giovedì 28 luglio 2016

prima dell'inquinamento della centrale a biomasse di Latina Scalo: UN VIAGGIO NEI GIARDINI D'ITALIA Ninfa e il tempo materiale

Questo è un viaggio nei più stupefacenti giardini italiani: da Valsanzibio a Boboli, dalla reggia di Monza ai boschi-giardino di Merano, Ischia e BomarzoTiziano Fratus con L'italia è un giardino ci invita a scoprirli. Nel brano che segue, i giardini di Ninfa.

Se non siete mai stati a Ninfa vi siete persi qualcosa. Immaginate un villaggio medioevale, attraversato da un fiume e circondato per metà da un lago. Abbandonato secoli fa. Le rovine e la natura che ha ripreso il proprio posto. La mano sapiente e lieve di uomini che se ne prendono cura e allevano, ma non impongono.
Il resto è quel che chiamiamo «il Creato». Alcuni luoghi hanno il dono di amplificare la propria introspezione. Se esiste un giardino in Italia che mi accende i sensi è proprio Ninfa, mentre sono qui che mi aggiro, solitario, libero come il vento di passare sui ponti, di accarezzare le cortecce dei tronchi vetusti, di infilare le mani nelle finestre che un tempo erano ben sbarrate, e ora sono luce. Le prime fioriture che a metà febbraio hanno già iniziato a colorare il giardino: le prime magnolie esotiche, due mimose accecanti, alcune classiche camelie giapponesi rosate e rossastre. E quel fiume d’acqua dolce che spacca in due il giardino, come un taglio netto, vivo, sanguinante, che sembra lo scenario ideale, perfetto, dove il Millais ha lasciato affondare la sua Ofelia shakespeariana. Transitando per una porticina arrivo sul bordo del fiume, e da qui mi inginocchio a sfiorare col dito l’acqua gelata. Il cielo, a chiazze, riverbera, si tatua, sullo specchio che dolcemente fluisce. Anch’io lascio scivolare dentro alcune delle mie Ofelie tempestose, soltanto all’apparenza addormentate, assopite, placide. Sperando che non se ne accorgano. Le vedo sfuggire, affondare, svanire.
Camminando in un mondo a parte, qui a Ninfa, è come se si attraversassero i quattro stadi della coscienza che un uomo può sperimentare: i due gradi soggettivi, i più elementari, ovvero il sonno e la coscienza lucida, o stato di veglia della coscienza, quello che attualmente sto usando per prendere appunti e che il lettore userà per leggere queste pagine; e due stati di coscienza obiettivi, od oggettivi: il ricordarsi di sé o coscienza di sé, e la coscienza obiettiva. Per vedere le cose come sono bisogna iniziare a non dare per scontato che la realtà sia quella che abitualmente percepiamo e ci raffiguriamo, proprio perché in ogni uomo esistono almeno due uomini: l’uomo che chiamiamo io e l’uomo che vedono gli altri, fuori da noi. «Finché un uomo considera se stesso come una sola persona, resterà sempre così com’è». Ecco perché si inizia a lavorare su se stessi, percorrendo un sentiero che differisce nelle tecniche, ma non nell’obiettivo, da quanto perseguono le visioni orientali, dalla meditazionevipassana, che si basa sugli insegnamenti del Buddha, alle diverse scuole di meditazione zen, al taoismo e così via. Indebolire, fiaccare la presenza autoritaria e univoca dell’io, del proprio egocentrismo, per iniziare a respirare le cose così come sono, il mondo com’è fuori da noi.
È un percorso di accrescimento e profondità che, schematicamente, possiamo vivere anche in un giardino. E quale luogo migliore di Ninfa, dove la storia dell’umanità ha fatto passi indietro e poi ha iniziato a intrecciarsi con la natura naturata? Possiamo visitare questi giardini con la percezione che i sensi ci consentono, ammirando le abbondanti fioriture, i profumi, l’accostamento fra muri in rovina, porte mancanti, ponticelli che resistono e le cortecce dei pioppi che crescono drogati dall’abbondanza di acqua, i vialetti argentati dalla lavanda, o perdendoci nelle geometrie sorprendenti del bosco di bambù giganti. Poi possiamo passare ad una lettura del giardino più approfondita, fatta di conoscenze botaniche, di analisi artistiche, ammirando i dettagli sopravvissuti delle chiese, delle tre figure rimaste degli affreschi a Santa Maria Maggiore, la più grande delle sette chiese che qui pascolavano le anime dei fedeli. E poi, alfine, domandandosi, indagando il senso del tempo che passa, della natura che si fa puntello della rovina e ricomincia a camminare, a crescere, a farsi strada quando oramai le lingue dell’umanità si sono quasi del tutto spente. Ma poi, in un giardino del genere, nel quale la cura dell’uomo è continua, attenta, ma non invasiva, compatibilmente con la sicurezza dei visitatori, la natura può davvero camminare come farebbe se fosse lasciata a se stessa? Anche questa è una presa di coscienza, anche questa è parte di una visione obiettiva. Una delle