domenica 29 giugno 2014

Ilva LA LUNGA NOTTE NERA DI TARANTO CITTÀ MALATA

LA LUNGA NOTTE NERA
DI TARANTO CITTÀ MALATA
Mentre le autorità giurano che ormai la qualità dell’aria “è tra le migliori d’Italia”
la gente combatte le polveri killer. Il professore: “L’Ilva brucia le schifezze col buio”
C’è Ignazio, il barista, ad accogliere i giornalisti: “Voi venite,
scrivete e poi andate via. Ma qua la guerra non finisce mai”
C’è Sabrina, che ha perso papà Peppino e il marito Nicola: “A mio
padre è andata bene, solo un mese di malattia. Nicola invece ci ha
messo tanto. E io vorrei andarmene, portare via almeno
la bambina: ma chi viene a comprarsi adesso una casa a Tamburi?” di Beatrice Borromeo
inviata a Taranto L’uomo fa scivolare il dito indice
lentamente, da destra a
sinistra, sulla superficie liscia
e scura del bancone del suo
bar. “Sono un concorrente
del Grande Fratello”, dice
mostrando la polvere rossastra che gli si è accumulata
sul polpastrello. Polvere che sembra cipria,
che quando la soffi controluce brilla. “Oggi
chi è stato nominato? Io? Allora oggi muoio io”. Il
piccolo bar nella piazza centrale del quartiere
Tamburi – quello che, secondo il sub-commissario
Ilva, Edo Ronchi, gode dell’aria tra le migliori
d’Italia – fotografa la realtà complessa di
Taranto. “Pulisco tutti i giorni, e ogni venerdì
strofino per bene ogni angolo e lavo i vetri. Ma
non c’è niente da fare: la polvere entra lo stesso,
s’infiltra ovunque. Respiro tutto il giorno un’aria
che fa venire il cancro”.
Ignazio con la barba bianca e i capelli neri ha due
categorie di clienti. I giornalisti e gli operai. Quando
entriamo noi, comincia lo show: ci racconta,
indicando col dito ancora sporco di “quella zoccola
dell’Ilva”, che la sua città “sembra uscita dalla
guerra. È tutto sospeso. Si parla dei Mondiali, non
dei tumori. Siamo abituati, indifferenti. Voi cronisti
scrivete due righe e poi ve ne fregate. Ma qui
la guerra dovrebbe essere finita già da un po’, eppure
la vita non riparte”. Ignazio dice tutto quello
che ti aspetti di sentire: “C’è un altro funerale, oggi,
a Santa Rita. Un altro ragazzo morto di tumore”.
Ma se gli chiedi di farsi fotografare, la disinvoltura
che ormai ha con la stampa lascia il posto
alla paura di perdere la clientela: “Non posso. Qui
ci vengono gli operai. Non si può parlar male della
zoccola. Altrimenti la gente si arrabbia: ha paura
di perdere il lavoro. Vi faccio lo sconto-giornalisti,
un euro per i vostri caffè, ma non chiedetemi
la foto”.
LA CITTÀ ROSA E LE COZZE ILLEGALI
Più ti avvicini a Tamburi, più il paesaggio si colora
di rosa. Appena attraversi il ponte girevole, che
divide la città vecchia da quella nuova, e ti lasci alle
spalle il Castello Aragonese e la sua storia millenaria,
cominci a notare le ferite con cui convive la
gente. Basta guardare il mare. Anche dove non
piovono i siluri della Marina militare –un bagnante
ne ha trovato uno di un paio di metri sganciato
qualche giorno fa, per errore, da un elicottero –di
spie ce ne sono eccome. E sono rosse, di plastica,
galleggianti. Sono le decine di boe disseminate nel
Mar Piccolo di Taranto a indicare le coltivazioni
delle cozze tarantine, famose nel mondo ma ormai
contaminate. “Per legge non si possono più né
mangiare né vendere, anche se i pescatori a volte se
ne fregano”, raccontano sul lungomare, mentre
due ragazzini sfrecciano avanti e indietro su un
motorino grigio, senza meta e senza casco. Rosse
come le recinzioni che confinano la terra tossica
del cimitero San Brunone, dove i morti non si possono
più seppellire perché il rischio per chi scava le
fosse è troppo alto. Poi alzi gli occhi e vedi le boe
sovrastate da una torre blu che sulla cima si dipinge
di strisce rosse e bianche. È il camino E 312,
quello dove gli operai salivano per protestare contro
la diossina sparata nell’aria.
