conti in rosso e amianto Liguria e la tentazione del titanio
CONTI IN ROSSO E AMIANTO La Liguria e la tentazione del titanio di Mario Molinari Il fatto quotidiano 8 aprile 2013 No grazie, quello che cerchiamo noi è molto più prezioso”. Si racconta che abbiano risposto così tre americani all’offerta di una pietra di granato. Già, loro erano venuti per il titanio. Siamo a Vara, a un tiro di schioppo da Urbe, cittadina bella e sperduta nel Geoparco del Monte Beigua a cavallo tra Savona, Genova e Alessandria. Riposerebbe qui una ciclopica miniera di rutilo, minerale dal quale si estrae un metallo leggero e pregiato: il titanio. Salendo da Sassello verso Piampaludo nel paesaggio qualcosa di impercettibile cambia. Le rocce diventano di un colore verdastro. É il serpentino, minerale “precursore” del - l’amianto, massicciamente presente anche nel monte Tarinè, là dove da decenni si vorrebbe scavare (alla grande) per estrarre dalla durissima crocidolite il rutilo, minerale accessorio del titanio, per mandarlo poi in Germania per l’ulti - ma fase dell’estrazione. Secondo uno studio del professor Annibale Montana, pubblicato dall’Accademia dei Lincei, su 2,5 tonnellate di roccia alla fine di tutti i processi si otterrebbero circa 12 chili di titanio al valore di circa 20 dollari al chilogrammo come conferma il geologo Giuseppe Boveri. Largamente utilizzato in campo aeronautico, medico e militare il titanio è un metallo che fino all’avvento dei materiali compositi la faceva da padrone per resistenza e leggerezza ma che oggi, secondo un alto funzionario di una società metallurgica che preferisce restare anonimo, “non giustificherebbe un investimento di 500 milioni che pioverebbero nelle casse della regione Liguria ogni anno e per un decennio. Tanti soldi che potrebbero trasformare l’intera regione in un Eldorado. Ma anche con una miniera a cielo aperto, che potrebbe somigliare per morfologia alla famigerata cava di amianto di Balangero (Torino). Gli 800 metri per 1500 previsti per il cratere potrebbero moltiplicarsi in corso d’opera: la miniera somiglierebbe a una specie di conico inferno dantesco, più si scende, più occorre allargare la parte superiore con un consumo di territorio e una dispersione di polveri (amianto e asbesto), nonostante le puntuali rassicurazioni dei proponenti. Già negli anni ’70 il colosso Dupont con società collegate condusse una campagna di carotaggio. Il “tesoro” si vede ai piedi di un immensa pietraia di macigni da tonnellate ciascuno. Con l’aiu - to di mani esperte, avvicinandosi alle rocce compatte di crocidolite il rutilo si vede ad occhio nudo. MA ALLA FINE la miniera si farà? A render dubbia la fattibilità dell’operazione c’è anche la carenza di infrastrutture: l’unico ponte ha dei buchi che ci vedi il fiume sotto. L’autostrada è a 26 km di curve. Ma oggi, come ogni dieci anni, la notizia riemerge come per testare la reazione della cittadinanza. Per dirla alla Jannacci, “a vedere tutti quanti l’effetto che fa”, specie in momenti di crisi. Eppure è dimostrato che la zona è a rischio amianto. Come confermerebbero le analisi del professor Mottana pubblicata dai Lincei: “Questa zona è a rischio; pertanto le attività minerarie di estrazione e trattamento sono da evitare mentre la valorizzazione e la conservazione del territorio devono essere limitate ai soli interventi necessari ai fini della ricerca scientifica”. Apparentemente tutti contro dunque, il governatore Claudio Burlando incluso, forte della legge regionale del 1995 che vieta operazioni minerarie, di cava e discarica. Ma basterebbe una leggina regionale per togliere i vincoli. Et voilà, i conti della Regione non sarebbero più in rosso.