ossessioni tangibili nel pensiero dei custodi tanto dei nostri parchi, quanto delle grandi architetture storiche, è come conservare. Come mantenere la qualità delle opere che i secoli passati, e l’ingegno degli uomini, ci hanno lasciato in eredità. Plutarco (46-120 d.C.), lo storico nato in Beozia e in seguito divenuto cittadino romano, introdusse il concetto del paradosso della nave di Teseo. Il re di Atene era stato a Creta, dove aveva affrontato e sconfitto il Minotauro. Tornato in patria, la sua nave rimase, come un cimelio, nel porto, mano a mano che i pezzi marcivano venivano sostituiti, e alla fine non era rimasto più nulla della nave originaria. È dunque ancora quella, la nave, il suo spirito è salvo, oppure è un falso, qualcosa di nuovo che quel simbolo non può più rappresentare?
Molti filosofi si sono arrovellati su tale questione. In Francia, ad esempio – e ricordo una visita guidata al Palazzo dei Papi di Avignone –, si usa mantenere le strutture ma sostituire i materiali, senza porsi alcun problema. In Italia, al contrario, siamo abituati a preservare l’originale, anche in condizioni estreme. Anche a Ninfa le strutture vengono restaurate: sono recenti i lavori di mantenimento, per quel che rimane, della chiesa di Santa Maria Maggiore, terminati nel 2015, del contrafforte e di alcuni edifici. Ma non per tutto è possibile, e così altre strutture continuano a sbrecciarsi. Fino agli anni Venti del Novecento qui non c’era nulla, le poche foto del periodo offrono una visione desertica, dove le uniche reali presenze sono le rovine delle abitazioni e delle chiese. C’è un piccolo pioppo che si inizia a distinguere, dall’alto; quella minuscola presenza è cresciuta ed oggi è l’albero monumentale per eccellenza di Ninfa, già ampiamente segnalato in tante pubblicazioni riguardanti i grandi alberi d’Italia e del Lazio. Vedremo poi quanto misurava a febbraio del 2016. Ninfa esisteva come villaggio agricolo dai tempi dei Romani, ma divenne importante dopo l’anno Mille, e dal Trecento rappresentò un grande affare per papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), che ne divenne proprietario dopo la scomunica della famiglia dei Colonna. Al centro delle paludi il villaggio era un passaggio obbligato, lungo la via pedemontana che univa Terracina e Velletri, per i commercianti del tempo. Ci si rifocillava, grazie all’acqua potabile. Si pagava dazio. La presenza delle paludi però favoriva anche la diffusione di malattie al tempo mortali, fra le quali ogni tanto spuntava pure la peste. Ed è proprio a seguito di una epidemia di peste che il villaggio viene abbandonato e poi ripetutamente saccheggiato. Da allora ci furono alcuni tentativi di ripopolamento, tutti falliti.
Sul finire del XIX secolo i Caetani, famiglia romana di origine campana (Gaeta), che dal ceppo natio si erano voluti separare, mutando la G in C, ricominciarono a venire in visita. Detenevano un piccolo feudo – di cui erano conti –, come ricorda Marella Caracciolo in un suo studio (edito nel volume Il giardino di Ninfa, Allemandi, 2004): «Le terre si estendevano fino a Foce Verde e Fogliano e lungo la costa fino al Circeo. Verso l’interno la proprietà andava a costeggiare le falde dei monti Lepini comprendendo la montagna su cui stanno il paese e il castello di Sermoneta». Figure fondamentali furono donna Ada, nata Wilbraham dei conti di Lathom, e il quartogenito Gelasio, ingegnere, fondatore di una impresa metallurgica di grande successo. Un primo restauro di Ninfa avviene negli anni Venti, con il recupero della torre e del vecchio municipio, che diventa l’abitazione della famiglia. Pochi anni dopo il Duce del fascismo sostiene il progetto, pensato proprio da Gelasio, di bonificare il Pontino, operazione che nel corso di un decennio impiegò drammaticamente migliaia e migliaia di lavoratori, mutando la storia di queste terre. Gelasio non si è mai sposato e non ha avuto figli, l’eredità volge dunque ai figli del fratello Roffredo, Camillo e Lelia Caetani, che assieme alla madre, Marguerite Chapin, inizieranno la realizzazione dei giardini veri e propri. Donna amante delle arti e delle lettere, Marguerite era cugina nientemeno che di Thomas Stearns Eliot, l’autore di La terra desolataAssassinio nella Cattedrale Quattro Quartetti, e futuro premio Nobel (1948); conosceva e intratteneva corrispondenze con molti autori, drammaturghi e poeti del tempo. Dapprima vive a Parigi, poi nel ’32 si sposta a Roma e spesso porta i figli a Ninfa. Piantano cipressi, ciliegi, pini, canneti, e tanti diversi tipi di fiori: gelsomini, mimose, camelie, magnolie, peonie, anche una «foresta di calle». Roffredo crea i canali dove far deviare le acque. La storia idilliaca di una famiglia che viveva, a quanto pare, nell’illusione di potersi disinteressare del tutto del fascismo fu interrotta con la morte misteriosa del figlio Camillo, nel 1940: una indagine privata sostiene che fu fatto assassinare da Mussolini. La guerra trasforma Ninfa in un luogo di ritrovo di partigiani e contadini, poi di Bassani e dei tanti collaboratori di «Botteghe Oscure», la rivista che viene fondata a Palazzo Caetani di Roma. Come scrive sempre la Caracciolo, «non vi era molto posto per la realtà nella meravigliosa Ninfa di Lelia e di Marguerite. Solo parole di poeti e romanzieri, musica e fiori».
