
essere distribuiti sul
territorio,
attraverso opere estese e generalizzate
in
grado di valorizzare risorse
e
creare nuovi posti di lavoro
Ad
esempio?
Penso
a un piano di risanamento del
dissesto
idrogeologico, ma anche a investimenti
sulle
energie rinnovabili
che
renderebbero di più in termini sociali
e
di competenze, anche sul lungo
termine.
Piccole opere a livello locale,
che
diventano grandi se portate avanti
in
tutto il Paese.
Un
problema culturale?
Soprattutto
culturale.
In
Italia abbiamo migliaia
di
ricercatori
senza
nome. Un patrimonio
immenso
di conoscenze
che
non valorizziamo.
Concepiamo
progetti
faraonici per
risolvere
i problemi legati
ai
trasporti e all'ambiente
-
come il
Mose
- e intanto le
scuole
cadono a pezzi,
così
come gli ospedali e molti edifici
pubblici.
È lì che bisognerebbe intervenire,
e
invece è tutto fermo.
Da
dove si comincia?
Ci
sono decine di quartieri che sono
stati
costruiti di fretta e in zone a rischio.
Pensi
a cosa vorrebbe dire
smantellare
interi quartieri, abbatterli
e
ricostruirli. La quantità di energie e
posti
di lavoro che metterebbe in circolo.
E
poi ci sarebbe un'altra grande
opera
fondamentale incompiuta...
Quale?
Portare
la rete internet fino alle frazioni
più
remote di montagna. Permetterebbe
di
spostare il baricentro
della
conoscenza, porterebbe lavoro,
rivitalizzando
luoghi marginali.
Perché
non si è fatto?
Perché
le grandi opere consumano
tutta
la torta dei finanziamenti. Asfissiano
il
resto, attirando anche sacche
di
malaffare, come abbiamo visto coi
recenti
scandali. I risultati li abbiamo
sotto
gli occhi: la Brebemi o l'Expo:
un'occasione
sprecata.
Non
c'è proprio nulla da salvare? Esistono
anche
le grandi opere utili?
In
passato lo sono state. Nel Dopoguerra,
in
un'Italia ancora rurale e distrutta
dai
bombardamenti, la realizzazione
della
moderna rete autostradale
è
stata decisiva, ha portato sviluppo
e
benessere. Oggi, in questa società
iper-strutturata,
non
ha
più senso. È il momento
di
mantenere,
curare
quello che abbiamo.
Lo
avevano capito
anche
i Savoia...
Prego?
Gli
avevano regalato
un
elefante bianco.
Stupendo.
Dopo pochi
anni
non sapevano più
che
farsene e lo dovettero
soffocare
col monossido
di
carbonio. il fatto quotidiano 25 maggio 2015
BIOMEDICA
Nessun commento:
Posta un commento