mercoledì 29 maggio 2013

Ilva i padroni delle ferriera verso il commissariamento governo contro i Riva

ILVA, I PADRONI DELLA FERRIERA VERSO IL COMMISSARIAMENTO IL GOVERNO VUOLE ESTROMETTERE I RIVA DALLA GESTIONE, AFFIDANDOLA A BONDI. MA NON HA RISOLTO I PROBLEMI GIURIDICIACCESA DISCUSSIONE Il ministro Orlando vuole togliere alla famiglia i poteri esecutivi, Zanonato e la Cisl spingono per dare più poteri al garante che vigila sulle migliorie ambientalidi Marco Palombi Una soluzione tecnica ancora non c’è, ma il governo pare aver scelto la via da seguire: separare la proprietà dalla gestione dell’Ilva per evitare la chiusura dell’azienda. Tradotto: esautorare - almeno finché non si sarà ottemperato a tutte le prescrizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale - la famiglia Riva dai poteri esecutivi. Questa soluzione è stata fortemente caldeggiata fin dall’inizio del lunghissimo vertice governo-azienda di ieri (aggiornato a oggi) dal ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, che alla fine è riuscito a convincere Enrico Letta e Angelino Alfano. La proprietà, ovviamente, e pezzi di sindacato (la Cisl) chiedono invece una soluzione meno “traumatica” per gli attuali equilibri di potere, soluzione che ha anche l’appoggio del ministro per lo Sviluppo economico Flavio Zanonato: magari, è la proposta, si potrebbero concedere poteri più diretti al Garante che già oggi dovrebbe vigilare sulle migliorie ambientali (Aia) in fabbrica (finora, però, s’è limitato solo a constatare le inadempienze). La soluzione allo studio di palazzo Chigi, secondo quanto sostengono fonti ministeriali, è però la nomina di un commissario governativo – probabilmente lo stesso amministratore delegato dimissionario Enrico Bondi – che gestisca l’azienda garantendo contemporaneamente la continuità della produzione, il risanamento ecologico e la “pace” con la magistratura. E qui cominciano i problemi: quale sia lo strumento giuridico a cui appigliarsi per questa prova di forza è una domanda a cui non è affatto facile rispondere. LE IPOTESI sul tavolo sono diverse, ma tutte di difficile applicazione. Per ricorrere, ad esempio, alla legge Marzano o alla Prodi bis - come fu, per capirci, nel caso di Parmalat – bisognerebbe che Ilva fosse un’azienda insolvente, cosa che al momento non è nonostante le alte grida lanciate dalla proprietà dopo i due sequestri ordinati dai tribunali di Taranto e Milano nei giorni scorsi (8,1 miliardi di beni della holding Riva Fire il primo; 1,2 miliardi di beni diretti della famiglia, accusata di frode fiscale, truffa allo Stato e riciclaggio, il secondo). Resta la legge 231 del dicembre 2012, nota alle cronache come “Salva-Il - va”, che qualche appiglio per la detronizzazione della proprietà pure lo offre, ma non così solido come si vorrebbe: l’articolo 1 infatti prevede, in caso di inadempienza dell’azienda nell’applicazione dell’Aia, sanzioni pecuniarie fino al 10% del fatturato che andrebbero irrogate dal prefetto (con tempi di decisione però troppo lenti); l’ar - ticolo 3, invece, prevede che il Garante per l’attuazione dell’Aia possa chiedere anche “provvedimenti di amministrazione straordinaria” fino all’esproprio (articolo 43 della Costituzione), anche se non si capisce bene a chi. Curiosamente, proprio ieri, il Garante in carne e ossa – che risponde al nome di Vitaliano Esposito e guadagna i suoi bei 200 mila euro l’anno – durante una visita all’Ilva ha messo a verbale che “sarebbe meglio non si intervenisse col commissariamento dell’azienda”, attirandosi le ire della cellula di fabbrica di Rifondazione comunista. Purtroppo per lui, comunque, quella è proprio la via stretta su cui lavora, pur tra mille resistenze, il governo: dimostrare le inadempienze dei Riva nell’applicazione dell’Aia ed estrometterli dalla gestione della fabbrica. Qualche dato già c’è. Nella prima ispezione (5-7 marzo) Ispra ha accertato 11 violazioni alle prescrizioni dell’Au - torizzazione ambientale: riguardano, tra l’altro, chiusura dei nastri trasportatori, nebulizzazione di acqua con apposite macchine per la riduzione delle particelle di polveri sospese, superamenti della durata delle emissioni inquinanti e omesse comunicazioni all’autorità competente. L’ISTITUTO ha inviato la relazione al ministero dell’Ambiente e al prefetto la settimana scorsa, chiedendo a quest’ultimo la massima sanzione pecuniaria (il 10% del fatturato). Ora, però, dovrebbero arrivare i dati della terza ispezione: la loro formalizzazione era attesa per il 7 giugno, ma ieri il ministro Orlando ha chiesto ad Ispra di accelerare e consegnare il tutto entro questa settimana. Il governo potrebbe infatti servirsene proprio per giustificare la scelta del com-missariamento. I dubbi legali, però, rimangono nonostante le inadempienze di Ilva: “Stiamo parlando di mettere le mani in un’azienda privata, non è che si può fare così, senza aver chiare le implicazioni giuridiche”, spiega una fonte governativa. E, infatti, sul tavolo resta ancora l’ipotesi di un decreto ad hoc – una sorta di “dl caccia-Riva” – che renda meno franoso il terreno sotto la decisione di Enrico Letta e dei suoi ministri: si potrebbe, per dire, intervenire sull’articolo 3 della legge di Monti scrivendo in maniera chiara che il governo può nominare un commissario se l’azienda non rispetta gli impegni in materia di bonifica ambientale. Il fatto quotidiano 29 maggio 2013 

