giovedì 7 maggio 2015

Greenpeace Green fashion, quando l'armadio diventa tossico

Dal fast fashion alla produzione consapevole: anche una maglietta può far male a noi e al nostro pianeta. Ma i big dell'abbigliamento mondiale stanno correndo ai ripari

Fu il New York Times a parlare per primo di green fashion, con l'articolo “The Green Movement in the Fashion World”. Ma già alla fine degli anni '80 Martin Margiela portava sulle passerelle un abito da sera realizzato grazie a tessuti riciclati. A quel tempo però gli abiti ecologici erano visti come qualcosa di "povero" e, diciamolo, poco di tendenza. Ora brand come H&M dedicano spazio a capi realizzati nel rispetto dell'ambiente e con l'impiego di tessuti organici. Lo stesso dilagare del vintageci racconta la storia di negozianti e consumatori attenti all'ambiente e alla lotta contro il fast fashion, il consumo compulsivo di abbigliamento.
Ma ci sono realtà tessili che hanno fatto del rispetto per l'ambiente un vero e proprio vessillo di qualità. Dalla pugliese Zip alla trentina Re-Bello, produrre abbigliamento eco-compatibile è diventato un business. Anche perché il "Made in Italy" non basta più: dopo aver fabbricato una borsa o una maglietta nei distretti dell'abbigliamento del Sud-Est asiatico, brand come Dolce e Gabbana ricevono il prodotto e, compiendo solo tre passaggi come l'inserimento di una zip o dell'etichetta del brand, possono dichiarare di aver fabbricato un accessorio o un capo fatto in Italia.
Ci sono aziende tessili invece che, sensibilizzate da campagne come Detox (condotta da GreenPeace dal 2011), hanno capito che per competere sul mercato nazionale e internazionale ci vuole qualcosa di più. La sostenibilità dei loro impianti e della produzione ha riacceso l'attenzione sui marchi tessili italiani.
In una panoramica generale, ad oggi sono 341.500 le aziende italiane (circa il 22%) dell’industria e dei servizi con dipendenti che dal 2008 hanno investito in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di Co2. La green economy produce 101 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 10,2% dell’economia nazionale (dati Symbola 2014).
La campagna Detox mira a portare le aziende verso l'eliminazione dalle produzioni tessili l'uso di 11 classi di sostanze chimiche tossiche. Secondo le ricerche effettuate da Greenpeace le industrie tessili rilasciano scarichi pericolosi nei principali fiumi cinesi e del Sud-Est asiatico. I distretti del tessile riforniscono grandi brand internazionali, come Nike e Adidas. La pericolosità degli scarichi di queste industrie rappresenta una minaccia per l’ambiente e la salute umana. Alcuni composti chimici infatti alterano il sistema ormonale dell’uomo, altri quello riproduttivo. Molte sostanze sono persistenti nell’ambiente perché non si degradano facilmente e si accumulano negli organismi viventi, fino ad arrivare all’uomo.
Chiara Campione, project leader della campagna #thefashionduel, ci aiuta a capire che costruire un guardaroba green oggi è possibile. Innanzitutto grazie ai risultati dell'impegno Detox. "Al momento il 18% del mercato globale del tessile ha adottato le buone prassi per l'eliminazione delle sostanze chimiche pericolose. Nei nostri test periodici sui prodotti dei marchi che si sono impegnati, non ne troviamo più, e nei marchi che non lo hanno ancora fatto ne troviamo molte meno: un vero effetto domino" spiega Campione.
Tra i brand italiani del settore tessile, in 8 hanno risposto alla chiamata della campagna di GreenPeace: sono Tessitura Attilio Imperiali (azienda tessile), Besani (tessitura a maglia),Italdenim (tessitura denim), Berbrand (bottoni), Zip Gfd (zipper), il gruppo Miroglio(abbigliamento e stampa di tessuti), Canepa (tessuti pregiati nel distretto comasco), Gritti Group(tessile). "È un segnale molto importante perché queste aziende leader nel settore tessile italiano hanno capito che l'eliminazione delle sostanze chimiche pericolose, sta diventando un vantaggio competitivo". Gli effetti di questo impegno sono già visibili (guarda l'infografica). Inoltre, a distanza di quattro anni, la campagna Detox ha anche portato aziende come il gruppo Miroglio a incrementare gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione degli impianti e dei cicli produttivi.