Fra i tanti passati di qui, Dylan Thomas e Boris Pasternak. Gli ultimi Caetani che vi hanno vissuto sono stati Lelia e il marito inglese, Mr Hubert Howard. Nel ’77 il casato si estingue e viene istituita la Fondazione Caetani, attualmente gestita da un comitato direttivo e da un consiglio generale. Dal 1976 Ninfa è oasi WWF e nel 2000 è stata dichiarata monumento naturale dalla Regione Lazio. I suoi giardini sono aperti al pubblico per visite secondo un calendario deciso di anno in anno. Il lago che si vede intorno al castello è sorgivo, è acqua dolce di fonte; il sistema idraulico pensato dai Caetani ha portato ad un uso a cascata delle acque, alimentando il fiume che taglia in due i giardini e le diverse rogge presenti. Proprio sul fondo del lago è stata fatta una scoperta importante: sono stati ritrovati i resti di un tempio, che ora si trova sette metri sotto il livello delle acque. Era stato edificato dai Romani intorno al 200 a.C., assieme ad un ninfeo che ha dato origine al nome del luogo. La presenza della montagna a nord salvaguarda Ninfa, creando un ecosistema protetto, il mare dista soltanto quindici chilometri. Ecco perché ci sono molte piante che richiederebbero un clima ancora più mediterraneo. Qui il canto degli uccelli è diffuso, merli e passeri e gazze e tanti fringuelli. Non è come in non pochi nostri boschi, dove oramai la presenza di aviofauna è ristretta e ridotta. Il gorgoglio delle acque vi accompagna ovunque. È equidistribuito. Ora cadono, ora borbottano, ora scorrono. Fioriture rosa e rossastre dinnanzi al contrafforte. Ora non le vedo, ma mi hanno raccontato che le rose fuoriescono dalle campate delle bifore.
La natura che cammina e muta aspetto rende la pietra ancora viva, anch’essa respira, riluce. Punto al grande cedro che vedo sollevarsi nel cielo di Ninfa. Il primo giardino che visito, qui accanto alla villa-ex municipio, ospita roseti, magnolie e due alberi notevoli: un leccio dall’architettura straordinaria e il cedro. Mi impressiona di più il leccio, le sue lunghe branche sono robuste e scavano nervosamente nell’ombra creata dalla fitta chioma sospesa. Il ramo a sinistra risale ad arco, il centrale va su dritto e si tripartisce. Il ramo di destra si alza sopra la testa del visitatore. Noto i primi paracadutisti da parapendio che si sono asteriscati in cielo, lanciandosi, credo, dalla cima del monte. Chissà che vista di lassù. Misuro il leccio: 450 cm apd, proprio all’altezza della divaricazione. Il cedro potrebbe essere un atlantica, ma non ne sono convinto. Più facile che sia un ibrido. La sua misura è pari a cinque metri. Dal tronco centrale si staccano alcuni rami che risalgono a gomito. Dietro due pioppi neri capitozzati. A terra moltiSpatifilium. Una conifera sudamericana dalle foglie sottili, che avevo già visto in un paio di begli esemplari all’orto botanico di Roma, ad esempio. Non me ne ricordo mai il nome, vado a verificare l’elenco delle specie certificate, ma non lo scovo, fra i circa 1200 segnalati. Straordinario è il bambuseto (Bamboo Grove): entrarci è un privilegio; lentamente, il muro verticale si trasforma in una corrente elettrica che si slancia verso l’alto. Ne ho visti diversi ma è la prima volta che ci entro dentro e la prospettiva che si offre allo sguardo è prepotente. Spettacolare. Altri lecci e un ponticello di legno. A piccoli passi lo attraverso. La visione del fiume dall’alto è terribilmente romantica. Le acque scivolano come seta migrante. http://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1842:tiziano-fratus-l-italia-e-un-giardino&catid=40:primopiano&Itemid=101


Tiziano Fratus ha coniato i concetti di ‘Homo Radix’ e ‘alberografia’ che hanno rivoluzionato la sua prassi quotidiana, iniziandolo alla meditazione negli ambienti naturali, e hanno dato vita a una serie di libri, mostre fotografiche, itinerari disegnati in varie città e regioni. Per Laterza è autore di L’Italia è un bosco. Storie di grandi alberi con radici e qualche fronda e Il libro delle foreste scolpite. In viaggio tra gli alberi a duemila metri.

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