E' in arrivo la terza condanna della Ue. Perché migliaia di comuni non hanno ancora accesso alla depurazione. Tutto questo mentre gli investimenti dei gestori crollano. E le tariffe aumentano. Nonostante il referendum. La fotografia-scandalo di un rapporto elaborato dagli addetti ai lavori
L'acqua è ancora un buon affare. Nonostante 26 milioni di cittadini italiani abbiano chiesto – con un referendum – di usarla senza profitti, la gestione dei servizi idrici rimane un business profittevole, come dimostra un lunghissimo, accurato rapporto presentato pochi giorni fa alle imprese del settore: 311 aziende, 27.822 impiegati, un valore complessivo della produzione pari a 7,2 miliardi di euro, un risultato netto d’esercizio in positivo che ha un’incidenza dal 3,2 per cento al 6,5.
In mezzo a tabelle, tariffe, modelli e bollette, il dossier, elaborato dalla Fondazione Utilitatis con la collaborazione dei soggetti interessati (l'Associazione nazionale enti d'ambito -Anea – e la Federazione delle imprese energetiche -Federutility ), chiarisce gabelle ed affari ma mostra anche i ritardi e le carenze del sistema. La più grave riguarda la depurazione: l'Italia ha già subito due condanne dalla Ue. E un terzo procedimento d'infrazione è in corso, per cui sarà difficile far slittare le multe a più di un anno. Lo stesso ministero dell'Ambiente calcola che a mesi dovremo iniziare a pagare da un minimo di 11.904 euro al giorno a un massimo di 714 mila, e solo per una delle tre direttive a cui non abbiamo risposto, lasciando centinaia di comuni senza acqua pulita. Una lesione alle norme comunitarie, certo. Ma anche alla salute e ai diritti di quei cittadini.
Intanto i gestori continuano a ripetere: il nostro investimento dev'essere remunerato. Ovvero deve arrivare a garantire degli utili da spartire fra i soci. Con il nuovo modello tariffario è ancora possibile. Nonostante il referendum e quel voto di 26 milioni di cittadini.
ARRIVA IL COMMISSARIO
Già solo capire chi gestisce l'acqua e come, in Italia, è intricato. La causa sta in eterni ritardi nell'applicare le leggi. L'ultimo esempio riguarda la soppressione degli “Ato”, ovvero gli enti d'ambito, quelle istituzioni intermedie che avevano il compito di seguire l'operato delle aziende idriche per un insieme di comuni. Con i loro presidenti, i tecnici, le riunioni, le sedi e le consulenze, gli Ato sono stati considerati strumenti inutili e costosi in clima di spending review: così il decreto Salva Italia del 2011 ne ha decretato la fine. Fra proroghe e concessioni il limite ultimo per smantellare i concili era dato al 31 dicembre 2012. È stato fatto? Dipende.
L'Emilia Romagna, ad esempio, guida il fronte dei secchioni: con una legge del dicembre 2011 ha ridotto le 9 agenzie territoriali ad unico istituto, regionale, che ha pure più poteri nel controllare l'operato dei gestori. In Abruzzo la riduzione degli enti da sei a uno è dell'aprile 2011, quando iniziò un'operazione di pulizia su larga scala, tanto che l'allora neo-nominato responsabile unico si accorse che i sei istituti periferici erano riusciti a far accumulare alle imprese idriche (che avrebbero dovuto tenere sotto controllo) 300 milioni di euro di debiti.
In Veneto si è scelto invece di mantenere l'ultra-federalismo acquatico, sostituendo gli otto enti precedenti con otto nuovi organismi, chiamati “Consigli di bacino”. Lo stesso progetto è stato approvato nel resto della Padania: Lombardia,Piemonte e Friuli Venezia Giulia hanno mantenuto i salotti locali.
A Sud invece va ancora in voga il modello – tanto amato quanto criticato durante il ventennio berlusconiano – del commissariamento. In Campania la fine degli sprechi nei cinque istituti locali è coordinata da altrettanti commissari. Che resteranno in ruolo “fino all'arrivo dei nuovi organi”. Ad oggi sono ancora lì.
