sabato 22 novembre 2014

eternit dramma a Casale Monferrato “Con le mani e il naso nel polverino”

DRAMMA CASALE
Così sgobbavamo
per 200mila lire
al mese: protetti solo
da una mascherina,
che s’impregnava
subito di sudore”
di Andrea Giambartolomei
Casale Monferrato (Al)
Così lavoravano. Immersi nella polvere, senza
protezioni, nel dubbio totale ma con le
rassicurazioni dell’azienda. Gli ex operai della
Eternit di Casale Monferrato – stipendi dalle 50
alle 200mila lire a seconda del periodo, circa il 15
per cento in più degli operai di altre fabbriche
nella stessa epoca – ricordano ancora in quali
condizioni si trovavano. “Purtroppo sì”, dice
Renato Palazzo, 74 anni. È sconcertato dalla
sentenza della Cassazione di mercoledì: “È stata
micidiale per noi. Dopo una sentenza di quel
genere non c’è più giustizia. Abbiamo capito che
i poteri forti vincono sempre”. Gli fa eco un ex
collega, Mario Patrucco: “Oh per carità, quella
sentenza è un insulto a tutti, non solo per chi ha
lavorato all’Eternit, ma per tutta la città”. Se
quest’ultimo non se la sente di ricordare quegli
anni in fabbrica, Palazzo ci offre il suo racconto
mentre va all’assemblea organizzata ieri sera
dall’Associazione dei familiari delle vittime
dell’amianto: “Ho lavorato lì dentro per nove
anni. Ho cominciato nel 1966 e sono andato fino
al 1974. Le condizioni erano drammatiche.
C’erano polveri dappertutto, c’erano delle grosse
ventole che aspiravano la polvere e la buttavano
fuori, quindi respiravamo polvere dentro
e fuori dalla fabbrica”. Qualsiasi operazione
produceva nuvole bianche. Il sindacalista Nicola
Pondrano , entrato all’Eternit a 26 anni, stava al
mulino”: il suo compito era schiacciare un tasto
per riempire i sacchi con l’amianto. Si sollevava
tantissima polvere.
NONOSTANTE l’azienda negasse i rischi, qualcuno
aveva capito la pericolosità. Nella sua testimonianza
durante il processo al Tribunale di
Torino Pondrano ha ricordato il “palombaro”,
un collega che per proteggersi si copriva con le
buste di plastica chiuse con spago ed elastici: “Ho
sposato una bella donna e ho un bambino piccolo,
non voglio morire!”, raccontò l’uomo al
sindacalista un anno prima del decesso. La “dit -
ta”dava loro qualcosa per proteggersi, ma era del
tutto inutile: “Ci davano delle mascherine che
non contavano niente – ricorda Palazzo – Lì
dentro faceva caldo, si faticava e si sudava. La
mascherina si bagnava, si impregnava tutta e si
buttava via”. Lui un giorno ha deciso di smettere.
La direzione gli aveva chiesto di lavorare nel silos,
dove veniva stoccato il “polverino” ancora
secco, quello che si solleva più facilmente e resta
in aria più a lungo: “Mi sono rifiutato. Sono andato
in ditta e mi sono licenziato. Per me è stata
la mia fortuna. Io purtroppo ho il 50 per cento di
asbestosi e ogni giorno spero di risvegliarmi al
mattino dopo”. A suo fratello è andata peggio:
Ha lavorato all’Eternit per 33 anni, fino alla
chiusura nel 1986. Era pieno di polvere fino agli
occhi. L’hanno operato due volte. È morto di
mesotelioma pleurico pochi mesi dopo aver
smesso di lavorare lì”. È rimasto fino alla fine
pure il messinese Pietro Condello, 69 anni domani,
che ha indossato la sua tuta blu anche di
recente per le udienze: “Lì dentro era un disastro
racconta – Ho fatto quasi venti anni di lavoro
all’Eternit, sono entrato nel
1966 e sono rimasto quasi fino
alla fine. Ero al reparto
dell’amianto blu (il più pericoloso,
ndr), dovevo fare il facchino
con l’amianto che arriva
dall’estero. Lo portavo vicino
alle macchine e facevo le miscele
a mano”. Ha mai avuto paura?
Sì, dopo un anno: un mio
amico nel reparto mi ha detto
dei rischi, ma quando ‘loro’ mi
hanno assunto sembrava tutto
a posto”. Ora ha l’asbestosi.

Pag. 6 Il fatto quotidiano 22 novembre 2014

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