Ilva mentre a Roma il governo tratta a Taranto si alzano nubi tossiche

ILVA, A ROMA IL GOVERNO TRATTA A TARANTO SI ALZANO NUBI TOSSICHE IERI L’INCONTRO CON ZANONATO, OGGI VERTICE A PALAZZO CHIGI TUTTO COME PRIMA Il garante: l’azienda viola gli impegni. E dalla fabbrica raccontano di dimissioni in massa dei capi reparto dell’a re a a caldo sequestrata di Francesco Casula Il fatto quotidiano Taranto Tavoli, nuvole e anarchia. Da Roma a Taranto il futuro della fabbrica dei Riva è in tre immagini. Mentre a Roma il governo, con il ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato, i sindacati e le istituzioni si incontravano per cercare senza riuscirci una soluzione al nuovo terremoto Ilva, in fabbrica i dirigenti dell’area a caldo si dimettevano in massa e i cittadini di Taranto si risvegliavano all’ombra di una cancerogena nuvola rossa. L’ennesima emissione nociva che dallo stabilimento siderurgico, alle prime luci del mattino, si è sollevata verso la città. Un fenomeno, che i carabinieri del Noe di Lecce nel dossier consegnato un anno fa alla procura chiamano “slopping”, causato dal malfunzionamento degli impianti e che sprigiona nell’aria respirata da operai e cittadini ossido di ferro. UN PROBLEMA che potrebbe essere ridotto se l’azienda avesse un adeguato sistema di captazione delle polveri, ma come i pubblici ministeri scrivono nella richiesta di sequestro di oltre 8 miliardi di euro, in fabbrica “allo stato non si ha evidenza di alcuna iniziativa intrapresa dalla società al fine di ottemperare alle disposizioni prima impartite dai custodi e poi, in parte, confermate” nell’Aia. Nella fabbrica regna il caos. Fonti sindacali rivelano dimissioni in massa dei capi reparto e dirigenti dell’area a caldo, sequestrata a luglio perché ritenuta causa di “malattia e morte”. Dopo l’iscrizione di due nuovi capi re- parto nell’elenco degli indagati, infatti, i quadri aziendali sono terrorizzati dal possibile coinvolgimento nell’inchiesta. Secondo fonti interne alla fabbrica, gli stessi uomini che la scorsa estate avrebbero spinto gli operai a manifestare contro la magistratura, oggi non intendono assumersi alcuna responsabilità. A spaventarli è anche il nuovo sopralluogo, in programma per oggi, degli ispettori del ministero che dovranno valutare lo stato di avanzamento degli adeguamenti. DAL GIORNO del sequestro di 8 miliardi, su cui sta lavorando la Guardia di finanza, l’ufficio centrale delle vendite di Milano è paralizzato, pregiudicando la sopravvivenza di tutti stabilimenti del Gruppo Riva. Eppure tra gli operai serpeggia la speranza che anche stavolta qualcuno possa intervenire per salvare l’azienda. Anche cda di Riva Fire attende un intervento amichevole. In una nota il Gruppo ha espresso forte preoccupazione perché il sequestro “rischia di compromettere l’iter per l’approvazione del piano industriale 2013-2018 avviato da mesi” che “avrebbe consentito sia il rispetto di tutti gli obblighi Aia sotto il profilo industriale e finanziario, sia l’approvazione del bilancio nei termini di legge in situazione di continuità aziendale”. Peccato che proprio ieri il garante dell’Autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva, Vitaliano Esposito, abbia ufficializzato ai vertici dei sindacati ionici “l’accertamento oggettivo di dieci violazioni” agli obblighi imposti proprio dall’Aia all’azienda e che l’Asl di Taranto abbia disposto la distruzione di un’enorme quantità di cozze alla diossina. Solo dettagli per l’azienda che minaccia “ripercus - sioni occupazionali”. Segnali di fumo al governo. Rossi e dannosi come l’ossido di ferro. 

