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mercoledì 25 marzo 2015
Il petrolio ha sgonfiato la bolla dello shale oil
MIRAGGI L’estrazione dalle rocce non è più conveniente ora
che i Paesi produttori tengono basso il prezzo del greggio
E gli investimenti negli Stati Uniti stanno già crollando di Fabio Scacciavillani
N
el braccio di
ferro tra il cartello
di Paesi
produttori
Opec e gli Stati
Uniti sulle
quote mondiali del mercato petrolifero
le compagnie a stelle e strisce
iniziano a mostrare la corda. Passata
la sbornia di retorica sulle meravigliose
prospettive economiche
aperte dal petrolio da scisti (shale),
le sagome della realtà cominciano
ad affiorare in una luce crudele.
Lo sfruttamento dei giacimenti doveva
rappresentare l’avvento di
una nuova era di abbondanza energetica,
secondo i media e l’a m m inistrazione
Obama. Invece è il canto
del cigno dell’estrazione di idrocarburi
in America, un’attività con
una storia gloriosa alle spalle, dipanatasi
tra drammi e successi per
200 anni. Ma ormai i costi di produzione
di un barile di petrolio negli
Usa in dieci anni o poco più
sono triplicati nonostante il progresso
tecnologico. La frattura
idraulica delle rocce (f ra c k i n g ) e la
trivellazione orizzontale sono l’u ltimo
disperato sforzo di raschiare il
fondo dei depositi continentali
nordamericani da cui si ottengono
qualità mediocri a costi insostenibili.
Si tratta di operazioni dispendiose
il cui bilancio energetico
(l’energia ottenuta al netto
dell’energia impiegata nell’e s t r azione
e trasporto) è a malapena positivo.
LA CRUDA EVIDENZA di questo
inesorabile declino è riflessa nei
numeri: il totale del gas da scisti
estratto finora ammonta a due anni
di fabbisogno dell’economia americana,
mentre il petrolio da scisti
ammonta a meno di un anno di
fabbisogno. E il futuro non è certo
radioso: secondo le stime del ministero
dell’Energia Usa, le attuali
riserve di gas sono equivalenti al
consumo interno di 8 anni e quelle
di petrolio al consumo di tre anni.
L’Opec, e in particolare l’Arabia
saudita, recita da mesi queste cifre a
memoria (congiuntamente alle
preghiere) in attesa che l’insoste -
nibile pesantezza dei costi di produzione
negli Usa riequilibri il
mercato mondiale a loro favore.
Proprio in questi giorni sembra arrivato
il punto di svolta. L’Energy
Information Administration,
(l’Agenzia del governo statunitense
che compila informazioni, dati e
analisi) ha riportato che ad aprile la
produzione totale di petrolio da
shale nei grandi bacini di Eagle
Ford in Texas e Niobrara nelle
Grandi Pianure è prevista in diminuzione
di oltre 24mila barili al
giorno. Da 15 settimane il numero
di piattaforme di trivellazione (oil
rig) negli Usa è in caduta libera: la
scorsa settimana ha raggiunto quota
1069, rispetto ai 1803 di un anno
fa e al picco di 2031 registrato nella
tarda estate del 2008 – appena prima
della bancarotta di Lehman
Brothers. Analogamente le piattaforme
di trivellazione per il gas sono
scese a 242, il minimo dal 1993 e
un buon 80% in meno rispetto al
record dell’estate 2008. In estate la
produzione americana potrebbe
diminuire di 500 mila barili al giorno.
IN DEFINITIVA LE COMPAGNIE
petrolifere americane oberate di
debiti non trovano più le risorse
finanziarie per sostenere una produzione
che ai prezzi attuali risulta
in molte zone in perdita. Le grandi
società petrolifere come Chevron,
Shell ed ExxonMobil hanno tagliato
gli investimenti e hanno praticamente
abbandonato i progetti
per l’estrazione di idrocarburi da
shale al di fuori degli Stati Uniti.
Nonostante i depositi di petrolio
siano stracolmi in Usa (ormai il
greggio viene stoccato sulle petroliere)
e all’80% in Europa e Giappone
L’effetto di questo traumatico
aggiustamento dell’offerta sui prezzi
del petrolio non sarà immediato
e comunque il processo di normalizzazione
dei prezzi verso gli 80
dollari al barile (che rappresenta un
livello di equilibrio di lungo periodo)
non sarà lineare. Nelle ultime
settimane infatti le oscillazioni sono
state abbastanza pronunciate.
COME ABBIAMO imparato da
quasi mezzo secolo, il prezzo del
petrolio risente dei fattori geopolitici.
Il negoziato con l’Iran è arrivato
ormai alle battute finali. La
decisione strategica di firmare un
compromesso è stata presa sia a
Washington che a Teheran e adesso
si tratta di far ingoiare ai falchi
di entrambi gli schieramenti (incluso
Israele) il rospo indigesto.
Con la fine delle sanzioni l’Iran
(che fa parte dell’Opec) potrebbe
dare un nuovo impulso alla propria
produzione e alla propria economia
debilitata, ma non è chiaro
quali tempi occorreranno. In primo
luogo la rimozione delle sanzioni
potrebbe essere graduale e
legata ad obiettivi verificabili. In secondo luogo rimettere in sesto i
pozzi petroliferi iraniani e le infrastrutture
di trasporto è impresa
ardua dopo anni di incuria. E poi
le convulsioni sui vari fronti di
guerra, dall’Iraq alla Libia, dove il
petrolio è a tutti gli effetti l’arma
più efficace. Di fronte alla prospettiva
di mesi poco sereni gli intermediari
tengono le pillole di calmanti
a portata di mano. il fatto quotidiano 25 marzo 2015
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