I grandi marchi non comprano più frutta e ortaggi nell'area interessata dallo smaltimento criminale di rifiuti. Le disposizioni contenute in documenti che ilfattoquotidiano.it ha potuto vedere. Ma il perimetro tracciato comprende un territorio vastissimo. Gli agricoltori protestano: "Colpite anche le produzioni sane, solo un'operazione di marketing"
Le grandi aziende in fuga dalla provincia di Napoli e Caserta. Ma più che una minaccia, somiglia a un annuncio precauzionale. Un marchio, “Terra dei fuochi”, affibbiato a un intero territorio, usato con logica generalizzante, rischia di distruggere il settore agricolo, tra i motori economici dell’intera area. Un documento dello scorso dicembre – che il Fatto ha letto – firmato dal responsabile dell’area acquisti del settore agricolo della Findus, spiega: “C’è un’area della Campania nella quale sono vietate tutte le coltivazioni senza deroghe possibili”. In allegato al documento c’è una foto in cui è delimitata l’area in questione: così vasta da ricomprendere la provincia di Caserta e quella di Napoli, lato mare, da Mondragone fino a Licola, e nella parte interna, da Capua fino a Nola. Al telefono un dipendente Findus: “Il motivo è ovvio”. Ragioni mediatiche, chiediamo? “Certo, certo”.
Abbiamo chiesto alla Findus in via ufficiale se il perimetro delimitato è basato su analisi scientifiche o unicamente sulla generalizzata dicitura ‘Terra dei fuochi’. Ecco la risposta via email: “Non abbiamo mai acquistato prodotti ortofrutticoli nella cosiddetta ‘Terra dei fuochi’. In via preventiva, abbiamo recentemente deciso di limitare ulteriormente le aree di approvvigionamento nella Regione Campania di patate e verze”. Una cautela assunta nei confronti dei fornitori e consumatori. La conferma arriva da Orogel. Anche in questo caso, il Fatto ha visionato un documento dello scorso ottobre nel quale si legge che “bisogna garantire che l’approvigionamento di materie prime non provenga dalle suddette aree”. Le aree sono Acerra, Nola, Aversa e Marigliano. Luca Pagliacci, direttore margketing Orogel, spiega le ragioni di quel documento: “Noi non stavamo ritirando in quella fase, ma proprio in quel periodo, Le Iene di ItaliaUno lanciavano accuse senza citare il nome dell’azienda. In quel momento la grande distribuzione ci ha tempestato di telefonate nelle quali ci chiedevano una dichiarazione scritta. E la direzione qualità ha mandato quella lettera”.
Insomma una risposta all’attenzione ‘mediatica’. “Ma noi non abbiamo nessun problema a prendere prodotti da quei territori nel prossimo futuro – conclude Pagliacci – tanto li controlliamo con i nostri laboratori”. Il rischio è che questi annunci mettano in crisi il sistema agricolo campano. Paolo Petrella è imprenditore agricolo. Patate, cachi, kiwi, noci sono il suo oro. Si siede alla scrivania e stampa fogli con timbro e intestazione. “Eccole le analisi dei prodotti, le abbiamo fatte con i nostri soldi in laboratori privati. Mandateci l’Asl, l’Arpac, tutti i controlli che volete, i nostri prodotti sono ottimi e certificati. Non si può, per terreni contaminati che vanno circoscritti con una mappatura immediata, distruggere un intero settore”. E Petrella spiega che nessun prodotto di queste terre deperisce: “Il problema è che noi vendiamo tutto, ma a prezzi da fame, subiamo la speculazione del marchio di infamia ‘Terra dei fuochi’. Insieme ad altri sto pensando di andare in Tunisia. Detassazione per dieci anni e senza essere bollati”. Insomma, la terra dei fuochi non solo resta un’emergenza ambientale, in attesa di bonifiche e mappatura, ma rischia di diventare il killer dell’agricoltura sana della Campania. chi semina raccoglie, poi c'è chi semina malattie e inquinamento
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