06 marzo 2017
Quanto deve costare una tonnellata di CO2? Come vanno impiegati i ricavi delle misure di carbon pricing?
Mentre l’Europa entra nel vivo del suo dibattito istituzionale per riformare il mercato del carbonio ETS (Emissions Trading Scheme), la Banca Mondiale rilancia la discussione a un livello ancora più ampio, citando un recente documento della Carbon Pricing Leadership Coalition (allegato in basso) sulle politiche che a vario titolo colpiscono le emissioni inquinanti.
Parliamo non solo dei sistemi di tipo cap-and-trade come l’ETS europeo (vedi QualEnergia.it sui più recenti sviluppi di questo meccanismo), che prevede lo scambio di quote di CO2 per migliaia d’impianti industriali grandi consumatori di energia, ma anche degli strumenti fiscali volti a penalizzare l’utilizzo dei combustibili più “sporchi”.
In Francia, ad esempio, c’è la componente "carbonio" aggiunta alle accise domestiche dei prodotti energetici, proporzionale al rispettivo contenuto di CO2.
La Gran Bretagna sta applicando il carbon price floor (CPF) nel mercato elettrico, il prezzo minimo per la singola tonnellata di carbonio che ha dato la spallata decisiva alla crisi del carbone, favorendo al contempo l’ascesa del gas naturale e delle rinnovabili, come spiegato in questo articolo.
Introdurre una carbon tax nazionale è impresa tutt’altro che semplice. La Francia, nell’ambito del suo piano di transizione energetica verso le tecnologie pulite, vorrebbe inasprire il costo della CO2 con un prezzo di 56 €/tonnellata entro il 2020, ma una simile tassa è vista di cattivo occhio da diversi settori industriali (vedi QualEnergia.it per approfondire il caso francese).
Per l’Italia, ha spiegato il nostro direttore scientifico Gianni Silvestrini, sarebbe il momento giusto per adottare una carbon tax, inserendola in un piano generale di riforma della fiscalità, spostando la tassazione dal lavoro alle risorse energetiche più inquinanti, come ha indicato la Commissione europea.
Intanto il ministero dell’Ambiente ha pubblicato il catalogo dei sussidi dannosi, oltre 11 miliardi di € in totale, tra cui le varie esenzioni dalle accise sui carburanti fossili.
Il documento della Carbon Pricing Leadership Coalition illustra vari modi per distribuire i ricavi generati dalle politiche di prezzo della CO2 (56 miliardi di $ nel 2015 a livello globale).
L’obiettivo è “caricare” sulla tassazione energetica le esternalità negative, soprattutto i costi sociali e ambientali delle fonti fossili, utilizzando il gettito fiscale aggiuntivo per ottenere altri benefici.
Lo schema sotto (cliccare per ingrandire) riassume pro e contro per le diverse scelte.
Vediamo in sintesi le sei opzioni per utilizzare i proventi della CO2:
- Ridurre altre tasse, ad esempio quelle sul lavoro e sulle imprese, per favorire lo sviluppo economico e dell’occupazione, oltre a stimolare la competitività delle aziende.
- Finanziare interventi di efficienza energetica nelle abitazioni, soprattutto per le famiglie a basso reddito; promuovere corsi di formazione per i lavoratori delle industrie colpite dalla fiscalità ambientale, aiutandoli a ricollocarsi in altri settori.
- Concedere sgravi fiscali alle aziende penalizzate dall’aumento dei costi energetici, perché più esposte alla concorrenza delle imprese straniere che non devono sottostare alle medesime restrizioni ambientali (rischio carbon leakage). Sostenere gli investimenti in efficienza energetica e fonti rinnovabili di queste aziende.
- Ridurre il debito pubblico.
- Finanziare attività di vario genere: educazione, trasporti, sanità pubblica, eccetera.
- Istituire fondi per l’innovazione tecnologica nel campo della green economy, a livello nazionale oppure internazionale, ad esempio fondi mirati alla crescita delle economie emergenti.
06 marzo 2017 http://www.qualenergia.it/articoli/20170303-carbon-pricing-sei-modi-utilizzare-al-meglio-i-ricavi-della-co2
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