domenica 8 settembre 2013

la concretezza del pacifismo contro le guerre

LA CONCRETEZZA DEL PACIFISMO di Massimo Bonfatti http://www.progettohumus.it/public/forum/index.php?topic=2135.0 Alcuni affermano che il pacifismo è al servizio dei dittatori; altri che è ipocrita (come afferma il prof . Aldo Giannuli: “C’è sempre un principio generale invocando il quale ci si autorizza a calpestare tutti gli altri. Basta scegliere quello che fa più comodo. E questo vale per gli stati e per le anime belle del pacifismo non violento, che non sono meno ipocriti degli stati”). Penso invece, forse in maniera schematica e diretta (tanto da far rabbrividire gli esperti di strategie militari o gli analisti geopolitici) che il pacifismo (almeno quello che intendo io) è molto concreto: è un pacifismo non solo basato su slogan ideali, ma che ragiona e denuncia. Il primo soggetto da tenere in considerazione in ogni conflitto è la popolazione civile, fatto che sottintende il dovere di stare dalle parte delle vittime della violenza proveniente (come nel caso della Siria) da entrambi i fronti. Invocare la concretezza di ogni singolo caso (come in Siria, appunto) per mediare l’intervento più idoneo - tipo la minima violenza – può sembrare il male minore. Ma questo è quanto vogliono fare credere. “Imporre la pace” in Siria usando missili Tomahawk armati di uranio impoverito vuol dire eliminare armi chimiche (inserite nell’elenco delle armi di distruzione di massa) con armi radioattive che hanno, al contrario, un risultato ancor più letale e duraturo, ma che semplicemente non sono catalogate nella “black list”. La “distruzione di massa” è solo un dettaglio di classificazione? La concretezza vuole, invece, che si imponga con forza (nel senso di “determinazione”) l’ingerenza della negoziazione, tramite un corpo multinazionale di interposizione che salvaguardi la popolazione e crei le condizioni di ingerenza “neutrale” per un patto negoziale anche minimo e per la sorveglianza nel tempo della sua applicazione. La difficoltà di questa soluzione non sta – però - nel pacifismo, ma negli interessi contrapposti dell’Est e dell’Ovest che hanno armato l’arsenale del dittatore siriano. O riteniamo che la concretezza sia il tacito consenso fra le parti sugli affari realizzati e sulla necessità di intervenire in un secondo tempo per poi nuovamente ritornare a riarmare, non importa quale fazione? Mi pare, invece, che sia più concreto un pacifismo in grado di rammentare, per esempio, che l’Italia è stato il primo esportare europeo di sistemi militari in Siria: nel primo decennio del 2000 un gruppo di Finmeccanica ha ottenuto una commessa da 131 milioni di euro per ammodernare i carri armati russi in forza all’esercito siriano fornendo componenti per i puntatori dei carri armati T-72. E così l’Italia è stata il primo esportatore europeo di sistemi d’arma verso la Siria, dietro solo agli alleati storici di Assad (Russia, Bielorussia, Iran) e davanti alla Repubblica Ceca. Anche per quanto riguarda le licenze militari concesse alla Siria, l'Italia è stata prima seguita da Regno Unito, Austria, Francia, Germania, Grecia e Repubblica Ceca. E non è forse concreta un’informazione (o controinformazione) che ricorda che le forniture italiane hanno preso avvio dal 1998 quando gli Stati Uniti di Bill Clinton scommisero sul giovane Assad, delfino designato dal padre, ritenendo che giunto al potere, avrebbe potuto riportare la Siria nel novero delle nazioni civili? E, grazie a questa preveggenza geopolitica, la Siria uscì dalla lista nera dei Paesi produttori di stupefacenti, furono cancellate alcune sanzioni e, fra esse, fu attenuato l’embargo alla vendita di armi. Ma, a parte ciò, che dire, infine, delle armi fornite ai ribelli siriani dagli USA, armando così, di fatto, quelle frange di Al Qaeda che rappresentano la parte più consistente e determinata nel volere deporre Assad? Vogliamo ritenere che questa irresponsabilità sia sinonimo di concretezza e di un nuovo pacificato ordine mondiale? Che dire, quindi, della popolazione civile che si troverà in preda ad atti di terrorismo e a bande sapientemente istruite e adeguatamente armate (forse loro stesse – o anche loro - con gas sarin). Che dire, guarda caso, della indignazione preventiva di Usa e Francia? Nessuno ha notato che in Siria le manifestazioni sono scoppiate il 12-13 marzo 2011, prima a Daràa e poi a Damasco e che, mentre queste venivano represse, il 15 marzo - come riportato da molte agenzie internazionali - “gli ambasciatori di USA e Francia si sono recati ad Hama a prendere contatto con i ribelli”? E’ forse impeto di astratto idealismo essere un po’ scettici sull’indignazione del 21 agosto (che invece dovrebbe essere vera indignazione verso queste povere vittime da armi chimiche come pure verso tutte quelle che le hanno precedute)? E, andando oltre, non è forse reale affermare che l’indignazione