La piattaforma Polar Pioneer e la nave Noble Discoverer, sono in viaggio per conto della Shell – dall’Oceano Pacifico ai mari dell’Artico. Direzione finale – se tutto va bene per la Shell – il Chukchi Sea, in Alaska dove vivono foche, trichechi, balene e orsi polari. La Shell arriva qui per un altro tentativo di perforare i ghiacci nordici, una specie di sport estremo per i petrolieri.
I primi permessi arrivarono nel 2008, ma nel corso degli anni fra fallimenti della Shell e ricorsi vari, ancora non ci sono riusciti. Anche quest’anno la decisione è ancora aperta ed Segretario dell’Interno, Sally Jewell, non ha ancora reso noto se alla Shell sarà permesso di trivellare in Artico o no. I petrolieri però si preparano lo stesso.
La storia è veramente una litania di incidenti: nel 2012 al posto della Polar Pioneer, la Shell aveva ingaggiato la piattaforma Kulluk. Non le erano andate tanto bene le cose ed il 1 gennaio del 2013 la Kulluk, in balìa del vento e del mare artici, si era sganciata dal rimorchiatore e si era allegramente schiantata contro l’isola di Sitkalidak, in Alaska. Il disastro ambientale fu evitato solo grazie all’intervento della guardia costiera americana che fortunatamente non era lontana. Ci furono multe, indagini e la conclusione che la Shell aveva commesso errori di valutazione e che non era preparata per l’impresa che si era proposta. Ovviamente, trivellare l’Artico è più pericoloso che trivellare terra e mari “temperati” perché nessuno sa come ripulire i ghiacciai dall’inquinamento e come intervenire a temperature estreme. Non ci sono tecniche collaudate, non ci sono protocolli collaudati.
E cosi dopo qualche anno di pausa, la Shell corre di nuovo verso i mari estremi dell’Alaska. Corre, perché circa un mese fa l’amministrazione Obama aveva timidamente proposto nuove regole che renderebbero le operazioni offshore in Alaska un po più sicure per l’ambiente, ammesso che questo sia possibile, ma che aumenterebbero i costi per le compagnie.
Quali sono queste regole per operare in mari cosi difficili come quelli dell’Artico? I petrolieri dovranno mostrare di poter rispondere in modo adeguato e rapido in caso di possibili incidenti. Gli equipaggi dovranno sempre avere con se sistemi e mezzi per intervenire immediatamente senza aspettare arrivi dalla terraferma. Mi pare il minimo, no? Ma a Shell e compari questo non piace.
Intanto, secondo l’impatto ambientale redatto dal Bureau of Ocean Energy Management se la Shell dovesse trivellare in Artico sussiste il 75 percento di possibilità che ci siano incidenti e rilasci accidentali a mare di petrolio. Il settantacinque per cento. Portrebbero essere danneggiate circa 6,000 balene e 50,000 foche, con danni a tutte le specie marine, anche in condizioni “normali”. Ci saranno alte probabilità di rilascio in mare di inquinanti, rumori che disturberanno la vita marina, e ovviamente aumento di emissione di gas serra in atmosfera. La comunità che sarà maggiormente impattata dalle trivelle sarà quella degli Inupiaq, 13,500 persone che vivono di pesca lungo le coste dell’Alaska con tradizioni millenarie in simbiosi con il mare e le sue creature. Questo lo dice un ente governativo.
Le proteste sono dappertutto: a Seattle, dove i residenti non vogliono che il loro porto venga usato per fare da supporto logistico alla Shell, alla Casa Bianca, dove invece si ricorda ad Obama che non si può servire due padroni: da un lato parlare di lotta ai cambiamenti climatici nei convegni internazionali ed allo stesso tempo voler trivellare l’intrivellabile. Addirittura la città di Seattle ha ufficializzato il no all’uso del suo porto, mandando una lettera a Sally Jewell, chiedendole di valutare attentamente se trivellare in Alaska sia prudente e/o possibile. Forse l’atto più coraggioso arriva da sei intrepidi volontari di Greenpeace che sulla nave Esperanza seguno la Shell e cercano di capire cosa esattamente stanno facendo
La piattaforma Polar Pioneer e la nave Noble Discoverer, sono in viaggio per conto della Shell – dall’Oceano Pacifico ai mari dell’Artico. Direzione finale – se tutto va bene per la Shell – il Chukchi Sea, in Alaska dove vivono foche, trichechi, balene e orsi polari. La Shell arriva qui per un altro tentativo di perforare i ghiacci nordici, una specie di sport estremo per i petrolieri.