perforazioni bomba innescata in zona sismica tra Avellino e Benevento
Pe r fo r a z i o n i : “bomba” i n n e s c at a in zona sismica 46 COMUNI COINVO LT I TRA AVELLINO E BENEVENTO. IL GEOLOGO: “SONO PAZZI, L’AREA È STATA EPICENTRO DI UNO DEI SISMI PIÙ DISTRUTTIVI DELLA STORIA” di Enrico Fierro Il fatto quotidiano 8 aprile 2013 Non sono mai contenti i rapinatori del Sud. Prima ci hanno rubato le braccia, la nostra carne finita all’estero nei macelli alla Marcinelle, poi i cervelli dei nostri giovani costretti ad andar via, e poi ancora l’aria con le pale eoliche, e adesso vogliono fotterci pure quello che c’è sotto la terra”. Quando chiediamo a Franco Arminio, scrittore e voce dolente del Sud interno, cosa ne pensa dell’idea di trasformare le terre della sua Irpinia d’Oriente nel Kuwait italiano, butta all’aria i fogli con le bozze del suo ultimo libro (Geografia commossa dell’Italia interna, editore Bruno Mondadori) e sbotta. “Ma questa fetenzia di Stato italiano quando si deciderà a fare un piano di sviluppo serio, moderno e avanzato per le nostre terre? Qui c’è l’aria migliore, l’acqua più limpida, qui si può sperimentare una crescita giusta con energie alternative che portino ricchezze alle popolazioni locali e non alle multinazionali del vento”. La risposta è mai. Lo Stato italiano, dopo anni di egoismo leghista, di berlusconismo arruffone e con una sinistra incapace di coniugare in termini nuovi l’antica “Questione meridionale”, lascia campo aperto alle sette sorelle del Duemila. Le compagnie petrolifere pronte a divorare sottosuolo, acqua e salute della gente del sud interno. Ai politici locali tocca la parte di sempre: quella dei balbettanti ascari. ED ECCO ALLORA che in Irpinia, spunta il totem del petrolio: 46 comuni coinvolti tra le province di Avellino e Benevento, 700 km quadrati da perforare. È il progetto “Nu - sco”, elaborato dalla Italmin Exploration, una società romana con capitale sociale di 130mila euro, due soci, Mario Panebianco e Lonsdale Barry James, e ottimi legami con la multinazionale petrolifera Northen Petroleum, poi passato alla Cogeid di Roma, titolare di sei permessi di perforazione in Italia e interessi in Kuwait, Ucraina, Russia e Oman. Tutte le carte a posto fin dal 2002, quelle del ministero e i permessi della Regione, firmati anche dall’allora vicepresidente, ora deputato Udc, Giuseppe De Mita. Cognome pesante a Nusco e in tutta l’Irpinia. Valutazione impatto ambientale, rischio sismicità, tutto ok, fino a quandei do non interviene la gente del posto. Che si organizza nel Comitato no petrolio in Alta Irpinia e costringe anche la Regione a fermarsi. “Il nostro no alle perforazioni non è ideologico, abbiamo sentito il parere di scienziati di livello internazionale, poi ci siamo mobilitati”, ci dice Eduard Natale, 26 anni, futuro ingegnere informatico. Con gli altri ragazzi e gli adulti del Comitato è uno dei Davide contro il Golia dell’oro nero. Hanno chiamato un geologo di fama come Franco Ortolani per chiedere aiuto e il professore si è messo le mani nei capelli. “Sono pazzi, l’area interessata dal permesso Nusco è stata l’epicen - tro dei sismi più distruttivi degli ultimi 400 anni. Nel sottosuolo ci sono faglie attive sismogenetiche e la scienza non ne conosce l’ubicazione né la geografia. Non si può prevedere se le perforazioni profonde e le conseguenti attività estrattive possono intercettare le faglie”. Quando la gente dell’Irpinia (ultimo terremoto nel 1980, 3mila morti), ha ascoltato queste parole, ha cominciato a capire. Arriva il petrolio, ma non porta ricchezza. Come nella vicina Basilicata, dove si estrae il 7% del fabbisogno petrolifero nazionale con guadagni enormi per le multinazionali ma la regione resta sempre la più povera d’Italia. “L’industria petrolifera – dice ancora il professor Ortolani – ha bisogno di molto spazio da inquinare, ma è una industria molto potente che mobilita cifre enormi e acquisisce facilmente pareri in tutti i modi, sia di ordine tecnico che amministrativo”. Altro che oro nero, “il petrolio che si estrae in Italia – scrive la blogger Maria Rita D’Orsogna – è pieno di impurità sulfuree che vanno eliminate il più vicino possibile ai punti di estrazione”. UN PERICOLO, dice alla gente d’Irpinia il professor Antonio Marfella, oncologo di Medici per l’ambiente. “Voi siete il serbatoio idrico di mezzo Sud, quando si tocca un territorio dove c’è l’acqua è finita, fare la scelta del petrolio significa andare fuori dalla storia”. Convegno dopo convegno, analisi e studi pubblicati sui siti internet, le delibere che il Comitato ha preparato per i sindaci, alla fine tanti comuni stanno dicendo stop ai pozzi di petrolio. “Una truffa antica – ci racconta Giovanni Marino, ricercatore dell’Archivio storico Cgil – qui già negli anni Cinquanta provarono ad estrarre petrolio”. Marino ci mostra le foto in bianco e nero del sindaco dell’epoca con in mano una bottiglia piena di liquido scuro e il volto sorridente. Poi l’inganno, come i tanti fatti sulla pelle di queste terre, finì. “Il petrolio è un totem – commenta l’antropologo lucano Enzo Allegro – un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”.
