Il disastro politico, economico, sociale, culturale che investe l’Abruzzo, regione meridionale, ha radici profonde. Per limitarci alle più recenti, guardiamo agli anni in cui in Italia c’erano ancora margini di crescita e occasioni di investimento. I ras democristiani che dominavano incontrastati non pensarono minimamente di avviare processi virtuosi per favorire lo sviluppo autonomo e autoctono delle capacità produttive. Col binomio “un posto alle poste – pensioni di (falsa) invalidità”, si limitavano a rispondere alle istanze individuali nel classico quadro clientelare e assistenziale. Ogni forma di imprenditorialità locale risultava menomata da un lato dall’emigrazione delle energie più dinamiche e intraprendenti (metà degli abruzzesi vive a Roma), dall’altro dalle distorsioni che i sussidi farlocchi creavano in chi restava. Soddisfatti i singoli, che contraccambiavano con voti plebiscitari, per ignoranza e insipienza, più che per malafede, la collettività veniva condannata a una lenta agonia.
Ne vediamo i risultati oggi, in questo 2017 così pieno di sciagure da suscitare quasi istinti scaramantici. La siccità di inizio anno bruscamente interrotta da nevicate a vento senza precedenti, terremoti che provocano crolli e valanghe catastrofiche, poi ancora gelate tardive su infiorescenze premature, per finire con l’assenza di piogge e il caldo record che creano le condizioni per la combustione dell’ingente patrimonio boschivo.
Sono gli effetti dei cambiamenti climatici globali, certo, ma anche dell’abbandono in cui versa il territorio. Lo spopolamento delle montagne e l’assenza di qualsiasi politica di sostegno alla silvicoltura hanno generato la crescita disordinata di sottoboschi particolarmente infruttuosi e pericolosi in caso di incendio. Per secoli, le popolazioni locali avevano mantenuto ordine e pulizia in maniera naturale, coltivando ovunque potessero ricavare un qualche sostentamento, per fame di terra anche in condizioni estreme, esposti a severe intemperie, e andando a ripulire i boschi per procurarsi legna da ardere per scaldarsi. I contadini, per dire, avevano l’obbligo di curarsi dei bordi delle strade interpoderali.
Oggi la vegetazione ha riconquistato terreno, chiudendo le antiche mulattiere, i paesini spopolati crollano nell’incuria. Nell’incertezza delle competenze tra Province e altri enti pubblici, gran parte delle strade secondarie sono chiuse, non per frana ma per disinteresse, sciatteria e mancanza di fondi. A proposito di infrastrutture, quest’estate è stata chiusa persino la ferrovia Roma-Pescara che per prima, subito dopo l’Unità d’Italia, aveva rotto il secolare isolamento della regione.
È chiaro che, vivendo quotidianamente al limite, qualsiasi perturbazione esterna si trasforma in emergenza. Le strade abbandonate diventano invalicabili alla prima nevicata, non permettendo di raggiungere intere porzioni del territorio; gli acquedotti fanno “acqua sporca” al primo periodo di siccità o al primo temporale, mentre gli appositi consorzi vengono tenuti in piedi, tra montagne di debiti che ricadono sui contribuenti, al solo scopo di mantenere equilibri politici e laute prebende ai dirigenti; le case abbandonate, in gran parte abusive, crollano alla minima scossa di terremoto, salvo poi dichiarare la calamità e chiedere risarcimenti pubblici; le sterpaglie secche sono facile terreno per avviare incendi devastanti da parte di incauti o di veri e propri criminali che accendono dolosamente.
Bisogna evidenziare una volta di più che tutti questi danni più che contro la natura si ritorcono essenzialmente contro di noi. Una discarica abusiva è nociva per noi, non per i milioni di microorganismi che vi proliferano. Lo stesso vale per una colata di cemento, per la distruzione di una bellezza paesaggistica, una spiaggia che si ritrae, un fiume carico di colibatteri, il taglio o l’incendio di un bosco secolare. Anche nel caso di deflagrazione della peggiore delle catastrofi che siamo stati capaci di preparare (con lunghi studi e ingenti finanziamenti), quella nucleare, chi ci rimetterebbe saremmo solo noi e la natura per come ci siamo abituati ad apprezzarla, non certo la vita della terra. Alcune specie (pare che i rettili, per dire, siano invulnerabili alle radiazioni) ne approfitterebbero per espandersi, ripartire su altre basi, in seguito a una delle estinzioni di massa che già altre volte hanno colpito il nostro pianeta.
In sostanza, quel che stiamo perpetrando col nostro inquinamento è solo un suicidio della nostra specie e di ciò di cui ci piace esser circondati, che lascia piuttosto indifferente una natura sempre pronta a reinventarsi e rigenerarsi.
A tal proposito, vorrei chiudere segnalando uno dei pochi dati positivi che si è potuto cogliere in questi ultimi anni sul territorio abruzzese: vittime della denatalità e dello spopolamento, i cacciatori si stanno estinguendo prima delle loro prede, per cui si assiste a un consistente aumento di animali selvatici. Ovunque, in montagna e talvolta fin giù lungo le strade, è sempre più frequente imbattersi i lupi, cervi, volpi, cinghiali, istrici, tassi, grifoni. Chissà se, dalla crisi attuale, non nascerà una nuova generazione di governanti e governati che abbia l’intelligenza di ripartire da queste forme di ricchezza che solo il nostro territorio è in grado di offrire?
In tutto questo disastro. di Giovanni Iacomini | 1 settembre 2017 http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/09/01/abruzzo-dagli-incendi-alle-infrastrutture-vivi-ogni-giorno-come-fosse-unemergenza/3829863/
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