per il massacro dei civili nasconde una dura competizione geopolitica per il controllo del petrolio mediorientale e dei gasdotti? Che dire della scelta del gasdotto Iran-Iraq-Siria sostenuta da Assad al posto della pipeline proposta qualche anno fa dal Qatar che, dall'ultimo suo giacimento al Nord, ai confini con il giacimento di South Pars in Iran, attraverso l'Arabia Saudita, la Giordania, la Siria e la Turchia, avrebbe rifornito di petrolio i mercati europei, di fatto aggirando la Russia? E se non bastasse, tanto per essere più concreti: nel rapporto 2008 “US Army-funded RAND, Unfolding the Future of the Long War” (https://thepiratebay.sx/torrent/8876431/) si afferma che "le economie dei Paesi industrializzati continueranno a dipendere pesantemente dal petrolio, rendendolo così una risorsa di importanza strategica”. Siccome, in un prossimo futuro, la maggior parte del petrolio sarà prodotto in Medio Oriente, gli Stati Uniti hanno "motivo di mantenere la stabilità e buone relazioni con stati del Medio Oriente”. Ed infine, drammaticamente: “L'area geografica delle riserve petrolifere accertate coincide con la base di potere di gran parte della rete salafita -jihadista. Ciò crea un collegamento tra le forniture di petrolio e la lunga guerra, complicata e difficile da chiudere...Nel prossimo futuro, la crescita della produzione mondiale di petrolio e l'offerta totale saranno dominate dalle risorse del Golfo Persico...la regione resterà quindi una priorità strategica, e questa priorità è fortemente legata a quella di proseguire la lunga guerra". Dall’altra parte Putin, ovviamente, non ha nessun interesse ad essere “scavalcato” e nel vedersi sottrarre una così importante area di influenza geopolitica a svantaggio degli interessi energetici russi. E’ Assad che fa paura o – invece - preoccupa l’ostinazione del pacifismo nella sua ricerca testarda e costante dei pretesti che si nascondono dietro le guerre e che sono la prima causa del massacro di civili? Le armi chimiche, l’uranio impoverito, il gas, il petrolio stanno per caso dalla parte dell’inerme popolazione civile? Con una scelta di intervento militare non si andrà da nessuna parte, ma si darà avvio alla continuazione della guerra sotto altra forma. Non c’è alternativa all’ostinazione della richiesta di un intervento politico negoziale, cominciando da un importante intervento umanitario sotto l’egida di forze di pace multinazionali di intermediazione che creino il primo cuscinetto fra i contendenti. E bisogna intervenire subito con questa strategia altrimenti vincerà l’illusione criminale di ucciderne (ma, in maniera selezionata!) pochi adesso per poi – successivamente - spegnere i riflettori e tacitare la coscienza internazionale occultando le future e maggiori vittime in ordinarie cronache di massacri diluiti nel tempo, ma meno indignanti e imprevedibili (sigh!) “effetti collaterali” derivanti dai processi di “pacificazione” messi virtuosamente in atto dall’iniziale e inevitabile intervento armato. In Iraq, per esempio, dopo l’intervento armato degli Stati Uniti – anche in questo caso per deporre un dittatore - la situazione non é migliorata. La violenza è in costante aumento: nel mese di agosto, secondo quanto riferito dalle Nazioni Unite, sono state uccise 804 persone in attacchi terroristici e, dall’inizio dell’anno, i morti sono stati quasi 5mila. Purtroppo la carta dell’indignazione è già stata giocata! In Libia, dopo i raid Nato del 2011 – e anche in questo caso per deporre un dittatore – sono aumentati gli omicidi politici, vige il caos politico amministrativo con città governate da semplici gruppi locali, scorribande di gruppi armati sono all’ordine del giorno, persistono focolai di guerra nella regione meridionale del Fezzan tra le forze governative e le ultime bande di lealisti, si sono rinfocolati forti attriti fra le milizie armate della Tripolitania e della Cirenaica che stanno costringendo - paradossalmente se pensate alle risorse del sottosuolo libico - ad importare gasolio e olio combustibile: e in questo contesto frammentato ed anarchico, dominato dall’incertezza e dalla povertà, le organizzazioni estremiste di ispirazione qaedista continuano a trovare un terreno fertile per le proprie attività di reclutamento, addestramento e finanziamento. Era questo il fine umanitario dell’intervento “democratico” per liberare un popolo? In Kosovo, dopo i pesanti raid Nato del 1999, l’indipendenza è stata pagata al caro prezzo dell’eredità dell’uranio impoverito: 113 località sono state colpite nel 1999 dalle forze Nato con munizioni all'uranio impoverito. In alcuni territori, rispetto a prima dei bombardamenti, l'aumento delle affezioni di natura maligna tra i civili ha raggiunto punte del 200% e il numero di malati è salito da un livello annuo dell'1,9% al 5,2%. E quali sono stati i risultati della scelta interventista? La società