Prodi Riva mente sull'Ilva di Taranto ferro vecchio

Prodi: “Riva mente, comprò un gioiello” L’EX ITALSIDER LA PRIVATIZZAZIONE NEL 1994 “Era un gran bello stabilimento, lontano dalla città cresciuta vicino alla fabbrica grazie a una legislazione provvidenziale di Antonio Massari Il fatto quotidiano 28 maggio 2013 L’Ilva era un ferro vecchio? Assolutamente no! Quello di Taranto era un grande stabilimento”. Romano Prodi è a pranzo quando lo raggiungiamo al telefono. In sottofondo c'è un tintinnare di piatti e forchette. Le dichiarazioni di Emilio Riva, patron dell'Ilva cui la Cassazione ieri ha confermato i domiciliari, gli risultano però indigeste. Della situazione attuale, Prodi non parla. Ma a noi interessa tornare ai primi anni Novanta, quando il professore era presidente dell'Iri e, sotto la sua gestione, l'Italsider fu trasformata in Ilva e avviata verso la privatizzazione. “Quando sono arrivato io, l'Ilva, era un ferro vecchio", ha dichiarato Emilio Riva a Giusi Fasano del Corriere della Sera. Chiediamo a Prodi: è la verità? L'ex premier sospira: “No di certo! Taranto era un grande stabilimento, era questo e basta”. Insistiamo: Riva sostiene che “me la sono presa che era un disastro, l'ho rinnovata e oggi è un arnese perfettamente funzionante, nonostante tutto”. Replica Prodi: “Assolutamente no, era uno dei più bei stabilimenti integrati d'Europa. Senza alcun dubbio”. LO CONFERMANO le cifre. L'Italsider nel 1993 può vantare una produzione ai massimi livelli mondiali: una media di 12 milioni di tonnellate di acciaio all'anno. Anche se indebitata per 7 mila miliardi di lire. “Lei creò la Ilva laminati impianti e lasciò i debiti nella vecchia Italsider”, ricostruiamo con Prodi, “che di fatto divenne la prima bad company italiana”. Risposta: “Questo può ricostruirlo lei... Io posso dirle che era un gran bello stabilimento...”. Ancora più bello perché quei debiti per 7 mila miliardi di lire restarono nella vecchia Italsider, destinata alla liquidazione. A Riva andò la parte industriale "ripulita" dalla grossa massa passiva, gli rimasero circa 1.500 miliardi di lire per debiti finanziari. Ben poca cosa, poiché la neonata Ilva era un gioiello con un fatturato mensile di 100 miliardi di lire. Ai Riva, che oggi la ricordano come un "disastro" e un "ferro vecchio", costa 1.649 miliardi. E - come ricostruito dal Fatto nei giorni scorsi - la società Riva Fire, che controlla l'Ilva, in pochi mesi passa da un utile (consolidato) di 157 miliardi di lire (anno 1994) ai 2.240 miliardi del 1995. Balzo verticale anche per l'utile netto, da 112 a 1.842 miliardi, niente male per un "disastroso ferro vecchio". Di certo, invece, c'è che l'Ilva inquinava parecchio già allora, tanto che gli stessi Riva chiesero, senza ottenerlo, uno sconto di 800 miliardi di lire. Che fosse così inquinante, Prodi, lo ricorda bene: “Parliamo di un secolo fa”, spiega il professore, “molto prima della legislazione provvidenzialmente intervenuta dopo... Ma le ripeto: era un bello stabilimento, tra l'altro isolato dalla città. È stata la città ad andare addosso all'Ilva, non l'Ilva addosso alla città. Quando andavamo allo stabilimento, si percorrevano chilometri e non c'era una casa. Se la gente non fosse stata messa ad abitare lì, così addosso all'acciaieria, forse non sarebbe stata così aggredita dall'inquinamento”. Il ricordo di Prodi è corretto solo in parte: il rione Tamburi già esisteva, ma effettivamente negli anni si è sviluppato sempre più a ridosso delle ciminiere. IL PUNTO È CHE I RIVA, secondo l'accusa, non hanno rispettato quella che, per dirla con le parole dell'ex premier, fu una “le - gislazione provvidenziale” de - stinata a salvare gli abitanti dall'inquinamento. Ed è proprio per questo che la procura di Taranto ha deciso di sequestrare al gruppo Riva ben 8,1 miliardi di euro. “Mi aggrediscono ingiustamente da ogni parte. È inaccettabile”, lamenta Riva al Corriere della Sera. “Non sarà il caso di tornare alla nazionalizzazione dell'Ilva?”, chiediamo a Prodi. “Sul presente, come le ho già detto, io non mi pronuncio. La saluto”. Clic. 

