DI TARANTO CITTÀ MALATA
Mentre le autorità giurano che ormai la qualità dell’aria “è tra le migliori d’Italia”
la gente combatte le polveri killer. Il professore: “L’Ilva brucia le schifezze col buio”
C’è
Ignazio, il barista, ad
accogliere i giornalisti: “Voi venite,
scrivete
e poi andate via. Ma qua la guerra non finisce mai”
C’è
Sabrina, che ha perso papà Peppino e il marito Nicola: “A mio
padre
è andata bene, solo un mese di malattia. Nicola invece ci ha
messo
tanto. E io vorrei andarmene, portare via almeno
la
bambina: ma chi viene a comprarsi adesso una casa a Tamburi?”
di Beatrice
Borromeo
inviata
a Taranto L’uomo
fa scivolare il dito indice
lentamente,
da destra a
sinistra,
sulla superficie liscia
e
scura del bancone del suo
bar.
“Sono un concorrente
del
Grande Fratello”, dice
mostrando
la polvere rossastra che gli si è accumulata
sul
polpastrello. Polvere che sembra cipria,
che
quando la soffi controluce brilla. “Oggi
chi
è stato nominato? Io? Allora oggi muoio io”. Il
piccolo
bar nella piazza centrale del quartiere
Tamburi
– quello che, secondo il sub-commissario
Ilva,
Edo Ronchi, gode dell’aria tra le migliori
d’Italia
– fotografa la realtà complessa di
Taranto.
“Pulisco tutti i giorni, e ogni venerdì
strofino
per bene ogni angolo e lavo i vetri. Ma
non
c’è niente da fare: la polvere entra lo stesso,
s’infiltra
ovunque. Respiro tutto il giorno un’aria
che
fa venire il cancro”.
Ignazio
con la barba bianca e i capelli neri ha due
categorie
di clienti. I giornalisti e gli operai. Quando
entriamo
noi, comincia lo show: ci racconta,
indicando
col dito ancora sporco di “quella zoccola
dell’Ilva”,
che la sua città “sembra uscita dalla
guerra.
È tutto sospeso. Si parla dei Mondiali, non
dei
tumori. Siamo abituati, indifferenti. Voi cronisti
scrivete
due righe e poi ve ne fregate. Ma qui
la
guerra dovrebbe essere finita già da un po’, eppure
la
vita non riparte”. Ignazio dice tutto quello
che
ti aspetti di sentire: “C’è un altro funerale, oggi,
a
Santa Rita. Un altro ragazzo morto di tumore”.
Ma
se gli chiedi di farsi fotografare, la disinvoltura
che
ormai ha con la stampa lascia il posto
alla
paura di perdere la clientela: “Non posso. Qui
ci
vengono gli operai. Non si può parlar male della
zoccola.
Altrimenti la gente si arrabbia: ha paura
di
perdere il lavoro. Vi faccio lo sconto-giornalisti,
un
euro per i vostri caffè, ma non chiedetemi
la
foto”.
LA
CITTÀ ROSA E LE COZZE ILLEGALI
Più
ti avvicini a Tamburi, più il paesaggio si colora
di
rosa. Appena attraversi il ponte girevole, che
divide
la città vecchia da quella nuova, e ti lasci alle
spalle
il Castello Aragonese e la sua storia millenaria,
cominci
a notare le ferite con cui convive la
gente.
Basta guardare il mare. Anche dove non
piovono
i siluri della Marina militare –un bagnante
ne
ha trovato uno di un paio di metri sganciato
qualche
giorno fa, per errore, da un elicottero –di
spie
ce ne sono eccome. E sono rosse, di plastica,
galleggianti.
Sono le decine di boe disseminate nel
Mar
Piccolo di Taranto a indicare le coltivazioni
delle
cozze tarantine, famose nel mondo ma ormai
contaminate.
“Per legge non si possono più né
mangiare
né vendere, anche se i pescatori a volte se
ne
fregano”, raccontano sul lungomare, mentre
due
ragazzini sfrecciano avanti e indietro su un
motorino
grigio, senza meta e senza casco. Rosse
come
le recinzioni che confinano la terra tossica
del
cimitero San Brunone, dove i morti non si possono
più
seppellire perché il rischio per chi scava le
fosse
è troppo alto. Poi alzi gli occhi e vedi le boe
sovrastate
da una torre blu che sulla cima si dipinge
di
strisce rosse e bianche. È il camino E 312,
quello
dove gli operai salivano per protestare contro
la
diossina sparata nell’aria.
IL
TANFO, LE NUVOLE, IL BENZO(A)PIRENE
L’Ilva
si vede, ma è ancora lontana, avvolta da una
cappa
che offusca tutto il cielo tarantino. Davanti a
noi
ci sono due navi con la chiglia arrugginita. Anche
la
Marina militare – denuncia Legambiente –
ha
un ruolo importante nell’avvelenamento di
queste
acque. Così come inquinano gli altri impianti
industriali,
da Cememtir all’Eni. Capisci
dove
sei anche a occhi chiusi, perché vicino a ogni
stabilimento
c’è un odore diverso. Prima arriva la
puzza
di gas, poi quella di marcio. Passi sotto i
lunghi
nastri trasportatori che, come trenini blu
sospesi
per aria, spostano ogni anno milioni di
tonnellate
di materie prime –minerali di ferro e
carbon
fossile – dal porto commerciale ai parchi
dell’Ilva.