No Trivelle Sicilia isole Egadi - isole di sogno e cattedrali sotto assedio
Isole di sogno e cattedrali sotto assedio di Giacomo Di Girolamo Il fatto quotidiano 8 aprile 2013 Sembrava vinta la battaglia dei comitati “No Triv” in Sicilia contro la perforazione del mare delle isole Egadi - nella più grande Area Marina Protetta d’Europa - , di Sciacca e di Pantelleria. I permessi di ricerca erano stati sospesi, il Parlamento aveva posto limiti più stringenti alle richieste. Era il 2010. Tre anni dopo, il rumore delle trivelle torna a farsi sentire, alla luce di due provvedimenti del governo. Il primo è il decreto “Cre - scItalia” del Governo Monti, che estende a tutta la costa italiana la zona off limits delle 12 miglia marine per le nuove richieste di estrazione di idrocarburi a mare, ma fa anche ripartire i procedimenti per la ricerca e l’ estrazione di petrolio che erano stati bloccati nel 2010 dopo l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. Inoltre, la fascia off limits delle 12 miglia parte ora dalle linee di costa (cioè dalla battigia) e non più dalle linee di base (che includono golfi e insenature). Di qualche giorno fa è invece un decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, che estende l’area per la ricerca di idrocarburi al largo delle coste della Sicilia. La zona di “ricerca e coltivazione degli idrocarburi in mare” è chiamata zona “C”, e nei fatti, viene raddoppiata, perchè comprende il mare intorno alla Sicilia, le Egadi, Pantelleria, Selinunte e Mazara del Vallo, dove c’è la flotta peschereccia più grande d’Italia. E ancora, una vasta porzione a est del Mar Ionio e a sud est del Canale di Sicilia. Ci sono tre mesi per presentare domanda. Solo nel canale di Sicilia ci sono già - ancora prima della pubblicazione del nuovo decreto - 29 richieste per trivellazioni in mare (quasi la metà di quelle di tutta Italia), 11 delle quali approvate. I permessi per l’estrazione di idrocarburi già concessi, invece, sono 3, per un totale di quattro piattaforme attive al largo delle coste siciliane, e tre sono le concessioni di coltivazione in via di valutazione. Greenpeace ha condotto in Sicilia una campagna dal titolo “U mare un si spirtusa” (“Il mare non si buca”), raccogliendo le adesioni di molti amministratori locali. Secondo i calcoli dell’associazione, per le quattro piattaforme già attive in Sicilia – a Gela e Scicli – nelle casse dello Stato e della Regione sono entrati appena 48.826 euro. A SCIACCA IL COMITATO “Stoppa la piattaforma”, che nel 2010 aveva vinto la sua battaglia contro la Northern Petroleum, che aveva chiesto di perforare il mare entro le 12 miglia, deve fare i conti con la deroga del decreto CrescItalia. Stessa cosa per un altro permesso che riguarda la costa da Sciacca ad Agrigento. Northern Petroleum possiede ben 7 istanze di ricerca, ne ha presentate altre 9. La Shell in tutto il Canale di Sicilia ha permessi di ricerca per 4200 km quadrati. Altre richieste sono state presentate da Eni, Edison, Transunion Petroleum. Il tutto nonostante la Convenzione di Barcellona preveda espressamente la tutela del Canale di Sicilia come “area prioritaria per garantire un futuro all’ecosistema del Mediterraneo”. Per non parlare delle autorizzazioni alla ricerca di idrocarburi all’in - terno dell’isola, nella Valle del Belice (gruppo Enel) e la Val di Noto (Patrimonio Unesco). É dovuta intervenire la Regione per bloccare le trivelle.
