Negli
Stati Uniti ha fatto rinascere l’industr ia
e
rilanciato l’economia. Ma i giacimenti sono meno generosi
del
previsto e le stime sul loro sviluppo si rivelano sbagliate
di
Alexis
Crow
e
Fabio Scacciavillani Il
successo dell’estrazione di
petrolio
e gas da giacimenti
non
convenzionali, in particolare
le
formazioni di
scisti
(in inglese shale),
è
uno
dei rari raggi di luce negli
anni
bui di Grande Recessione.
L’impatto
è stato impressionante. Da
quattro
anni gli Usa sono il maggior
produttore
di gas al mondo e da inizio
2014,
con l’equivalente di 11 milioni di
barili
di petrolio al giorno, sono in testa
alla
produzione globale di idrocarburi.
Il
prezzo del gas naturale negli Usa, che
a
giugno del 2008 aveva superato i 12
dollari
per milione di Btu (British thermal
units,
l’unità di misura più diffusa
per
il prezzo del gas), piombò a meno di
3
dollari a settembre 2009 e poi fino a
un
minimo di 2 dollari nell’aprile del
2012.
Oggi il prezzo si aggira intorno ai
4
dollari per mBtu. Gli Usa un tempo
rassegnati
a massicce importazioni di
gas
liquefatto dal Qatar ora pianificano
di
esportare verso l’Europa (dove il gas
vale
10 dollari per mBtu) e il ricco mercato
asiatico
(in Giappone il prezzo è
circa
15 dollari) e addirittura verso il
Medio
Oriente.
IN
TALUNI SETTORI manifatturieri,
inclusi
quelli che avevano trasferito le
fabbriche
in Asia o Messico, ora i costi
energetici
contenuti (e l’inflazione salariale
nei
Paesi emergenti) rendono gli
Stati
Uniti una localizzazione competitiva.
L’ottimismo
generato da questa
manna
energetica ha indotto a prevedere
che
gli Usa possano raggiungere
l’autosufficienza
energetica nel 2020.
Tale
epocale inversione non ha sconquassato
solo
l’economia, ma ha anche
accentuato
l’istinto isolazionista
dell’America
profonda e di Barack
Obama.
Il presidente infatti ha trascurato
Libia,
Siria, Iraq e teatri di guerra
che
un tempo avrebbero acceso l’allar -
me
rosso alla Casa Bianca e si è ridestato
lentamente
dal torpore geopolitico solo
di
fronte agli sgozzamenti. Sull’approv -
vigionamento
energetico classe politica,
Pentagono,
società petrolifere e
Wall
Street (che ha riversato cascate di
dollari
su progetti targati shale) dopo
decenni
di patemi e tensioni sono convinti
di
potersi rilassare.
TUTTAVIA
DA QUESTO ALTARE di
certezze
si odono mandibole di tarli in
piena
attività: i successi iniziali sono
stati
inopinatamente proiettati nel futuro
per
attirare capitali e gonfiare l’en -
nesima
bolla. Una serie di studi del Bureau
of
Economic Geology (BEG)
all’Università
del Texas – una tra le più
autorevoli
think tank in campo energetico
–ha
rielaborato le previsioni iniziali
sulla
produzione di shale gas alla
luce
dei dati fin qui rilevati nei maggiori
giacimenti.
Tali studi condotti da geologi,
economisti
e ingegneri forniscono
un’analisi,
disaggregata per singolo
pozzo,
fino al 2030 sulla base di diversi
scenari
di prezzo (che determinano la
convenienza
economica dell’estrazio -
ne).
Emerge che, in contrasto con le iniziali
proiezioni,
la produzione nel bacino
texano
di Barnett (il più vecchio)
segue
un declino esponenziale: la produzione
raggiunge
un picco nei primi
mesi
di attività, per poi crollare, invece
di
stabilizzarsi. Per compensare il rapido
declino
dei primi pozzi (più promettenti
e
meno costosi) si deve trivellare
più
intensamente e con tecnologie più
sofisticate
e i costi si impennano. Piani
di
investimento e aspettative di profitti
rischiano
di trasformarsi in perdite per
azionisti
e finanziatori incauti. Da altri
grandi
giacimenti di shale
gas
sfruttati
da
minor tempo, come Haynesville e
Marcellus,
si temono analoghi dispiaceri.
Oltre
al gas, anche i dati dai pozzi di
petrolio
da scisti di Eagle Ford in Texas,
elaborati
da Arthur Berman indicano
un
preoccupante declino. La Shell ha
iscritto
a bilancio perdite per 2,1 miliardi
di
dollari dall’investimento in Eagle
Ford.
Un altro colosso mondiale delle
materie
prime, BHP Hilton, che aveva
scommesso
20 miliardi di dollari sugli
idrocarburi
da scisti ha annunciato di
voler
vendere metà dei suoi bacini. Una
doccia
gelida è anche arrivata
dall’Energy
Information Administration(
EIA)
del governo Usa che ha tagliato
del
96 per cento (da 13,7 miliardi
di
barili ad appena 600 milioni) le stime
di
petrolio estraibili dal bacino Monterey
lungo
circa 2500 chilometri in California
e
considerato (ormai erroneamente)
il
più grande degli States con
due
terzi delle riserve petrolifere non
convenzionali.
Insieme alle stime sono
evaporati
2,8 milioni di posti di lavoro
attesi
entro il 2020, oltre a 24,6 miliardi
di
dollari introiti fiscali e un 14 per cento
di
aumento del Pil californiano.
L’EPOPEA
DEI COMBUSTIBILI fossili
oscilla
da due secoli tra presagi di esaurimento
imminente
ed esaltazione da
scoperte
di giacimenti giganteschi. Lo
shale
gas
ha alimentato aspettative mirabolanti
probabilmente
destinate ad
ridimensionarsi.
Il miraggio dello shale
aveva
colpito dalla Polonia al Regno
Unito,
dall’Argentina alla Cina. Ma al
di
fuori del Nord America al momento
non
si registrano successi di rilievo. In
Polonia
si sono accumulate perdite e
dispute
tra governo società petrolifere,
mentre
Oltremanica il governo sembra
scettico.
In Italia –dove comunque non
si
segnalano sostanziali giacimenti non
convenzionali
e la Strategia Energetica
Nazionale
esclude espressamente
estrazioni
da scisti – la Commissione
Ambiente
della Camera ha approvato
da
pochi giorni un emendamento che
proibisce
il fracking
,
cioè la tecnologia
per
estrarre lo shale
gas.
il fatto quotidiano 17 settembre 2014
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