mercoledì 5 ottobre 2016

Taranto e le altre zone inquinate dove i bambini nascono malati

Dal rapporto conclusivo dell’ultimo studio della filiera Sentieri emergono notizie preoccupanti sulla salute riproduttiva in diverse aree italiane: chi vive in certe zone ha maggiori probabilità di avere un figlio con malformazioni congenite DI VIOLA BACHINI, VISUALIZZAZIONE A CURA DI DANIELE FADDA

Dopo la diffusione di nuovi dati epidemiologici su Taranto e la minaccia da parte del sindaco di chiudere lo stabilimento, un nuovo tassello si aggiunge a delineare la situazione sanitaria ambientale della città pugliese e, in generale, dei siti contaminati del Belpaese.

Il rapporto conclusivo dell’ultimo studio della filiera Sentieri, RISCRIPRO, uscito poco tempo fa, ha valutato i rischi per la salute riproduttiva all’interno di 18 Sin, Siti contaminati di Interesse Nazionale, tra il 2004 e il 2013.
Dal rapporto emergono notizie preoccupanti sulla salute riproduttiva in diverse aree italiane: chi vive in certe zone ha maggiori probabilità di avere un figlio con malformazioni congenite. Nel Sin di Taranto i ricercatori hanno osservato nel periodo in studio complessivamente 531 casi di malformazioni congenite, 238 per 10.000 nuovi nati, un numero significativamente più alto rispetto alla media regionale. Nella città pugliese le malformazioni più frequenti colpiscono gli arti e il sistema nervoso. Nel perimetro del sito inquinato di Massa Carrara il rischio di nascere con una malformazione dell’apparato digerente è del 66% più alto rispetto alla media regionale, in quelli di Manfredonia e Mantova addirittura di oltre l’80%.

Gran parte delle zone analizzate nello studio sono inquinate a causa di attività industriali - alcune ancora attive altre chiuse recentemente, come nel caso di Gela, o da molto tempo come Massa Carrara. Il terreno e la falda di questi terreni sono contaminati a diversi livelli e aspettano da anni una bonifica.

Per lo studio, i ricercatori si sono basati sui Registri delle malformazioni congenite, che nel nostro Paese coprono, a diversi gradi, solo alcune regioni. Lo studio ha così analizzato siti inquinati inclusi in sei Regioni della penisola: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Campania e Sicilia.

Trattandosi di malattie rare, anche l’aumento di pochi punti percentuali rispetto alle altre aree regionali può essere considerato significativo.

Le aree contaminate
Il Sin di Massa Carrara ospitava fino alla fine degli anni ’80 impianti industriali chimici a ridosso della costa. Qui, gli epidemiologi hanno osservato tra i nati il 14% di bambini in più con malformazioni congenite rispetto alla media regionale, come a Priolo e a Gela, dove i nati con malformazioni dei genitali sono rispettivamente il 50% in più e oltre il doppio del resto della Sicilia. Sempre in Toscana, a Livorno, dove nelle aree portuali sorgono raffinerie e altre industrie, le  cardiopatie congenite sono il 50% in più rispetto al dato regionale, così come nella vicina Piombino.

E poi Taranto, dove i ricercatori hanno rilevato aumenti sospetti di neonati con malformazioni degli arti e del sistema nervoso.

Le malformazioni congenite sono una delle principali cause di morte fetale e disabilità e sono dovute a una combinazione di fattori genetici e ambientali. Per Fabrizio Bianchi, epidemiologo all’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, coordinatore dello studio “Le ricerche devono essere ulteriormente raffinate, tuttavia emergono segnali che rafforzano l’ipotesi di una relazione tra le pessime condizioni ambientali di queste aree e l’aumento di casi di malformazione”.

Le bonifiche che non arrivano
Nel nostro Paese in totale sono 39 i Sin, i Siti di interesse nazionale. Queste aree, definite nel 1997 dal decreto Ronchi, sono zone contaminate che necessitano di essere bonificate. Prima del 2013 i Sin italiani erano 57, ma una ricognizione effettuata tre anni fa ha spostato la responsabilità di 18 Sin dallo Stato alle Regioni.

“Sono passati quasi vent’anni dai primi decreti istitutivi ma al momento in nessuno di questi siti la bonifica è stata completata, in molti non è praticamente iniziata - nota Bianchi -. Nel nuovo rapporto Sentieri - sebbene non conclusivo - emergono segnali sufficienti per prendere decisioni per migliorare la situazione. Più i tempi per le bonifiche si allungano, più le condizioni di salute delle popolazioni rischiano di sfuggire al controllo”.

Il rapporto aggiunge un altro tassello al quadro della salute delle popolazioni che vivono in aree contaminate. Negli anni scorsi lo studio Sentieri, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità aveva evidenziato come nelle aree più inquinate d’Italia i tumori fossero aumentati fino al 90% in soli dieci anni. “Tutti questi dati sono collegabili tra loro e con i risultati di altri studi. La conclusione è che in Italia alcune comunità hanno una maggiore probabilità di ammalarsi a seconda della zona in cui vivono. Se ci sono malattie evitabili e non si fa niente per evitarle siamo di fronte a un problema etico, di giustizia sanitaria e ambientale”, riflette Bianchi.

I costi 
Perché in vent’anni non si sono risanati i territori? “Le bonifiche procedono a rilento perché si scontrano con un sistema tecnicamente complesso, ma anche con molta burocrazia e alti costi”, spiega Bianchi. Così, mentre in altri Paesi europei come la Francia o l’Austria gli investitori anche privati si fanno carico della bonifica, portandola a termine nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia si bonificano solo piccole porzioni dei Sin, ciascuna delle quali richiede un progetto ad hoc, che deve essere approvato.

Lavorare seriamente sulle bonifiche del Belpaese significherebbe, oltre a migliorare la salute di migliaia di persone, anche “creare posti di lavoro, sviluppare tecnologie - continua l’epidemiologo - Significherebbe rendere l’Italia competitiva in un mercato mondiale che sempre più richiederà questo genere di interventi. Pensiamo a che cosa sarà la Cina nei prossimi anni, per esempio”. Invece al momento nei territori delle mancate bonifiche ci sono da fronteggiare i costi diretti e indiretti dell’aumento delle malattie e la perdita di posti di lavoro in aree che a poco a poco diventano inutilizzate.

“Dobbiamo continuare a studiare, ma già oggi i risultati delle ricerche sarebbero più che sufficienti per far partire interventi concreti”, conclude Bianchi.

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