martedì 27 febbraio 2024

il fatto quotidiano di domani. La sconfitta elettorale della destra. VENTO DI SARDEGNA: I GIALLOROSA RIPARTONO DA TODDE (E DAL M5S SENZA IL CENTRO)

 tratto da https://www.ilfattoquotidiano.it/fq-newsletter/il-fatto-di-domani-del-27-febbraio-2024/

La giornata in cinque minuti

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VENTO DI SARDEGNA: I GIALLOROSA RIPARTONO DA TODDE (E DAL M5S SENZA IL CENTRO). Non sono bastate 24 ore per contare i 730 mila voti espressi nelle elezioni in Sardegna. Forse non ne basteranno 48, in questo conclamato flop del caricamento dei numeri da parte dei Comuni nel sistema informatico regionale. Oggi pomeriggio il dato parziale arrivava a 1825 sezioni scrutinate su 1844 con la governatrice in pectore Alessandra Todde che allunga sul suo avversario diretto Paolo Truzzu, al 45,4% contro il 45%, mentre Renato Soru resta all’8,6% (e Lucia Chessa all’1%). Il dato politico, però, è consolidato già da ieri sera: ha vinto Alessandra Todde, la candidata unitaria dell’opposizione, espressione del M5S e appoggiata dal Pd di Elly Schlein. A tarda notte, ieri, Giuseppe Conte e la segretaria dem hanno rivendicato il risultato, un po’ perché inatteso, un po’ perché dà vitalità all’opposizione: “Cambia il vento”, ha esultato Schlein, “l’aria è cambiata” ha ribadito Conte. Quanto sia cambiata l’aria, in un voto dove sembrano aver pesato molto le fratture interne al centrodestra, lo vedremo sul Fatto di domani con un’analisi dei flussi di voto. M5S e Pd danno al risultato sardo come una valenza nazionale. Todde ha dichiarato che la sua elezione “è la risposta dei sardi ai manganelli” (di Pisa e Firenze). E ora tra i giallorosa si guarda all’Abruzzo, che va al voto domenica 10 marzo, dove però la vittoria del presidente uscente di Fratelli d’Italia Marco Marsilio è molto meno contendibile. Anche se una nota del Pd, nell’isola classificato primo partito (segue FdI), oggi assicura “il campo largo può vincere anche qui”. Ma nel campo largo sardo non c’era il “centro” di Azione e Italia Viva: la prima, schierata con Renato Soru, si è fermata a un irrilevante 1,5%, la seconda non si era neanche presentata con il simbolo. Basterà a seppellire la fantomatica agenda Draghi anche nel Pd?


“TUTTA COLPA DI MELONI”, CHE DÀ LA COLPA A TRUZZU. A DESTRA SI INCRINA LA LEADERSHIP DI FDI. Una sconfitta personale di Meloni. L’opposizione non ha dubbi su questa analisi. Ma a quanto pare lo pensa anche un pezzo di maggioranza: quello che fa capo alla Lega di Matteo Salvini, che aveva dovuto accettare obtorto collo la scelta di candidare il meloniano Truzzu al posto del governatore uscente Christian Solinas, esponente del partito sardo d’azione alleato del Carroccio. “Quando cambi un candidato in corsa è più complicato”, ha dichiarato a caldo Salvini, che poi si è affrettato ad aggiungere: “Non sarò mai quello che, quando le cose vanno bene, è merito mio e quando le cose vanno male è colpa degli altri”. Il suo partito porta a casa un misero 4%, ma anche un vantaggio morale da far valere all’interno della coalizione: dimostrare a Meloni che non può fare tutto da sola. La triade di maggioranza, però, dopo un vertice tra Meloni, Antonio Tajani e Salvini stamattina, ha deciso di adottare una linea comune: il problema è locale, la colpa è di Truzzu e non dei partiti nazionali. “Da queste elezioni non emergerebbe in Sardegna un calo di consenso per il centrodestra. Ma rimane una sconfitta sulla quale ragioneremo insieme per valutare i possibili errori commessi”. Tesi che, in qualche modo, sembra dare ragione a Salvini. Dalle prime analisi del voto risulta che almeno 6000 sardi, ma probabilmente molti di più, hanno scelto il voto disgiunto, cioè hanno votato una lista di centrodestra ma come candidato presidente non hanno messo la croce su Truzzu (preferendogli in molti casi Renato Soru). Il meloniano Giovanni Donzelli minimizza, dice che sull’isola “il voto disgiunto c’è sempre stato”, ma resta il fatto che quella era l’indicazione che circolava tra le fila della Lega, secondo le indiscrezioni pre-voto. Meloni ha scelto di comparire davanti alla stampa estera, a cui ovviamente le elezioni sarde interessano molto poco. Sul Fatto di domani, racconteremo cosa si sono detti i leader di centrodestra dietro le quinte.