Lì inali qualcosa di diverso, di acre, una
puntura
metallica che fa pizzicare le narici.
Dall’acciaieria,
di giorno, escono grappoli di nuvole
bianche,
fumi densi e compatti, innocui per
l’azienda
(“è solo vapore”) e tossici per i cittadini
(“contengono
polveri e benzo(a)pirene, che sono
sicuramente
cancerogeni”). “L’Ilva è oggi
un’azienda
in via di risanamento ambientale – ha
insistito
Ronchi – il benzo(a)pirene si è ridotto di
dieci
volte. Nel quartiere Tamburi è ampiamente a
norma
per tutti i parametri”.
UNO
SU DICIOTTO SI BECCA IL CANCRO
Qui
gente e paesaggio raccontano però un’altra
storia.
Il parchetto di Tamburi, davanti alla scuola
elementare,
è recintato: “Divieto d’ingresso”, dice
l’ordinanza
del sindaco. Neanche le aiuole si possono
toccare:
“Dobbiamo tenere i bambini in casa,
non
possono giocare sull’erba”, racconta una madre.
Quasi
tutti i portoni hanno tre cose in comune:
il
numero civico scritto con la bomboletta
spray,
la bandiera dell’Italia che sventola anche
dopo
l’eliminazione degli Azzurri e un cartello con
su
scritto “vendesi”. Solo che nessuno vuole comprare.
Alessandro
Marescotti, professore delle superiori
che
da qualche anno gira con un rilevatore
di
IPA – tra i principali cancerogeni presenti
nell’aria
tarantina –ci mostra i dati raccolti il giorno
prima,
all’alba. “È di notte che all’Ilva bruciano
quello
che non dovrebbero bruciare”.
La
qualità dell’aria, dice
lui,
“è pessima. Ieri oscillava tra i
17
e i 36 nanogrammi al metro
cubo,
superando addirittura la
concentrazione
che Arpa aveva
rilevato
a Tamburi nell’anno
delle
telefonate tra Archinà e Nichi
Vendola,
il 2010 (cioè 19 nanogrammi
al
metro cubo)”. Proprio
verso
le sette di mattina si
vede
una striscia orizzontale che
come
un soufflè si accascia sulla
città:
“È in quel momento che bisogna
analizzare
l’aria. Il sistema
di
monitoraggio che rende così
ottimista
Ronchi è inaffidabile”.
Il
professore cita il numero dei malati di tumore, in
continuo
aumento: “Uno ogni diciotto persone a
Tamburi,
nel resto della città uno ogni ventisei
abitanti”.
Dati non necessariamente incompatibili
con
le affermazioni del sub-commissario, considerando
il
periodo d’incubazione. “La prova che i
rischi
sono ancora enormi – dice Marescotti – è
che
abbiamo fatto fare gli esami del sangue a un
gruppo
di bambini di Tamburi. E nel loro sangue
c’è
piombo. Il piombo resiste tre o quattro settimane
al
massimo. Se la situazione fosse buona come
vogliono
farci credere, non avremmo un probabile
cancerogeno
dentro di noi: sì, ce l’ho anche
io,
e sono preoccupato per la mia salute”.
FRATELLI
D’ITALIA E AMORE SUI MURI
All’ingresso
della città, appena dopo l’autostrada,
c’è
questa scritta: “Oggi bistecca alla diossina”. A
Tamburi
invece, oltre al patriottismo calcistico,
stupiscono
anche i messaggi verniciati sui muri. Ci
sono
solo frasi d’amore: “Silvia ti prego torna”;
“Piccola
mia io e te sempre insieme”; “Tanti auguri
mamma”.
Sulla facciata di una casa popolare,
però,
c’è affissa una targa: “Ennesimo decesso per
neoplasia
polmonare. 8 marzo 2012”. “L’ha voluta
mio
padre, operaio dell’Ilva, subito prima di morire”,
ricorda
Sabrina Corisi, occhi azzurri e combattivi.
“Voleva
fosse chiaro a tutti che siamo solo
numeri.
Lui, almeno, è stato fortunato: è morto in
25
giorni”. Entriamo nella sua casa, tirata a lucido
“perché
qui abbiamo la fobia della polvere”. Fuori
dalle
finestre ci sono stracci bagnati per impedire
che
entri, stracci che dopo qualche ora si colorano
di
rosa. Nella cucina, sul frigo, sono attaccate fotografie
di
due uomini: “Quello è mio padre Peppino.