Per il territorio vesuviano lo sceriffo in pectore è l'avvocato Carlo Sarro, vicinissimo in passato a Nicola Cosentino, pasionario difensore della causa degli abusivi ed ex-presidente dello stesso ente, ruolo dal quale scriveva nel 2010 alla Gori spa (azienda privata che si occupa dei servizi idrici per quella zona) per informarla che l'aumento tariffario ottenuto da Sarro teneva conto dei ricavi già messi a bilancio dal gestore. In modo che corrispondessero, insomma.
E anche in Sicilia, dove l'affidamento ai privati va per la maggiore, per risolvere il problema degli organismi intermedi sono scesi in campo i commissari.
PROFITTI ASSICURATI
Non c'è stato verso, nel frattempo, di far diventare realtà il voto di 26 milioni di cittadini. Ovvero di far rispettare la volontà del referendum con cui nel giugno del 2011 avevano chiesto di eliminare i profitti dalla gestione dell'acqua, considerata una risorsa comune da usare con riguardo e sotto il controllo diretto degli organi istituzionali. In una sequela di nuovi decreti, cavilli, sentenze e ricorsi , si è arrivati ora al modello transitorio imposto dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas , anche questo sotto il tiro dei referendari.
I problemi sarebbero due. Uno riguarda il finanziamento, attraverso la bolletta, del capitale investito. Ovvero quegli interessi e quegli oneri finanziari che secondo i gestori non possono non essere considerati spese , e quindi inseriti nel prezzo che ogni cittadino paga quando apre il rubinetto. Per l'Autorità è il minimo che si possa fare. Per i comitati una beffa.
Ma c'è anche un altro problema, più complicato da individuare. Nel nuovo modello, approvato dall'agenzia guidata da Guido Bortoni, si è inserita nella tariffa una voce chiamata “Fondo nuovi investimenti”. Si tratta di una «anticipazione finanziaria finalizzata al finanziamento di interventi infrastrutturali. Dal punto di vista regolatorio, viene trattato alla stregua di un contributo a fondo perduto». Insomma: i gestori potranno d'ora in poi farsi pagare in anticipo gli interventi che (forse) arriveranno effettivamente a compiere sulla rete idrica. Il «dichiarato scopo di questa componente», infatti, si legge nel rapporto: «È quello di evitare scompensi di cassa nel passaggio fra i due metodi tariffari». Ovvero di non far traballare i bilanci dei gestori.
Il fondo, per ora, pesa poco. L'un per cento di quello che paghiamo. Ma nelle previsioni degli esperti potrebbe arrivare a contare sempre di più, arrivando almeno al tre per cento del totale. Questo mentre gli investimenti effettivi sulla rete continuano a diminuire: dal 2008 al 2011 sono passati da 1,6 a 1,4 miliardi di euro l'anno, poco più di un miliardo se si tolgono i contributi pubblici.
ACQUA SPORCA
Gli investimenti in realtà sono più che urgenti. Soprattutto per quanto riguarda la depurazione. Sull'Italia pesano infatti due condanne e una nuova procedura d'infrazionecomunitaria per via delle carenze e dei ritardi che abbiamo accumulato nel garantire un adeguato trattamento delle acque di scarico, che in molto luoghi vengono rilasciate, ancora inquinate, nell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute e il territorio.
L'ultima reprimenda è arrivata all'inizio del 2014, sulla base dei dati raccolti da un confronto sugli impianti che hanno un carico maggiore a duemila abitanti. Secondo queste informazioni ben 883 comuni non avrebbero accesso al trattamento degli scarti come prevedono le direttive Ue. Nel frattempo, altre due multe, dovute alla mancata applicazione degli standard minimi nel 30 per cento del territorio, sono diventate realtà. E nei prossimi 12-18 mesi la Corte di Giustizia europea dovrà decidere quanto saremo costretti a pagare.
