sabato 1 marzo 2014

Taranto e veleni, il Pm: all’Ilva 29 operai morti per lavoro FABBRICA LETALE

L’accusa ha chiesto 28 condanne compresi i 4 anni e mezzo per il patron Riva e il figlio Fabio rifugiato a Londra di Francesco Casula Sei ore per raccontare come ammalarsi e poi morire. Mesotelioma pleurico contratto per “la prolungata e intensa esposizione all’a m i a nto” presente nello stabilimento siderurgico di Taranto. Quasi 180 anni di carcere chiesti per i 29 dirigenti della fabbrica dal 1975 al 1995. Il pubblico ministero Raffaele Graziano ha presentato un conto pesantissimo alla fine del “l u ngo dibattimento che ha mostrato uno spaccato di vita della comunitá tarantina” e ha portato alla luce “le gravi violazioni alle norme di sicurezza commesse dai dirigenti all’interno della fabbrica”. OMISSIONI che hanno causato, secondo l’accusa, la morte di 29 operai ammalati dopo una vita di lavoro in fabbrica. Perché l’amianto dell’Italsider statale e poi nell’Ilva privatizzata con l’avvento dei Riva, era ovunque. Persino nei guanti consegnati come protezione agli operai. Nessuna informazione per i lavoratori, protezioni carenti e la “sciatteria disarmante” della dirigenza che ha causato il disastro colposo che oggi viene contestato a quasi tutti gli imputati. Tra questi Emilio Riva, l’87enne ex patron della fabbrica, il figlio Fabio, da oltre un anno a Londra per sfuggire al carcere, e l’ex direttore Luigi Capogrosso. Il pubblico ministero ha chiesto per loro una condanna a 4 anni e 6 mesi di carcere. Pene più severe, invece, per Francesco Chindemi, 68enne direttore dell’Ilva statale dal 1989 al 1993 e poi ad della Lucchini, e per Giorgio Zappa ex dirigente Italsider poi divenuto uno dei vertici di Finmeccanica: entrambi rischiano una condanna a 7 anni di carcere. Per tutti gli altri le pene comprese tra i 2 e i 9 anni di reclusione. Durante la sua discussione, il pm Graziano ha ripercorso tutti i dati emersi dalle tante perizie e relazioni entrate nell’inchiesta. Come quella dell’Organizzazione mondiale della sanità che già negli anni ’90 lanciava l’allamrme sull’inquietante diffusione del mesotelioma a Taranto. Dati confermati anche dai successivi accertamenti dell’Arpa Puglia che nella relazione di Lucia Bisceglia ha aggiunto che “è possibile ritenere che, sulla base dello studio condotto, i soggetti che hanno prestato servizio presso lo stabilimento siderurgico di Taranto e che risultano registrati nell’archivio Inps nel periodo 1974-1997 mostrano un rischio di morire per mesotelioma pleurico pari a più del doppio rispetto a soggetti confrontabili per sesso, classe quinquennali di calendario e di età della regione Puglia”. I RISCHI, nella fabbrica di Taranto, non venivano solo dalle emissioni nocive dei camini o dalle polveri dei parchi minerali, ma anche dai materiali con i quali erano rivestiti gli impianti. Tutto contribuiva a elevare il rischio di ammalarsi e, come è accaduto ai 29 operai sui quali la magistratura di Taranto ha indagato per aprire questo procedimento penale, morire. Il pm Graziano, inoltre, ha minuziosamente spiegato come lo studio Sentieri abbia messo in relazione i casi di mesotelioma rispetto alla regione Puglia (accertando tra il 1995 e il 2002 un aumento del 486 percento) mentre il lavori svolto degli esperti del gip Todisco ha collegato i casi di tumore nelle varie zone della città. In quest’ultimo caso non solo appare chiaro che le malattie aumentano nei quartieri più vicini alla fabbrica, ma anche che per gli operai esiste il 70 per cento di rischio in più rispetto ai cittadini del capoluogo ionico di contrarre la malattia. Eppure nonostante i tanti campanelli d’allarme e le notizie diffuse negli anni sui rischi derivanti dell’amianto, ancora oggi non esiste una certificazione del completo smantellamento del materiale cancerogeno. In aula ha parlato anche il procuratore Franco Sebastio: mostrando la prima sentenza di condanna dell’Italsider, datata 1982, ha detto che si tratta di “un ciclo che si ripete, anche se oggi sento parlare di ‘tenere insieme salute e lavoro’, ma ancora non ho trovato nessuno in grado di spiegare come si debba fare”. il fatto quotidiano 1 marzo 2014

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