Ilva di Taranto il governo sempre in soccorso dei padroni

IL MINISTRO dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, ha un pensiero coerente: l’impresa è libera. E così nella sua “con - versazione piacevole” con Sergio Marchionne, persona “di estrema dinamicità”, gliele ha cantate chiare: “Bisogna fare in modo di incrociare di più gli interessi della Fiat con quelli del nostro Paese”. Il governo propone, Marchionne dispone. Zanonato è invece letteralmente terrorizzato dalla chiusura dell'Ilva, eventualmente provocata dalle intemperanze della magistratura: le nostre industrie dovrebbero far venire l'acciaio dall'estero, a tutto vantaggio dei nostri concorrenti francesi e tedeschi. Strano che comprare le auto giapponesi sia considerato il tripudio del libero mercato. L'86enne Emilio Riva dagli arresti domiciliari ci fa sapere di essere “vecchio, solo, malato”, alle prese con cardiologo e oncologo. Lo sfogo rattrista ma contrasta con l'energica minaccia: se i magistrati non la smettono di rompere le scatole salta tutto, e addio 40 mila posti di lavoro. “A me la parola padrone non piace ”, avverte, e l'avvocato Marco De Luca ricorda che “è un uomo che ha dato da mangiare a 40 mila persone per decenni”, con un linguaggio che non è da padrone ma da allevatore di bovini. Siamo messi così. Riva è già stato condannato due volte per l'inquinamento della sua azienda a Taranto, la prima volta il 15 luglio 2002, la seconda il 12 febbraio 2007. Prende in giro il prossimo, con balle spaziali come “l’I l va quando sono arrivato io era un ferro ve cc h i o”. Però siccome dà da mangiare bisogna chinare il capo e ringraziare. E i liberisti col turbo, che non vogliono cittadini “sudditi” dello Stato, si girano dall’altra parte quando li vedono sudditi del padrone che “dà da mangiare”. L'estate scorsa il dilemma tra salute e lavoro fu risolto con la nuova Aia (autorizzazione integrata ambientale), una novantina di prescrizioni all'Ilva per eliminare l'inquinamento dell'area circostante. Si vorrebbe sapere a che punto siamo, se i manager di Riva stanno facendo seriamente il loro dovere o stanno facendo di nuovo i furbi. Insomma, il governo della Repubblica italiana dovrebbe fare qualcosa di più utile che correre a chiedere scusa alla famiglia Riva ogni volta che la magistratura (a torto o a ragione, perché non è questo il punto) interviene. L’al - ternativa tra lasciar inquinare e la chiusura della fabbrica non è da Paese civile. E non è dignitosa per lo Stato, se c’è ancora. Twitter@giorgiomeletti Il fatto quotidiano 28 maggio 2013

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