IL TANFO, LE NUVOLE, IL BENZO(A)PIRENE
L’Ilva si vede, ma è ancora lontana, avvolta da una
cappa che offusca tutto il cielo tarantino. Davanti a
noi ci sono due navi con la chiglia arrugginita. Anche
la Marina militare – denuncia Legambiente –
ha un ruolo importante nell’avvelenamento di
queste acque. Così come inquinano gli altri impianti
industriali, da Cememtir all’Eni. Capisci
dove sei anche a occhi chiusi, perché vicino a ogni
stabilimento c’è un odore diverso. Prima arriva la
puzza di gas, poi quella di marcio. Passi sotto i
lunghi nastri trasportatori che, come trenini blu
sospesi per aria, spostano ogni anno milioni di
tonnellate di materie prime –minerali di ferro e
carbon fossile – dal porto commerciale ai parchi
dell’Ilva. Lì inali qualcosa di diverso, di acre, una
puntura metallica che fa pizzicare le narici.
Dall’acciaieria, di giorno, escono grappoli di nuvole
bianche, fumi densi e compatti, innocui per
l’azienda (“è solo vapore”) e tossici per i cittadini
(“contengono polveri e benzo(a)pirene, che sono
sicuramente cancerogeni”). “L’Ilva è oggi
un’azienda in via di risanamento ambientale – ha
insistito Ronchi – il benzo(a)pirene si è ridotto di
dieci volte. Nel quartiere Tamburi è ampiamente a
norma per tutti i parametri”.
UNO SU DICIOTTO SI BECCA IL CANCRO
Qui gente e paesaggio raccontano però un’altra
storia. Il parchetto di Tamburi, davanti alla scuola
elementare, è recintato: “Divieto d’ingresso”, dice
l’ordinanza del sindaco. Neanche le aiuole si possono
toccare: “Dobbiamo tenere i bambini in casa,
non possono giocare sull’erba”, racconta una madre.
Quasi tutti i portoni hanno tre cose in comune:
il numero civico scritto con la bomboletta
spray, la bandiera dell’Italia che sventola anche
dopo l’eliminazione degli Azzurri e un cartello con
su scritto “vendesi”. Solo che nessuno vuole comprare.
Alessandro Marescotti, professore delle superiori
che da qualche anno gira con un rilevatore
di IPA – tra i principali cancerogeni presenti
nell’aria tarantina –ci mostra i dati raccolti il giorno
prima, all’alba. “È di notte che all’Ilva bruciano
quello che non dovrebbero bruciare”.
La qualità dell’aria, dice
lui, “è pessima. Ieri oscillava tra i
17 e i 36 nanogrammi al metro
cubo, superando addirittura la
concentrazione che Arpa aveva
rilevato a Tamburi nell’anno
delle telefonate tra Archinà e Nichi
Vendola, il 2010 (cioè 19 nanogrammi
al metro cubo)”. Proprio
verso le sette di mattina si
vede una striscia orizzontale che
come un soufflè si accascia sulla
città: “È in quel momento che bisogna
analizzare l’aria. Il sistema
di monitoraggio che rende così
ottimista Ronchi è inaffidabile”.
Il professore cita il numero dei malati di tumore, in
continuo aumento: “Uno ogni diciotto persone a
Tamburi, nel resto della città uno ogni ventisei
abitanti”. Dati non necessariamente incompatibili
con le affermazioni del sub-commissario, considerando
il periodo d’incubazione. “La prova che i
rischi sono ancora enormi – dice Marescotti – è
che abbiamo fatto fare gli esami del sangue a un
gruppo di bambini di Tamburi. E nel loro sangue
c’è piombo. Il piombo resiste tre o quattro settimane
al massimo. Se la situazione fosse buona come
vogliono farci credere, non avremmo un probabile
cancerogeno dentro di noi: sì, ce l’ho anche
io, e sono preoccupato per la mia salute”.
FRATELLI D’ITALIA E AMORE SUI MURI
All’ingresso della città, appena dopo l’autostrada,
c’è questa scritta: “Oggi bistecca alla diossina”. A
Tamburi invece, oltre al patriottismo calcistico,
stupiscono anche i messaggi verniciati sui muri. Ci
sono solo frasi d’amore: “Silvia ti prego torna”;
Piccola mia io e te sempre insieme”; “Tanti auguri
mamma”. Sulla facciata di una casa popolare,
però, c’è affissa una targa: “Ennesimo decesso per
neoplasia polmonare. 8 marzo 2012”. “L’ha voluta
mio padre, operaio dell’Ilva, subito prima di morire”,
ricorda Sabrina Corisi, occhi azzurri e combattivi.
Voleva fosse chiaro a tutti che siamo solo
numeri. Lui, almeno, è stato fortunato: è morto in
25 giorni”. Entriamo nella sua casa, tirata a lucido
perché qui abbiamo la fobia della polvere”. Fuori
dalle finestre ci sono stracci bagnati per impedire
che entri, stracci che dopo qualche ora si colorano
di rosa. Nella cucina, sul frigo, sono attaccate fotografie
di due uomini: “Quello è mio padre Peppino.