GUERRA UCRAINA-RUSSIA: CORO DI NO ALL’IPOTESI DI MACRON SULL’INVIO DI TRUPPE, MA L’EUROPA AUMENTERÀ LE SPESE MILITARI. L’ipotesi avanzata dal presidente francese Macron durante la riunione a Parigi sulla possibilità di una presenza militare europea in Ucraina per contenere l’avanzata della Russia ha suscitato pareri negativi, sebbene oggi l’Eliseo abbia precisato che l’eventuale invio di truppe “non significa belligeranza” ma piuttosto l’utilizzo di soldati in opere di sminamento e sviluppo di materiale bellico. Il Regno Unito non ha intenzione di inviare militari in Ucraina, quanto meno non “su vasta scala”, precisa il premier Sunak. Londra finora ha sempre sostenuto di essersi limitata a mandare in Ucraina istruttori o consiglieri militari, negando qualsiasi coinvolgimento al fronte. Anche Germania e Ungheria prendono le distanze dalla Francia “Ciò che è stato concordato fin dall’inizio vale anche per il futuro, vale a dire che non ci saranno truppe di terra, né soldati inviati sul suolo ucraino dai paesi europei o gli Stati della Nato”, ha affermato il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Il primo ministro polacco, Tusk, chiarisce: “La Polonia non ha piani per inviare le sue truppe in territorio ucraino”. Anche l’Italia, con il ministro Tajani, è contraria: “Quando si parla di inviare truppe bisogna essere molto prudenti perché non dobbiamo far pensare che siamo in guerra con la Russia. Noi non siamo in guerra con la Russia, ma difendiamo l’Ucraina”. Quello su cui invece in Europa sono concordi, è che bisogna aumentare le spese militari, perché la guerra in Ucraina, e la tenuta della Russia che dopo due anni conquista terreno, fanno rivedere i piani per il futuro. Sul Fatto di domani leggerete altre notizie: l’agenzia Bloomberg ha ottenuto la bozza di un documento che la Commissione europea presenterà la prossima settimana, sottoscritta dalla Banca europea per gli investimenti, per incrementare le spese e la produzione di materiale bellico.


ISRAELE-GAZA, GLI USA: TREGUA DA LUNEDÌ. NETANYAHU RESTA SORPRESO, PER HAMAS L’ANNUNCIO “È PREMATURO”. Il presidente americano Biden prende in contropiede il premier israeliano Netanyahu e annuncia la possibilità che una tregua tra l’esercito israeliano e Hamas possa iniziare già da lunedì prossimo. Secondo l’emittente Abc, il primo ministro è rimasto “sorpreso”. Sono noti i contrasti tra i due: Biden, che oggi ha ribadito: “Se Israele non cambia rotta perderà il sostegno del mondo”, aveva già detto che estendere le operazioni militari su Rafah sarebbe un errore; Netanyahu insiste che invece sono necessarie per eliminare i battaglioni degli estremisti islamici che si nascondono a sud della Striscia. Alla notizia diffusa da Washington, Hamas replica: “Prematuro” indicare una data per il cessate-il-fuoco. Intanto trapelano altri particolari sulla bozza di accordo: una tregua di 40 giorni e lo scambio di prigionieri e ostaggi in rapporto di 10 detenuti palestinesi per ogni ostaggio rilasciato. Il 7 ottobre, giorno della strage compiuta da Hamas, oltre a 1.200 vittime i miliziani portarono via più di 300 persone. Ora, Hamas dovrebbe liberare circa 40 ostaggi, compresi donne, persone sotto i 19 anni o con più di 50 anni e malati, in cambio di circa 400 detenuti palestinesi, la riapertura degli ospedali e dei panifici a Gaza e l’ingresso di carburante. Ai residenti di Gaza, tranne gli uomini in età da combattimento, sarebbe permesso di tornare a casa nelle aree evacuate. Nello scambio sono previste 15 soldatesse israeliane per un certo numero di combattenti di alto profilo, che sono detenuti. Nel frattempo, in Israele si svolgono le elezioni comunali: un voto che soffre della situazione di guerra, con i soldati che esprimono la loro preferenza al fronte. Alle 15 di oggi aveva votato il 26,6% degli elettori, nel 2018 allo stesso orario si era recato alle urne il 32,6%. Sul giornale di domani leggerete altri particolari anche sull’altro fronte, quello con il Libano, dove l’Idf ingaggia ogni giorno scontri a fuoco con Hezbollah, l’entità politico-militare sostenuta dall’Iran.