Envidity, gestita da Westley Clark, già comandante delle forze Nato in Europa, è in procinto di accaparrarsi una licenza per estrarre diesel sintetico di alta qualità - 100.000 barili giornalieri per 1,5 miliardi di euro – da quei terreni che nel 1999 fece bombardare. Ed ancora: la prima società statunitense a introdursi nel Kosovo “liberato” fu il colosso Halliburton Energy, di cui è stato amministratore l’ex vice-presidente americano Dick Cheney e che ora ha l’appalto per la costruzione di Camp Blondsteel, una gigantesca base americana di 84 km di filo spinato di circonferenza. Nel Kosovo che, dopo il 1999, è rimasto il paese più povero dell’area balcanica ed è diventato, ancor più di prima, covo di criminalità e traffici inconfessabili, sta per avere avvio la faraonica costruzione dell’autostrada Pristina-Skopje che avrà fra i maggiori costruttori l’impresa edile americana Bechtel Group. E mi fermo qui. Lo stesso vale per la Russia, per la Cina e per le grandi potenze: basta cambiare i nomi, ma il risultato degli interventi armati non cambia. Non è il numero delle vittime che fa la differenza: l’indignazione è direttamente proporzionale agli interessi di parte in gioco; l’indignazione è un optional umanitario da utilizzare come pretesto e lasciapassare per le armi. Quando mai la Comunità Europea ed internazionale si sono “indignati”, come per la Siria (ovvero sostenendo la necessità di un’indignazione militare), per le 250.000 vittime in Cecenia o per le decine di migliaia di vittime in Tibet? La mia modesta esperienza pacifista nel Nord Caucaso (non violenta e, più che altro, indirizzata verso la riconciliazione) mi ha insegnato che gli interventi di pacificazione sono molto più difficili e complessi laddove esistono, radicate nel tempo, contrapposizioni interetniche ed interreligiose: in questi casi la scelta delle armi, per quanto nefasta sia già di suo, è peggiorativa perché finisce sempre per armare - per fronti diversi - le parti in conflitto, innescando un meccanismo senza fine, non solo in grado di scalzare ogni tentativo di mediazione, ma di giustificare – all’uopo - successive interposizioni militari. Ma mi anche insegnato che il dialogo è possibile (ricordo gli incontri condotti fra giovani ingusci, osseti e ceceni dopo la strage di Beslan) e che esso – purtroppo - è fragile ed é preda dei provocatori di turno. Ma questa fragilità si può vincere e superare se il percorso di “confidence building” intrapreso non diventa portatore di interessi di parte e riesce a conciliare verità con giustizia unitamente al superamento degli stereotipi e della memoria negativa del passato. E così pure il Medio Oriente è un crogiolo di gruppi etnici e religiosi contrapposti e per questo l’intervento armato può innescare una diffusione del conflitto nell’area creando e sollevando pretesti mai spenti sotto la cenere e che diventano pane per il terrorismo fondamentalista. Aumenteranno poi i profughi e con la diaspora i livelli di povertà e la rabbia verso i paesi opulenti che hanno aggredito e hanno peggiorato lo stato delle cose: un boomerang preoccupante e pericoloso anche per chi si ritiene lontano ed estraneo ai conflitti. E’ pericolosa la rabbia di chi, in assenza o povertà di cibo, si è nutrito di sentimenti di odio verso il “ricco”, chiunque esso sia! Certo, la lobby delle armi non permette a un capo di stato di essere sentimentale e la pressione dei suoi consiglieri è quanto di meno obiettivo ci possa essere. Abbiamo avuto modo di capire che le politiche militari sono un semplice asservimento al gioco delle parti e quindi un’aberrazione patologica della vera politica (quella che dovrebbe pensare al bene comune). Per questo riaffermo che portare avanti le ragioni del pacifismo è, oltre che concretezza allo stato puro, l’unica maniera per non abituarsi al fatto e al sempre più imperante luogo comune che non esista altro sistema che le armi per risolvere le controversie, non solo internazionali, ma anche nazionali. Questa é la vera sfida concettuale e concreta che deve sostenere il pacifismo: contrastare una globalizzazione di pensiero che vuole omologare la regolazione dei conflitti (sia interni che esterni) alla scelta delle armi, indipendentemente dalla superpotenza coinvolta o degli stati ad essa collegati.. Il pacifismo può essere sopraffatto solo con la morte dell’opinione pubblica e, quindi, della democrazia, di cui la Pace ne è diretta conseguenza: questa è, inoltre, l’unica possibilità per non esser complice dei crimini della storia. Continuiamo, quindi, ad esercitare la nostra democrazia che per noi è il diritto/dovere alle scelte pacifiste: ne abbiamo tutte le ragioni e tutti gli strumenti. Continuiamo a parlare, a denunciare, a fare circolare la verità: senza paura! Massimo Bonfatti Presidente di Mondo in cammino www.mondoincammino.org

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