Valentino e Benetton, ad esempio, sono brand leader nella campagna Detox. Mentre Versace, Armani e Dolce e Gabbana restano indietro. Per spingere i consumatori verso acquisti sostenibili e consapevoli GreenPeace ha organizzato la Sfilata Detox, un sito in cui sono elencati tutti i brand attivi nella produzione tessile sostenibile, tutti quelli che si stanno adeguando e tutti quelli che invece si rifiutano di ripulire i loro capi dalle sostanze tossiche. Una vera guida per il consumatore consapevole.
Tra i veleni scaricati nell'ambiente per produrre, ad esempio, una maglietta di cotone, bisogna fare attenzione a 11 classi di sostanze. Tra questi Chiara Campione ci mette in guardia su ftalati, perfluorurati e alchilfenoli. "I primi ammorbidiscono la plastica e persistono nell'ambiente, inserendosi nella catena alimentare. Li assorbiamo nel cibo e indossando questi capi. Siamo riuciti a farli eliminare per legge dall'abbigliamento per bambini, ma vengono ancora usati in quello per adulti. Composti come i perfluorurati e gli alchilfenoli non si degradano facilmente e si accumulano nell'ambiente e nel nostro corpo, e sono capaci di interferire con il funzionamento del sistema endocrino. Abbiamo trovao queste sostanze anche nel latte materno! Inoltre un recente studio ha rilevato che quasi l'8% delle malattie dermatologiche dipendono da queste sostanze contenute nei vestiti".
Le buone pratiche che le aziende tessili devono adottare per creare filiera e prodotti sostenibili sono tre. Il Prinicipio di Prevenzione e Precauzione: se non si sa che una sostanza fa male all'ambiente e all'uomo, non si deve utilizzare. Il Diritto all'Informazione: le filiere produttive devono essere trasparenti e quindi tracciabili. "Le aziende Detox devono chiedere a tutti i loro fornitori di pubblicare le analisi degli scarichi nelle acque", spiega Campione. Infine, c'è il Principio dell'eliminazione: bisogna portare allo 0% le sostanze chimiche pericolose presenti nei cicli produttivi.
Il vero deus ex machina di questa riconversione green della produzione tessile resta però ilconsumatore. "Oggi per fortuna la rete offre molte informazioni a coloro che vogliono acquistare consapevolmente, ma purtroppo le etichette sui capi che compriamo ci dicono ancora molto poco. Ma la maggiore consapevolezza dell'utente finale ha portato i produttori a inserirne sempre di più. Se ad esempio acquistiamo un Made in Europe, sappiamo che sarà stato prodotto secondo lanormativa REACH, che disciplina l'uso delle sostanze chimiche in tutta la produzione industriale europea. Mentre prodotti di importazione, come quelli che troviamo anche sulle bancarelle a poco prezzo, non devono rispettare questa normativa", ci spiega Chiara Campione.
Nemmeno la scelta del tessuto ci può salvare dal comprare un indumento tossico "perché non è il tessuto in sé a essere dannoso, il problema sono i processi produttivi. Il solo modo per acquistare consapevolmente è conoscere l'azienda che lo produce". Ma il vero consumo tessile consapevole parte da una prima riflessione che Chiara Campione fa con amarezza: "Consumiamo troppo". Quindi meglio comprare meno, ma meglio. Non abbiate paura degli swap party: potreste trovare un capo stupendo fra quelli che una vostra amica non mette più. In poche mosse avrete un guardaroba più legggero, qualitativamente migliore ma, soprattutto, amico dell'ambiente.
 https://it.notizie.yahoo.com/green-fashion-greenpeace-112433130.html

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