LE ALTRE NOTIZIE CHE TROVERETE

Denis Verdini torna in carcere. È stato trasferito stamattina nel carcere di Sollicciano a Firenze, dopo la revoca della detenzione domiciliare. All’ex senatore di Ala è stato contestato di aver violato le prescrizioni del tribunale di sorveglianza partecipando a tre cene in ristoranti della Capitale mentre scontava nella villa di Pian dei Giullari la condanna definitiva a 6 anni per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino.

Liberati tre italiani ostaggi in Mali. Stanotte sono stati liberati tre cittadini italiani: Rocco Langone, la moglie Maria Donata Caivano e il figlio Giovanni Langone, sequestrati il 19 maggio 2022 nella loro abitazione in una città a sud est della capitale del Mali. Il rapimento era avvenuto da parte di una fazione jihadista riconducibile al JNIM, Gruppo di supporto per l’Islam e i musulmani allineata con al-Qaeda.

Navalny, arrestato il suo avvocato. E il team rilancia l’iniziativa “Mezzogiorno contro Putin”. L’avvocato Vasily Dubkov, che ha difeso Alexei Navalny e ha accompagnato la madre Lyudmila in Siberia per ottenere la restituzione del corpo del dissidente, è stato fermato a Mosca. Il legale, secondo alcune Ong, è accusato di aver violato l’ordine pubblico. Intanto il team di Navalny lancia un appello: il 17 marzo tutti alle urne alle 12 in punto: è questa la forma di protesta alla quale Leonid Volkov, capo dello staff di Navalny, ha invitato i russi nel giorno delle elezioni presidenziali, il 17 marzo. Si tratta dell’ultima iniziativa che era stata lanciata da Navalny, prima di morire – le cause sono ancora ignote – il 16 febbraio nel carcere siberiano dove, da oppositore di Putin, stava scontando 19 anni di detenzione.


OGGI LA NEWSLETTER FATTO FOR FUTURE

Noury (Amnesty): “Transizione? Le batterie per l’auto sono sporche del sangue dei minatori”

di Elisabetta Ambrosi
“Ancora oggi nessuno è in grado di garantire che una batteria di un’auto elettrica sia prodotta senza violazione dei diritti umani. Per l’acquirente che è in buona fede questo può essere anche scioccante, perché pensa di fare una scelta ecologica e giusta per poi scoprire che, magari, per quella scelta si sono ammalati o sono morti dei bambini”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, punta il dito su un tema scomodo e conflittuale, quello dei costi umani della transizione. E aggiunge: “È vero, il 10 luglio scorso il Consiglio europeo, anche sulla spinta di Amnesty, ha varato il nuovo regolamento per rendere le batterie più sostenibili – puntando sull’economia circolare, sul contrasto del lavoro minorile e introducendo una sorta di passaporto della batteria– ma ancora si tratta di una decisione che sta sulla carta, bisogna vedere come verrà adottata. E comunque bisogna agire ancora di più sulla trasparenza della filiera e sulla coscienza dei consumatori, un po’ come facemmo negli anni Novanta per i diamanti”.
(continua a leggere)

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