L’altro invece, è mio marito Nicola. Stesso
lavoro, stessa sorte. Ma a Nicola è andata molto
peggio: ci ha messo sei mesi a morire. Alla fine
aveva 52 metastasi solo al collo. Tre lesioni cerebrali.
Un nodulo al polmone. Non riusciva più né a
respirare né a bere o mangiare. Qui dicono che
bisogna scegliere se morire di cancro o di fame: lui
è morto di tutt’e due”. Sabrina è in casa con la sorella,
la madre e la figlia di due anni, Gaia, che
indossa una maglietta con la foto del padre sul davanti
e del nonno sulla schiena. Di tanto in tanto
dà un occhiata al cortile, dove Swami, 8 anni, gioca
con gli amici: “So che non dovrebbero star fuori,
ma tenere i bambini tutto il giorno chiusi in casa è
impossibile”. Le mani e la fronte, quando si appoggiano
al muro per giocare a nascondino, diventano
subito rosse di polvere, come se avessero
toccato una vernice fresca color mattone. “Se dovesse
succedere qualcosa ai miei figli non me lo
perdonerei mai, alla fine la scelta di restare è mia”,
dice Sabrina. Che però, ad andarsene, ci ha provato:
La casa è invendibile. Il lavoro non c’è. Io
dico che tutti noi che abitiamo qui, in fondo, lavoriamo
per l’Ilva. Quando è morto mio marito,
sono andata in banca perché da sola non riesco a
pagare il mutuo. Ho detto: ‘Voglio pagarne solo
metà, perché mio marito non è più qui, non usufruisce
più di questa casa”. Lui, mangiando patatine,
si è messo a ridere: ‘Facile la vita, eh?’, ha
risposto. Sabrina ci mostra un volantino che sta
distribuendo in tutto il vicinato. “Chiedo alla gente
di Tamburi di svegliarsi. So che avete paura di
perdere il posto, ma qui stiamo morendo tutti.
Dobbiamo essere uniti, solo così obbligheremo
Renzi, Ronchi o chi per loro a fare qualcosa. Venissero
qui, a governare. Li ospito io, vediamo se
insistono con la cazzata che la nostra aria è la migliore
d’Italia”. Per un’oretta, Sabrina racconta la
sua storia e resta tranquilla.
Poi gli scudi cadono e le parole escono veloci, una
dopo l’altra. È quando si parla della famiglia Riva:
Io li odio. Mentre ero in ospedale ho sentito della
morte di Emilio Riva. Aveva 80 anni, quindi la vita
l’ha vissuta, ha visto i figli crescere, e questo mi
dispiace. Ma in quel momento, quando ho saputo
che non esisteva più, sono stata felice. Fanculo, sei
morto pure tu. Sarai anche morto vecchio e ricco,
ma almeno sei sotto terra. E dopo di te ci vada pure
l’Ilva”.
CAMPIONI DEL MONDO
Ma c’è anche chi, si chiama Mario Amodio, vuole
che l’acciaieria resti aperta: “Che la mettano in sicurezza.
Altrimenti qui non si mangia più”: Mario
è stato campione del mondo di kick boxing e karate,
la sua casa è colma di trofei e medaglie. Sua
moglie Felicetta, che dei tarantini dice “siamo un
branco di pecore, non riusciamo a coalizzarci”, li
guarda e poi abbassa gli occhi a terra. Adesso Mario
pesa 40 chili. “Ho lavorato nell’Ilva e nel suo
indotto tutta la mia vita. Poi mi hanno detto che
avevo un tumore alla lingua e uno all’esofago. Io
ero così in forma, così forte, che non avrei mai
pensato potesse succedere proprio a me”. Le parole
sono le stesse usate da Sabrina: “Dopo mio
padre, come avrei potuto immaginare che capitasse
anche a Nicola?”. Mario, che parla grazie a
una macchina appoggiata sotto al mento, si rivolge
direttamente al premier: “Per colpa dell’Ilva sto
vivendo un’altra vita. Mi hanno tolto l’esofago:
non posso digerire, se mangio troppo mi esce tutto.
Non posso fare la doccia perché rischio di affogare.
Non posso essere un marito per mia moglie,
che è l’unica ragione per cui vado avanti. E
sapete cos’ha fatto l’Asl? Mi ha tolto l’accompa -
gnamento! Erano solo 500 euro al mese, ma aiutavano.
Dicono che mi vedono bene, che sto meglio.
Che lavoro posso fare – dice con la voce metallica
che filtra dalle vibrazioni del laringofano –
l’operatore di un call center?”. Mario e Felicetta
scoppiano a ridere: “Dobbiamo metterla in quel
posto a chi ci vuole morti. Restiamo di buon umore.
Siamo più forti di te, Ilva”.
Twitter@BorromeoBea
Ha collaborato Luigi Piepoli


il fatto quotidiano 29 giugno 2014 

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