I primi permessi arrivarono nel 2008, ma nel corso degli anni fra fallimenti della Shell e ricorsi vari, ancora non ci sono riusciti. Anche quest’anno la decisione è ancora aperta ed Segretario dell’Interno, Sally Jewell, non ha ancora reso noto se alla Shell sarà permesso di trivellare in Artico o no. I petrolieri però si preparano lo stesso.
La storia è veramente una litania di incidenti: nel 2012 al posto della Polar Pioneer, la Shell aveva ingaggiato la piattaforma Kulluk. Non le erano andate tanto bene le cose ed il 1 gennaio del 2013 la Kulluk, in balìa del vento e del mare artici, si era sganciata dal rimorchiatore e si era allegramente schiantata contro l’isola di Sitkalidak, in Alaska. Il disastro ambientale fu evitato solo grazie all’intervento della guardia costiera americana che fortunatamente non era lontana. Ci furono multe, indagini e la conclusione che la Shell aveva commesso errori di valutazione e che non era preparata per l’impresa che si era proposta. Ovviamente, trivellare l’Artico è più pericoloso che trivellare terra e mari “temperati” perché nessuno sa come ripulire i ghiacciai dall’inquinamento e come intervenire a temperature estreme. Non ci sono tecniche collaudate, non ci sono protocolli collaudati.
E cosi dopo qualche anno di pausa, la Shell corre di nuovo verso i mari estremi dell’Alaska. Corre, perché circa un mese fa l’amministrazione Obama aveva timidamente proposto nuove regole che renderebbero le operazioni offshore in Alaska un po più sicure per l’ambiente, ammesso che questo sia possibile, ma che aumenterebbero i costi per le compagnie.
Quali sono queste regole per operare in mari cosi difficili come quelli dell’Artico? I petrolieri dovranno mostrare di poter rispondere in modo adeguato e rapido in caso di possibili incidenti. Gli equipaggi dovranno sempre avere con se sistemi e mezzi per intervenire immediatamente senza aspettare arrivi dalla terraferma. Mi pare il minimo, no? Ma a Shell e compari questo non piace.
Intanto, secondo l’impatto ambientale redatto dal Bureau of Ocean Energy Management se la Shell dovesse trivellare in Artico sussiste il 75 percento di possibilità che ci siano incidenti e rilasci accidentali a mare di petrolio. Il settantacinque per cento. Portrebbero essere danneggiate circa 6,000 balene e 50,000 foche, con danni a tutte le specie marine, anche in condizioni “normali”. Ci saranno alte probabilità di rilascio in mare di inquinanti, rumori che disturberanno la vita marina, e ovviamente aumento di emissione di gas serra in atmosfera. La comunità che sarà maggiormente impattata dalle trivelle sarà quella degli Inupiaq, 13,500 persone che vivono di pesca lungo le coste dell’Alaska con tradizioni millenarie in simbiosi con il mare e le sue creature. Questo lo dice un ente governativo.
Le proteste sono dappertutto: a Seattle, dove i residenti non vogliono che il loro porto venga usato per fare da supporto logistico alla Shell, alla Casa Bianca, dove invece si ricorda ad Obama che non si può servire due padroni: da un lato parlare di lotta ai cambiamenti climatici nei convegni internazionali ed allo stesso tempo voler trivellare l’intrivellabile. Addirittura la città di Seattle ha ufficializzato il no all’uso del suo porto, mandando una lettera a Sally Jewell, chiedendole di valutare attentamente se trivellare in Alaska sia prudente e/o possibile. Forse l’atto più coraggioso arriva da sei intrepidi volontari di Greenpeace che sulla nave Esperanza seguno la Shell e cercano di capire cosa esattamente stanno facendo
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