Solo per una delle due sanzioni il ministero dell'Ambiente potrebbe trovarsi a sborsare da 11.904 a 714.240 euro per ogni giorni di ritardo nell'adeguamento. «Una somma forfetaria calcolata sulla base del Pil pari a un minimo di 9 milioni e 920 mila euro», scrivono gli autori del dossier: «Guardando alle recenti decisioni della Corte in un caso analogo relativo al Lussemburgo si può ritenere che la penalità potrebbe raggiungere i 660 mila euro al giorno». E non basta: gli errori commessi, e la lentezza nel riparare al danno, potrebbero costarci anche i nuovi finanziamenti europei. Sospesi fino all'attuazione del dovuto. http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/05/14/news/quanto-e-anomala-l-acqua-italiana-1.165347DI FRANCESCA SIRONI
In mezzo a tabelle, tariffe, modelli e bollette, il dossier, elaborato dalla Fondazione Utilitatis con la collaborazione dei soggetti interessati (l'Associazione nazionale enti d'ambito -Anea – e la Federazione delle imprese energetiche -Federutility ), chiarisce gabelle ed affari ma mostra anche i ritardi e le carenze del sistema. La più grave riguarda la depurazione: l'Italia ha già subito due condanne dalla Ue. E un terzo procedimento d'infrazione è in corso, per cui sarà difficile far slittare le multe a più di un anno. Lo stesso ministero dell'Ambiente calcola che a mesi dovremo iniziare a pagare da un minimo di 11.904 euro al giorno a un massimo di 714 mila, e solo per una delle tre direttive a cui non abbiamo risposto, lasciando centinaia di comuni senza acqua pulita. Una lesione alle norme comunitarie, certo. Ma anche alla salute e ai diritti di quei cittadini.
Intanto i gestori continuano a ripetere: il nostro investimento dev'essere remunerato. Ovvero deve arrivare a garantire degli utili da spartire fra i soci. Con il nuovo modello tariffario è ancora possibile. Nonostante il referendum e quel voto di 26 milioni di cittadini.
ARRIVA IL COMMISSARIO
Già solo capire chi gestisce l'acqua e come, in Italia, è intricato. La causa sta in eterni ritardi nell'applicare le leggi. L'ultimo esempio riguarda la soppressione degli “Ato”, ovvero gli enti d'ambito, quelle istituzioni intermedie che avevano il compito di seguire l'operato delle aziende idriche per un insieme di comuni. Con i loro presidenti, i tecnici, le riunioni, le sedi e le consulenze, gli Ato sono stati considerati strumenti inutili e costosi in clima di spending review: così il decreto Salva Italia del 2011 ne ha decretato la fine. Fra proroghe e concessioni il limite ultimo per smantellare i concili era dato al 31 dicembre 2012. È stato fatto? Dipende.
L'Emilia Romagna, ad esempio, guida il fronte dei secchioni: con una legge del dicembre 2011 ha ridotto le 9 agenzie territoriali ad unico istituto, regionale, che ha pure più poteri nel controllare l'operato dei gestori. In Abruzzo la riduzione degli enti da sei a uno è dell'aprile 2011, quando iniziò un'operazione di pulizia su larga scala, tanto che l'allora neo-nominato responsabile unico si accorse che i sei istituti periferici erano riusciti a far accumulare alle imprese idriche (che avrebbero dovuto tenere sotto controllo) 300 milioni di euro di debiti.
In Veneto si è scelto invece di mantenere l'ultra-federalismo acquatico, sostituendo gli otto enti precedenti con otto nuovi organismi, chiamati “Consigli di bacino”. Lo stesso progetto è stato approvato nel resto della Padania: Lombardia,Piemonte e Friuli Venezia Giulia hanno mantenuto i salotti locali.
A Sud invece va ancora in voga il modello – tanto amato quanto criticato durante il ventennio berlusconiano – del commissariamento. In Campania la fine degli sprechi nei cinque istituti locali è coordinata da altrettanti commissari. Che resteranno in ruolo “fino all'arrivo dei nuovi organi”. Ad oggi sono ancora lì.
Per il territorio vesuviano lo sceriffo in pectore è l'avvocato Carlo Sarro, vicinissimo in passato a Nicola Cosentino, pasionario difensore della causa degli abusivi ed ex-presidente dello stesso ente, ruolo dal quale scriveva nel 2010 alla Gori spa (azienda privata che si occupa dei servizi idrici per quella zona) per informarla che l'aumento tariffario ottenuto da Sarro teneva conto dei ricavi già messi a bilancio dal gestore. In modo che corrispondessero, insomma.