L’altro
invece, è mio marito Nicola. Stesso
lavoro,
stessa sorte. Ma a Nicola è andata molto
peggio:
ci ha messo sei mesi a morire. Alla fine
aveva
52 metastasi solo al collo. Tre lesioni cerebrali.
Un
nodulo al polmone. Non riusciva più né a
respirare
né a bere o mangiare. Qui dicono che
bisogna
scegliere se morire di cancro o di fame: lui
è
morto di tutt’e due”. Sabrina è in casa con la sorella,
la
madre e la figlia di due anni, Gaia, che
indossa
una maglietta con la foto del padre sul davanti
e
del nonno sulla schiena. Di tanto in tanto
dà
un occhiata al cortile, dove Swami, 8 anni, gioca
con
gli amici: “So che non dovrebbero star fuori,
ma
tenere i bambini tutto il giorno chiusi in casa è
impossibile”.
Le mani e la fronte, quando si appoggiano
al
muro per giocare a nascondino, diventano
subito
rosse di polvere, come se avessero
toccato
una vernice fresca color mattone. “Se dovesse
succedere
qualcosa ai miei figli non me lo
perdonerei
mai, alla fine la scelta di restare è mia”,
dice
Sabrina. Che però, ad andarsene, ci ha provato:
“La
casa è invendibile. Il lavoro non c’è. Io
dico
che tutti noi che abitiamo qui, in fondo, lavoriamo
per
l’Ilva. Quando è morto mio marito,
sono
andata in banca perché da sola non riesco a
pagare
il mutuo. Ho detto: ‘Voglio pagarne solo
metà,
perché mio marito non è più qui, non usufruisce
più
di questa casa”. Lui, mangiando patatine,
si
è messo a ridere: ‘Facile la vita, eh?’, ha
risposto.
Sabrina ci mostra un volantino che sta
distribuendo
in tutto il vicinato. “Chiedo alla gente
di
Tamburi di svegliarsi. So che avete paura di
perdere
il posto, ma qui stiamo morendo tutti.
Dobbiamo
essere uniti, solo così obbligheremo
Renzi,
Ronchi o chi per loro a fare qualcosa. Venissero
qui,
a governare. Li ospito io, vediamo se
insistono
con la cazzata che la nostra aria è la migliore
d’Italia”.
Per un’oretta, Sabrina racconta la
sua
storia e resta tranquilla.
Poi
gli scudi cadono e le parole escono veloci, una
dopo
l’altra. È quando si parla della famiglia Riva:
“Io
li odio. Mentre ero in ospedale ho sentito della
morte
di Emilio Riva. Aveva 80 anni, quindi la vita
l’ha
vissuta, ha visto i figli crescere, e questo mi
dispiace.
Ma in quel momento, quando ho saputo
che
non esisteva più, sono stata felice. Fanculo, sei
morto
pure tu. Sarai anche morto vecchio e ricco,
ma
almeno sei sotto terra. E dopo di te ci vada pure
l’Ilva”.
CAMPIONI
DEL MONDO
Ma
c’è anche chi, si chiama Mario Amodio, vuole
che
l’acciaieria resti aperta: “Che la mettano in sicurezza.
Altrimenti
qui non si mangia più”: Mario
è
stato campione del mondo di kick boxing e karate,
la
sua casa è colma di trofei e medaglie. Sua
moglie
Felicetta, che dei tarantini dice “siamo un
branco
di pecore, non riusciamo a coalizzarci”, li
guarda
e poi abbassa gli occhi a terra. Adesso Mario
pesa
40 chili. “Ho lavorato nell’Ilva e nel suo
indotto
tutta la mia vita. Poi mi hanno detto che
avevo
un tumore alla lingua e uno all’esofago. Io
ero
così in forma, così forte, che non avrei mai
pensato
potesse succedere proprio a me”. Le parole
sono
le stesse usate da Sabrina: “Dopo mio
padre,
come avrei potuto immaginare che capitasse
anche
a Nicola?”. Mario, che parla grazie a
una
macchina appoggiata sotto al mento, si rivolge
direttamente
al premier: “Per colpa dell’Ilva sto
vivendo
un’altra vita. Mi hanno tolto l’esofago:
non
posso digerire, se mangio troppo mi esce tutto.
Non
posso fare la doccia perché rischio di affogare.
Non
posso essere un marito per mia moglie,
che
è l’unica ragione per cui vado avanti. E
sapete
cos’ha fatto l’Asl? Mi ha tolto l’accompa -
gnamento!
Erano solo 500 euro al mese, ma aiutavano.
Dicono
che mi vedono bene, che sto meglio.
Che
lavoro posso fare – dice con la voce metallica
che
filtra dalle vibrazioni del laringofano –
l’operatore
di un call center?”. Mario e Felicetta
scoppiano
a ridere: “Dobbiamo metterla in quel
posto
a chi ci vuole morti. Restiamo di buon umore.
Siamo
più forti di te, Ilva”.
Twitter@BorromeoBea
Ha
collaborato Luigi Piepoli
il fatto quotidiano 29 giugno 2014
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