La
Cassazione ha deciso
che
il reato sia cessato
con
la chiusura
delle
fabbriche nel 1986.
Scelta
spiazzante.
Vedremo
le motivazioni
di
Gian
Carlo Caselli
Igiudici
della Cassazione
sono
maestri di diritto.
Sapranno
quindi
spiegare
con maestria il
percorso
tecnico–giuridico
che
nel caso Eternit li ha portati
ad
azionare la mannaia
della
prescrizione. Cancellando
con
un sol colpo due sentenze
di
condanna, una del
Tribunale
e l’altra della Corte
d’Appello
di Torino (come si
dice
in gergo, una “doppia
conforme”),
condanne pronunciate
sempre
escludendo,
esplicitamente,
qualunque
ipotesi
di prescrizione.
In
estrema (grossolana) sintesi,
l’alternativa
era fra due opzioni.
Configurare
il delitto di
disastro
ambientale come reato
di
pericolo cessato con la
chiusura
delle fabbriche
(1986),
ancorando a questo
fatto
la prescrizione. Oppure
definire
la fattispecie come
reato
a consumazione prolungata
o
permanente, considerato
che
anche dopo la chiusura
delle
fabbriche permangono
gli
effetti mortali dell’amianto
in
esse prodotto, tant’è vero
che
tali effetti si registrano ancora
oggi
e continueranno a
prodursi
in futuro.
I
giudici della suprema Corte
hanno
scelto la prima via e sapranno
motivare
distillando
elaborazioni
dottrinali e ragionamenti
tecnico–giuridici
sofisticati,
sostenuti da sapienti
sillogismi.
Roba da manuale.
Ma
sarà sempre un prodotto
“in
vitro”. E rimarrà difficile,
forse
impossibile, liberarsi
dalla
sensazione che i supremi
giudici
abbiano deciso
rimanendo
esclusivamente
nel
perimetro delle “carte”,
considerate
asetticamente e
soppesate
con criteri burocratico–
formalistici.
Senza poter
percepire
e tenere in conto anche
la
realtà concreta di vite
spezzate
o rovinate, di sofferenza
e
dolore che segna e caratterizza
il
caso Eternit.
Ricordo
bene la lettura del dispositivo
di
condanna in tribunale.
Una
lettura che di solito
si
esaurisce in un paio di
minuti,
mentre in quel caso ci
vollero
circa tre ore, a causa
dell’infinito
elenco di persone
offese.
TRE
ORE in piedi
per ascoltare
una
sequenza interminabile di
nomi
che da sola testimoniava
le
eccezionali dimensioni del
dramma
che si stava giudicando.
Forse
è proprio la mancanza
di
questo contatto, anche fisico,
con
la realtà che ha indirizzato
la
Cassazione verso
una
decisione per la quale è legittimo
chiedersi
se non valga
il
brocardo “summum jus,
summa
iniuria”. Vale a dire
che
anche l’interpretazione
formalmente
più corretta può
essere
sbagliata sul piano sostanziale
della
giustizia.
Come
già Marco Travaglio,
voglio
anch’io citare Vladimiro
Zagrebelsky,
secondo cui
alla
nostra Cassazione è “man -
cata
la capacità di affermare un
diritto
che non oltraggia la
giustizia…
e ne soffrirà la fiducia
dei
cittadini nella legge”.
Perché,
quale che sia la motivazione
della
Cassazione, è
comunque
difficile accettare
(capire!)
come – per effetto di
un’interpretazione
in punto
prescrizione
già respinta due
volte
dai giudici di merito – si
sia,
di fatto, potuta operare la
cancellazione
di migliaia di
morti
di cancro e delle relative
responsabilità.
Come se il calcolo
del
tempo trascorso fosse
una
specie di “magia” capace
di
far sparire le peggiori tragedie.
Ma
il processo non è
“magia”,
anche se è vero che la
parola
della Cassazione, l’ulti -
ma,
per convenzione è quella
“giusta”
in quanto non appellabile.
Ma
si tratta appunto di
convenzione.
Si dice che la
sentenza
ultima “facit de albo
nigrum”,
ma proprio per questo
il
diritto, il buon senso e la
giustizia
debbono essere quanto
più
possibile intrecciati e
non
separati.
Infine,
di colpo è tornato di attualità
il
tema della prescrizione.
Siamo
un paese che ama la
legislazione
del giorno dopo,
che
interviene solo se qualcosa
di
brutto lo sveglia o lo costringe,
senza
sapere elaborare progetti
organici.
DELLA
NECESSITÀ di
cambiare
le
norme sulla prescrizione
(che
solo in Italia non si interrompe
mai)
si discute da
molto
tempo. Senza però fare
nulla,
anche per effetto – sem -
bra
–di veti partitici incrociati.
Finirla
una buona volta con
vuote
promesse e passare ai
fatti,
sarebbe una degna maniera
di
onorare le vittime
dell’Eternit.
Attenzione nello
stesso
tempo a non confondere
le
acque parlando di prescrizione
fuori
luogo. Per
esempio
dimenticando che le
due
sentenze di condanna della
magistratura
torinese sono
state
pronunciate nell’arco di
soli
quattro anni: un tempo record
per
l’interminabile durata
dei
processi nel nostro Paese.
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18 Il fatto quotidiano 22 novembre 2014
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