Monti il decreto salvatrivelle regalo ai petrolieri
Monti, il decreto salva- trivelle spalanca le porte ai petrolieri LE MISURE CONTRO LA CRISI CONTENGONO UN REGALO ALLE COMPAGNIE. IL GREGGIO ITALIANO È DI SCARSA QUALITÀ, MA LO STATO CHIEDE DIRITTI BASSISSIMI Il fatto quotidiano 8 aprile 2013 di Michele Concina Cresci, Italia. E scava più che puoi. Il decreto varato dal governo Monti nel giugno scorso, intitolato dagli spin doctors alla crescita per bilanciare l’impatto depressivo del precedente Salva Italia, per le compagnie petrolifere è stato un semaforo verde. Una riapertura della corsa al petrolio e al gas, soprattutto in mare. “É vero che il decreto conferma una fascia protetta di 12 miglia dalle coste e dalle riserve marine, ma allo stesso tempo sblocca tutte le pratiche di autorizzazione congelate due anni prima”, spiega Giorgio Zampetti, geologo, responsabile scientifico di Legambiente. “Di fatto, un condono delle trivelle, che nel giro di qualche anno potrebbe affiancare 70 nuove piattaforme petrolifere, distribuite lungo tutto l’Adriatico e il Canale di Sicilia, alle 9 già in funzione nelle nostre acque”. É di cattiva qualità, il petrolio italiano. É pesante, molto viscoso, povero d’idrocarburi pregiati, carico d’impurità, difficile da pompare e da raffinare. Eppure, è ambitissimo: si contano, al 31 marzo, 22 permessi di ricerca attivi, 36 istanze di nuovi permessi, 11 istanze di “coltiva - zione” di pozzi in mare. Il motivo? Il greggio tricolore costa davvero poco. In tutto il mondo, gli Stati chiedono alle compagnie una grossa fetta dei loro lauti guadagni, sotto forma di royalties, per compensare i gravi danni che l’attività estrattiva infligge all’ambiente. “In Norvegia, per esempio, le royalties ammontano al 78 per cento, in Russia all’80, in Danimarca arrivano al 70, in Gran Bretagna vanno dal 32 al 50 per cento, negli Stati Uniti partono dal 30, in Australia sono al 40 per cento, in Canada al 45”, elenca Pietro Dommarco, autore di Trivelle d’Italia. DA NOI, le compagnie se la cavano con il 7 per cento sul petrolio estratto in mare, il 10 in terraferma, il 10 sul gas dovunque sia. Lamentano, naturalmente, che la tassazione sulle imprese è così alta che alla fine pagano più del 60 per cento, ma solitamente dimenticano di menzionare le generose franchigie di cui godono: basta dire che i primi 300 mila barili prodotti ogni anno da ciascun giacimento sono esenti da royal ties. Tanto che su 59 gruppi petroliferi operanti in Italia, nel 2011 solo 9 le hanno versate. Quanto ai canoni di concessione sulle aree, a pagarli è sufficiente il portamonete: si va da due euro e 60 al chilometro quadrato per le prospezioni a cinque euro per le ricerche, fino a poco più di 40 euro per l’estra - zione. Naturale che due operatori, la Cygam Energy e la Northern Petroleum, nei rapporti ai loro azionisti si siano sperticati a magnificare l’assetto fiscale del settore in Italia. In tutto, le royalties versate nel 2011 (quando le aliquote erano ancora più basse) ammontano a meno di 262 milioni. Il grosso, quasi due terzi, va alle regioni in cui si trovano i giacimenti. Lo Stato si tiene un 25 per cento, il resto va ai comuni. Non a tutti, però: dalle piattaforme marine, le amministrazioni comunali costiere non incassano un centesimo. Il che aiuta a spiegare, fra l’altro, perché i loro sindaci partecipano più spesso ai movimenti di protesta no-triv. Quei pochi soldi dovrebbero riparare guasti, e compensare pericoli, che tutte le associazioni ambientaliste considerano enormi. “Nel Mediterraneo, un mare chiuso con un lentissimo