DRAMMA
CASALE
“Così
sgobbavamo
per
200mila lire
al
mese: protetti solo
da
una mascherina,
che
s’impregnava
subito
di sudore”
di
Andrea
Giambartolomei
Casale
Monferrato (Al)
Così
lavoravano. Immersi nella polvere, senza
protezioni,
nel dubbio totale ma con le
rassicurazioni
dell’azienda. Gli ex operai della
Eternit
di Casale Monferrato – stipendi dalle 50
alle
200mila lire a seconda del periodo, circa il 15
per
cento in più degli operai di altre fabbriche
nella
stessa epoca – ricordano ancora in quali
condizioni
si trovavano. “Purtroppo sì”, dice
Renato
Palazzo, 74
anni. È sconcertato dalla
sentenza
della Cassazione di mercoledì: “È stata
micidiale
per noi. Dopo una sentenza di quel
genere
non c’è più giustizia. Abbiamo capito che
i
poteri forti vincono sempre”. Gli fa eco un ex
collega,
Mario
Patrucco:
“Oh per carità, quella
sentenza
è un insulto a tutti, non solo per chi ha
lavorato
all’Eternit, ma per tutta la città”. Se
quest’ultimo
non se la sente di ricordare quegli
anni
in fabbrica, Palazzo ci offre il suo racconto
mentre
va all’assemblea organizzata ieri sera
dall’Associazione
dei familiari delle vittime
dell’amianto:
“Ho lavorato lì dentro per nove
anni.
Ho cominciato nel 1966 e sono andato fino
al
1974. Le condizioni erano drammatiche.
C’erano
polveri dappertutto, c’erano delle grosse
ventole
che aspiravano la polvere e la buttavano
fuori,
quindi respiravamo polvere dentro
e
fuori dalla fabbrica”. Qualsiasi operazione
produceva
nuvole bianche. Il sindacalista Nicola
Pondrano
, entrato
all’Eternit a 26 anni, stava al
“mulino”:
il suo compito era schiacciare un tasto
per
riempire i sacchi con l’amianto. Si sollevava
tantissima
polvere.
NONOSTANTE
l’azienda
negasse i rischi, qualcuno
aveva
capito la pericolosità. Nella sua testimonianza
durante
il processo al Tribunale di
Torino
Pondrano ha ricordato il “palombaro”,
un
collega che per proteggersi si copriva con le
buste
di plastica chiuse con spago ed elastici: “Ho
sposato
una bella donna e ho un bambino piccolo,
non
voglio morire!”, raccontò l’uomo al
sindacalista
un anno prima del decesso. La “dit -
ta”dava
loro qualcosa per proteggersi, ma era del
tutto
inutile: “Ci davano delle mascherine che
non
contavano niente – ricorda Palazzo – Lì
dentro
faceva caldo, si faticava e si sudava. La
mascherina
si bagnava, si impregnava tutta e si
buttava
via”. Lui un giorno ha deciso di smettere.
La
direzione gli aveva chiesto di lavorare nel silos,
dove
veniva stoccato il “polverino” ancora
secco,
quello che si solleva più facilmente e resta
in
aria più a lungo: “Mi sono rifiutato. Sono andato
in
ditta e mi sono licenziato. Per me è stata
la
mia fortuna. Io purtroppo ho il 50 per cento di
asbestosi
e ogni giorno spero di risvegliarmi al
mattino
dopo”. A suo fratello è andata peggio:
“Ha
lavorato all’Eternit per 33 anni, fino alla
chiusura
nel 1986. Era pieno di polvere fino agli
occhi.
L’hanno operato due volte. È morto di
mesotelioma
pleurico pochi mesi dopo aver
smesso
di lavorare lì”. È rimasto fino alla fine
pure
il messinese Pietro
Condello,
69 anni domani,
che
ha indossato la sua tuta blu anche di
recente
per le udienze: “Lì dentro era un disastro
– racconta
– Ho fatto quasi venti anni di lavoro
all’Eternit,
sono entrato nel
1966
e sono rimasto quasi fino
alla
fine. Ero al reparto
dell’amianto
blu (il più pericoloso,
ndr),
dovevo fare il facchino
con
l’amianto che arriva
dall’estero.
Lo portavo vicino
alle
macchine e facevo le miscele
a
mano”. Ha mai avuto paura?
“Sì,
dopo un anno: un mio
amico
nel reparto mi ha detto
dei
rischi, ma quando ‘loro’ mi
hanno
assunto sembrava tutto
a
posto”. Ora ha l’asbestosi.
Pag.
6 Il fatto quotidiano 22 novembre 2014
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