mercoledì 17 settembre 2014

FRACKING Gas dalle rocce, sta già svanendo il miraggio

Negli Stati Uniti ha fatto rinascere l’industr ia
e rilanciato l’economia. Ma i giacimenti sono meno generosi
del previsto e le stime sul loro sviluppo si rivelano sbagliate

di Alexis Crow
e Fabio Scacciavillani Il successo dell’estrazione di
petrolio e gas da giacimenti
non convenzionali, in particolare
le formazioni di
scisti (in inglese shale), è
uno dei rari raggi di luce negli
anni bui di Grande Recessione.
L’impatto è stato impressionante. Da
quattro anni gli Usa sono il maggior
produttore di gas al mondo e da inizio
2014, con l’equivalente di 11 milioni di
barili di petrolio al giorno, sono in testa
alla produzione globale di idrocarburi.
Il prezzo del gas naturale negli Usa, che
a giugno del 2008 aveva superato i 12
dollari per milione di Btu (British thermal
units, l’unità di misura più diffusa
per il prezzo del gas), piombò a meno di
3 dollari a settembre 2009 e poi fino a
un minimo di 2 dollari nell’aprile del
2012. Oggi il prezzo si aggira intorno ai
4 dollari per mBtu. Gli Usa un tempo
rassegnati a massicce importazioni di
gas liquefatto dal Qatar ora pianificano
di esportare verso l’Europa (dove il gas
vale 10 dollari per mBtu) e il ricco mercato
asiatico (in Giappone il prezzo è
circa 15 dollari) e addirittura verso il
Medio Oriente.
IN TALUNI SETTORI manifatturieri,
inclusi quelli che avevano trasferito le
fabbriche in Asia o Messico, ora i costi
energetici contenuti (e l’inflazione salariale
nei Paesi emergenti) rendono gli
Stati Uniti una localizzazione competitiva.
L’ottimismo generato da questa
manna energetica ha indotto a prevedere
che gli Usa possano raggiungere
l’autosufficienza energetica nel 2020.
Tale epocale inversione non ha sconquassato
solo l’economia, ma ha anche
accentuato l’istinto isolazionista
dell’America profonda e di Barack
Obama. Il presidente infatti ha trascurato
Libia, Siria, Iraq e teatri di guerra
che un tempo avrebbero acceso l’allar -
me rosso alla Casa Bianca e si è ridestato
lentamente dal torpore geopolitico solo
di fronte agli sgozzamenti. Sull’approv -
vigionamento energetico classe politica,
Pentagono, società petrolifere e
Wall Street (che ha riversato cascate di
dollari su progetti targati shale) dopo
decenni di patemi e tensioni sono convinti
di potersi rilassare.
TUTTAVIA DA QUESTO ALTARE di
certezze si odono mandibole di tarli in
piena attività: i successi iniziali sono
stati inopinatamente proiettati nel futuro
per attirare capitali e gonfiare l’en -
nesima bolla. Una serie di studi del Bureau
of Economic Geology (BEG)
all’Università del Texas – una tra le più
autorevoli think tank in campo energetico
ha rielaborato le previsioni iniziali
sulla produzione di shale gas alla
luce dei dati fin qui rilevati nei maggiori
giacimenti. Tali studi condotti da geologi,
economisti e ingegneri forniscono
un’analisi, disaggregata per singolo
pozzo, fino al 2030 sulla base di diversi
scenari di prezzo (che determinano la
convenienza economica dell’estrazio -
ne). Emerge che, in contrasto con le iniziali
proiezioni, la produzione nel bacino
texano di Barnett (il più vecchio)
segue un declino esponenziale: la produzione
raggiunge un picco nei primi
mesi di attività, per poi crollare, invece
di stabilizzarsi. Per compensare il rapido
declino dei primi pozzi (più promettenti
e meno costosi) si deve trivellare
più intensamente e con tecnologie più
sofisticate e i costi si impennano. Piani
di investimento e aspettative di profitti
rischiano di trasformarsi in perdite per
azionisti e finanziatori incauti. Da altri
grandi giacimenti di shale gas sfruttati
da minor tempo, come Haynesville e
Marcellus, si temono analoghi dispiaceri.
Oltre al gas, anche i dati dai pozzi di
petrolio da scisti di Eagle Ford in Texas,
elaborati da Arthur Berman indicano
un preoccupante declino. La Shell ha
iscritto a bilancio perdite per 2,1 miliardi
di dollari dall’investimento in Eagle
Ford. Un altro colosso mondiale delle
materie prime, BHP Hilton, che aveva
scommesso 20 miliardi di dollari sugli
idrocarburi da scisti ha annunciato di
voler vendere metà dei suoi bacini. Una
doccia gelida è anche arrivata
dall’Energy Information Administration(
EIA) del governo Usa che ha tagliato
del 96 per cento (da 13,7 miliardi
di barili ad appena 600 milioni) le stime
di petrolio estraibili dal bacino Monterey
lungo circa 2500 chilometri in California
e considerato (ormai erroneamente)
il più grande degli States con
due terzi delle riserve petrolifere non
convenzionali. Insieme alle stime sono
evaporati 2,8 milioni di posti di lavoro
attesi entro il 2020, oltre a 24,6 miliardi
di dollari introiti fiscali e un 14 per cento
di aumento del Pil californiano.
L’EPOPEA DEI COMBUSTIBILI fossili
oscilla da due secoli tra presagi di esaurimento
imminente ed esaltazione da
scoperte di giacimenti giganteschi. Lo
shale gas ha alimentato aspettative mirabolanti
probabilmente destinate ad
ridimensionarsi. Il miraggio dello shale
aveva colpito dalla Polonia al Regno
Unito, dall’Argentina alla Cina. Ma al
di fuori del Nord America al momento
non si registrano successi di rilievo. In
Polonia si sono accumulate perdite e
dispute tra governo società petrolifere,
mentre Oltremanica il governo sembra
scettico. In Italia –dove comunque non
si segnalano sostanziali giacimenti non
convenzionali e la Strategia Energetica
Nazionale esclude espressamente
estrazioni da scisti – la Commissione
Ambiente della Camera ha approvato
da pochi giorni un emendamento che
proibisce il fracking , cioè la tecnologia
per estrarre lo shale gas.

il fatto quotidiano 17 settembre 2014 

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