E anche in Sicilia, dove l'affidamento ai privati va per la maggiore, per risolvere il problema degli organismi intermedi sono scesi in campo i commissari.
PROFITTI ASSICURATI
Non c'è stato verso, nel frattempo, di far diventare realtà il voto di 26 milioni di cittadini. Ovvero di far rispettare la volontà del referendum con cui nel giugno del 2011 avevano chiesto di eliminare i profitti dalla gestione dell'acqua, considerata una risorsa comune da usare con riguardo e sotto il controllo diretto degli organi istituzionali. In una sequela di nuovi decreti, cavilli, sentenze e ricorsi , si è arrivati ora al modello transitorio imposto dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas , anche questo sotto il tiro dei referendari.
I problemi sarebbero due. Uno riguarda il finanziamento, attraverso la bolletta, del capitale investito. Ovvero quegli interessi e quegli oneri finanziari che secondo i gestori non possono non essere considerati spese , e quindi inseriti nel prezzo che ogni cittadino paga quando apre il rubinetto. Per l'Autorità è il minimo che si possa fare. Per i comitati una beffa.
Ma c'è anche un altro problema, più complicato da individuare. Nel nuovo modello, approvato dall'agenzia guidata da Guido Bortoni, si è inserita nella tariffa una voce chiamata “Fondo nuovi investimenti”. Si tratta di una «anticipazione finanziaria finalizzata al finanziamento di interventi infrastrutturali. Dal punto di vista regolatorio, viene trattato alla stregua di un contributo a fondo perduto». Insomma: i gestori potranno d'ora in poi farsi pagare in anticipo gli interventi che (forse) arriveranno effettivamente a compiere sulla rete idrica. Il «dichiarato scopo di questa componente», infatti, si legge nel rapporto: «È quello di evitare scompensi di cassa nel passaggio fra i due metodi tariffari». Ovvero di non far traballare i bilanci dei gestori.
Il fondo, per ora, pesa poco. L'un per cento di quello che paghiamo. Ma nelle previsioni degli esperti potrebbe arrivare a contare sempre di più, arrivando almeno al tre per cento del totale. Questo mentre gli investimenti effettivi sulla rete continuano a diminuire: dal 2008 al 2011 sono passati da 1,6 a 1,4 miliardi di euro l'anno, poco più di un miliardo se si tolgono i contributi pubblici.
ACQUA SPORCA
Gli investimenti in realtà sono più che urgenti. Soprattutto per quanto riguarda la depurazione. Sull'Italia pesano infatti due condanne e una nuova procedura d'infrazionecomunitaria per via delle carenze e dei ritardi che abbiamo accumulato nel garantire un adeguato trattamento delle acque di scarico, che in molto luoghi vengono rilasciate, ancora inquinate, nell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute e il territorio.
L'ultima reprimenda è arrivata all'inizio del 2014, sulla base dei dati raccolti da un confronto sugli impianti che hanno un carico maggiore a duemila abitanti. Secondo queste informazioni ben 883 comuni non avrebbero accesso al trattamento degli scarti come prevedono le direttive Ue. Nel frattempo, altre due multe, dovute alla mancata applicazione degli standard minimi nel 30 per cento del territorio, sono diventate realtà. E nei prossimi 12-18 mesi la Corte di Giustizia europea dovrà decidere quanto saremo costretti a pagare.
Solo per una delle due sanzioni il ministero dell'Ambiente potrebbe trovarsi a sborsare da 11.904 a 714.240 euro per ogni giorni di ritardo nell'adeguamento. «Una somma forfetaria calcolata sulla base del Pil pari a un minimo di 9 milioni e 920 mila euro», scrivono gli autori del dossier: «Guardando alle recenti decisioni della Corte in un caso analogo relativo al Lussemburgo si può ritenere che la penalità potrebbe raggiungere i 660 mila euro al giorno». E non basta: gli errori commessi, e la lentezza nel riparare al danno, potrebbero costarci anche i nuovi finanziamenti europei. Sospesi fino all'attuazione del dovuto. http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/05/14/news/quanto-e-anomala-l-acqua-italiana-1.165347DI FRANCESCA SIRONI
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