ricambio delle acque, transita già un quarto del traffico mondiale d’idrocarburi”, sottolinea un dossier compilato per il Wwf da Fabrizia Arduini e Stefano Lenzi. “Di conseguenza, la percentuale d’idrocarburi disciolti nell’acqua è la più alta del pianeta, dalle 100 alle 150 mila tonnellate ogni anno secondo il Programma Ambiente dell’Onu”. Le nuove trivelle possono contribuire pesantemente: secondo uno studio commissionato dai massimi organismi internazionali, i soli pozzi esplorativi in mare “potrebbero aver sversato da 48 mila a 195 mila tonnellate di sostanze tossiche”. Senza contare il disturbo alla fauna marina, in particolare ai cetacei, procurato dalle navi di ricerca con i loro “air guns”, cannoni ad aria compressa che sparano sul fondo marino per studiarne la risposta sismica. A SCONGIURARE i rischi dovrebbero essere le procedure di autorizzazione e le valutazioni d’impatto ambientale, che in Italia sono lunghe e complesse. Si passa per tre fasi: l’autorizza - zione alle prospezioni di ricerca, poi allo scavo di un pozzo esplorativo, infine alla “coltivazione”, cioè all’estrazione. Fra una cosa e l’altra passano in media più di dieci anni. Ma la Strategia energetica nazionale, licenziata poche settimane fa dal ministero per lo Sviluppo economico, punta a sveltire il processo: prevede un’autorizzazione unica per tutte e tre le fasi.
trivelle nel sottosuolo e terremoti Emilia Romagna la più estratta
Emilia Romagna, la regione più “e st ra t t a ” A SPAVENTARE è la disinformazione. Che l’Emilia Romagna fosse la regione dove si è trivellato di più in Italia, i cittadini l’hanno scoperto il giorno dopo il terremoto del maggio 2012. Dalla fine del ‘700 sono circa 1.697 i pozzi perforati nella zona, mentre nel 2011 sono stati estratti 193 mila barili di greggio e 203 milioni di metri cubi di gas naturale. Sessantuno i permessi di ricerca concessi dal ministero dell’Economia. A lanciare l’allarme, una parte della popolazione che mette in collegamento le ricerche nel sottosuolo con il sisma che ha sconvolto l’Emilia. Questo ha spinto il presidente della regione Vasco Errani a chiedere una Commissione internazionale per valutarne l’effettiva relazione. “E’ assurdo – commenta Stefano Conti, geologo dell’Università di Modena – dobbiamo stare attenti a parlare di relazioni causa-effetto. Non c’erano perforazioni alla profondità dell’epicentro e al massimo i micro terremoti dati dalle attività sono immediati. Non c’è base scientifica nel dire che hanno provocato il terre m o to”. E se gli esperti negano qualsiasi relazione, a essere sempre più attivi sono i comitati locali, organizzati nella rete “No Triv”. “La politica – d i ce Elisabetta Sala da Fabbrico (Reggio Emilia) – non può prendere decisioni sopra le nostre teste. Se non eravamo noi ad accorgerci quandei permessi di ricerca, ci saremmo trovati i macchinari davanti a casa. Abbiamo messo in campo tutte le energie per frenare la situazione”. I comitati No Triv prolificano, da Ravenna fino a Ferrara: “Spes - so – racconta Cinzia Passi – diffondiamo semplicemente informazioni. Ad esempio, ogni abitante può dirsi contrario alle operazioni di ricerca sulla sua p ro p r i e t à ”. Tante le battaglie in corso, come San Felice sul Panaro, dove a pochi passi dell’epicentro del terremoto doveva sorgere un deposito di stoccaggio gas. Dopo il no del ministero, si aspetta la decisione del Tar. “La nostra terra – interviene Lorenzo Preti del comitato – ha dimostrato di essere instabile e noi abbiamo bisogno di certezze”.
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