lunedì 27 luglio 2015

L'ecomafia? Si batte cambiando la legge sulla tracciabilità dei rifiuti

Buchi normativi, budget insufficienti e assenza di coordinamento tra gli enti preposti rendono di fatto impossibile un controllo efficace sulla filiera dello smaltimento. Ecco i trucchi usati dalla criminalità

"Al momento non esiste nessuna legge sul corretto monitoraggio dei flussi dei rifiuti speciali e tossici né in Italia né in Europa”. A dirlo è Antonio Marfella, Direttore medico dell'Istituto oncologico G. Pascale di Napoli, dove si occupa dello smaltimento dei rifiuti ospedalieri radioattivi. La Ue e l'Italia hanno sottoscritto sin dal 1989 il trattato di Basilea con cui si impegnavano a migliorare e rendere più efficace il monitoraggio dei flussi dei rifiuti speciali. Ma è rimasta lettera morta, sia in Italia sia nella Ue.

In Italia i rifiuti speciali sono il 70% dei rifiuti totali. Il rimanente 30% è costituito da rifiuti urbani. Inoltre i rifiuti speciali sono molto più pericolosi e più costosi da smaltire. Eppure, paradossalmente, i rifiuti urbani sono più controllati. "I dati sui rifiuti urbani – dice Antonio Marfella – sono sostanzialmente affidabili, mentre i dati su produzione e smaltimento dei rifiuti speciali industriali e tossici sono sottostimati perché in gran parte affidati ad autocertificazioni senza controlli".

Al momento i tentativi di controllare correttamente i flussi in Italia con il Sistri (Sistema di Controllo della Tracciabilità dei Rifiuti) sono falliti. “Il Sistri non ha funzionato – ammetteAlessandro Bratti, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti – e oggi solo con il sistema cartaceo non si riesce ad avere il flusso esatto di questi rifiuti”.

Un paradosso: in un periodo storico in cui si traccia di tutto, dagli animali domestici, ai pomodori, alle cartucce delle stampanti, non si riescono a tracciare i rifiuti speciali. La possibilità di poterli fare circolare liberamente come merce, senza obbligo di trattamento di prossimità intraregionale (come invece si fa per i rifiuti urbani) è alla base del lucrosissimo giro di affari delle ecomafie.

I buchi normativi indeboliscono la filiera del controllo, come spiega Alessandro Bratti: “Più i rifiuti viaggiano e più, in assenza di un sistema di tracciabilità preciso, si ha il rischio di inserimento di attori del malaffare“.

Gli attori deputati al controllo sono vari: “Camere di Commercio, Ispra (Istituto Superiore per la Ricerca e la Ricerca Ambientale) e Arpa (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale) elaborano i dati e gli organi di controllo verificano se quanto consegnato è stato realmente smaltito, ma questi controlli arrivano dopo anni e sono poco efficaci, mentre il nuovo Sistri non è entrato in funzione e la tracciabilità dei rifiuti è ancora un miraggio”, afferma Alfredo De Girolamo, presidente di Confservizi Cispel Toscana, l'associazione regionale delle imprese di servizio pubblico, e membro del CdA di Ispra.

Gli illeciti avvengono con trucchi pressoché noti. Bratti fa qualche esempio: “Il più comune è la falsificazione dei codici. Ogni rifiuto ha un suo codice. Quando un rifiuto speciale pericoloso diventa 'non pericoloso', solo su carta, i costi di smaltimento cambiano”. E non di poco, la differenza è abissale: “Un metro cubo di rifiuto speciale radioattivo (ad esempio derivante da attività di ricerca) può costare da 4.000 a 50.000 euro - puntualizza De Girolamo - mentre una tonnellata di rifiuti urbani 100/200 euro”. Un'altra modalità usata spesso per aggirare i controlli è quella in cui “si dichiara che si trasporta una merce da raccolta differenziata, dicendo che c'è stato un trattamento e quindi che non è rifiuto, ma invece il trattamento non è stato fatto”.

I CONTROLLI 

Il quadro dei controlli è formato da un puzzle di soggetti: carabinieri, Asl, Arpa, Ispra, guardia di finanza, Corpo forestale. Benché esista una collaborazione istituzionale tra i diversi enti e soggetti interessati alla protezione dell’ambiente, “Si avverte tuttavia una sorta di diffidenza reciproca che rende la collaborazione e lo scambio di informazioni più difficoltoso” afferma Vittoria Luda, responsabile di Unicri (Istituto Internazionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine).

Anche le Arpa non comunicano tra di loro secondo un progetto normato: “Esiste un organismo denominato consiglio federale coordinato da Ispra (che è nazionale) che vede la presenza di tutti i direttori generali delle Agenzie che dovrebbe coordinare parte delle attività – ma c'è un ma, spiega Bratti – perché il tutto è su base volontaristica”.

Le differenze regionali non aiutano certo, tutte le Arpa sono diverse tra di loro. Come ci conferma Luca Marchesi direttore dell'Arpa Friuli Venezia Giulia: ”Non tutte le Arpa dispongono delle tecnologie necessarie e non sono in grado di fare le medesime attività di misura“. Inoltre le 22 Arpa hanno un budget limitato, sommandoli tutti insieme non si supera quello della Asl di Pisa. Alle risorse limitate va aggiunto che “i controlli non sono mirati: spesso le agenzie controllano le aziende più grandi, quando invece dovrebbero concentrare maggiore impegno per colpire i traffici illegali veri, concentrando risorse e tempo delle agenzie di controllo sulle aree di maggiore rischio criminalità.”

A questa condizione va aggiunta l'intensità dei controlli. E' stato evidenziato dalla Unicri che “a fronte di controlli anche molto capillari in fase di rilascio delle necessarie autorizzazioni, una volta ricevuta l'autorizzazione i controlli si affievoliscono fino a sparire”.

Le Arpa nazionali hanno natura regionale e sono diverse tra di loro, questo è necessario ribadirlo. Le differenze non sono di poco conto. A centrare il cuore del problema è Andrea Poggi, Direttore Tecnico dell'Arpa Toscana: “C'è necessità di un intervento normativo in merito al possesso della qualifica di Ufficiali di polizia giudiziaria da parte del personale di vigilanza e ispezione delle Arpa in tutta Italia”. Differenza sostanziale: nei fatti alcune Agenzie possono far agire i propri funzionari come Ufficiali di polizia giudiziaria, altre no.

Questo significa che non possono fare controlli alle aziende in modo autonomo dagli organi inquirenti e prima e non dopo che si siano materializzati gli ecoreati. Le soluzioni andrebbero studiate in base agli anelli deboli della catena di controllo. Antonio Marfella su questo punto ha le idee chiare: “Le azioni da fare sono di trasparenza e rigido controllo dei flussi e delle autodichiarazioni, intervenendo da un lato con incentivi fiscali e dall'altro con sanzioni amministrative durissime come la sospensione immediata delle attività in caso di verifica di mancato rispetto delle disposizione di legge o di falso nelle autocertificazioni”.

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