domenica 3 novembre 2013

Smaltimento rifiuti ed evasione fiscale, per il nuovo business i clan cambiano volto

NOTA BENE: La battaglia per la non costruzione dell’inceneritore dei Castelli Romani e per la chiusura e la bonifica della discarica di Albano Laziale è prima di tutto una questione di civiltà. Interrare e bruciare rifiuti nel 2013 significa abbandonarsi ancora a logiche sostanzialmente preistoriche o spesso speculative nel trattamento dei rifiuti solidi urbani. I cittadini dei Castelli Romani si battono da anni a 360° in modo assolutamente civile (come è giusto e doveroso che sia) per far avviare nel loro comprensorio un ciclo virtuoso dei rifiuti basato su raccolta differenziata porta a porta e riciclo a freddo con recupero di materia. Cose assolutamente possibili ed economicamente convenienti per molti, in primis per amministratori e cittadini. Una battaglia durissima e spinosa condotta per la legalità, per la salute pubblica e, soprattutto, nel vero ed unico interesse della comunità. Ogni vita umana ha un valore estremo e alta dignità, va pertanto protetta la sua salute e va protetto, quindi, l’ambiente nel quale essa vive. Sviluppo si, quello vero però!
_(Fonte articolo, La Repubblica inchieste, clicca qui) Il traffico di rifiuti ha bisogno di facce pulite. Commercialisti, avvocati, imprenditori. Professionisti, loquaci e col vestito buono, in grado di sedersi ai tavoli con politici e industriali senza che questi avvertano la puzza di mafia, di camorra, di affare sporco. Sono i broker ingaggiati dai clan. Intermediari, sensali dei rifiuti. Figure moderne nate per risolvere “problemi” collaterali della produzione, dello sviluppo. Offrono un servizio – il servizio – alle aziende. Figure centrali nel business dei rifiuti. Lavorano di fino, giocano sul filo della legge.  Si muovono nel Paese, lo attraversano da Sud a Nord, cercando clienti che desiderano abbattere i costi dello smaltimento delle scorie prodotte dalle loro imprese. Oppure imprenditori che evadono il fisco e perciò costretti a scaricare illecitamente parte dei rifiuti per eludere i controlli incrociati che confrontano produzione, vendita e tonnellate di spazzatura smaltite.
Il profilo. Nel codice di comportamento non scritto del broker dei rifiuti vige una regola: mai palesare il nome e l’organizzazione mafiosa per cui si lavora. Evitare frasi kitsch da film sulla mafia anni ’50: “Mi manda don Raffaele”. I tempi sono cambiati. Gli affari e la legge anche. Al centro più che il rispetto, l’onore, le regole, ci sono gli affari. E per farli crescere l’atteggiamento è fondamentale. Ecco perché chi si occupa di trafficare rifiuti tenta in tutti i modi di celare metodi criminali con modi di fare apparentemente legali. Gli intermediari si presentano negli uffici delle imprese del nord Italia e propongono l’offerta. Parlano di costi, tempi, luoghi. Descrivono nei dettagli i mezzi che utilizzeranno e il vantaggio competitivo che ne deriva affidandosi a loro. Non una parola sui reali beneficiari del business, né sul nome del datore di lavoro. I broker di professione non impongono il servizio mettendo in soggezione l’imprenditore, minacciandolo e indicandogli il nome del clan per cui operano.
Tranquillizzare il cliente. Una tecnica di marketing che tranquillizza il futuro cliente, che si spaventerebbe se consapevole di avere davanti un emissario in giacca e cravatta dei clan. Così l’imprenditore può solo immaginare dove andranno a finire quei rifiuti smaltiti a costi bassissimi, ma ricevute le dovute rassicurazioni a parole la sua coscienza ritrova la tranquillità e la necessaria determinazione per affidarsi ai manager della spazzatura stipendiati dalle cosche. Far finta di non sapere aiuta a superare le paure prodotte più dallo spettro di un’inchiesta che da questioni etiche e di salvaguardia dell’ambiente. “Esistono varie tipologie di broker”, osserva Sergio Costa, comandante provinciale del Corpo Forestale di Napoli e profondo conoscitore del territorio e dei traffici illeciti di rifiuti. “Operano figure con competenze transnazionali, professionisti affermati, nella gestione dei rifiuti di grosso livello, si parla di società, di consigli di amministrazione, di fatture. Lo stesso sistema che esiste per l’evasione fiscale esiste per i traffici internazionali. Poi c’è il livello micro territoriale, più ruspante, di chi fa l’intermediario sul territorio. In realtà la figura del sensale, dell’intermediario, del broker è un metodo che vale per tutte le attività e traffici”.
Si paga cash e in nero. I boss utilizzano i broker per chiudere contratti legali. I manager uniscono due mondi quello della impresa e della politica con il sistema mafioso.  I personaggi di spicco della camorra non possono partecipare a riunioni dove siedono persone colpite da provvedimenti. Quindi scelgono persone insospettabili, professionisti, facce pulite. Nel momento in cui vengono “assunti” ai broker viene dato il mandato di firmare i contratti. Sanno perfettamente quanto e fino a dove potevano spingersi. I pagamenti li ricevono cash, tutto in nero. E in caso di inchiesta la strategia è già decisa: i mediatori devono fare la parte delle vittime di estorsione o di usura. Perché il boss accetta senza fiatare una condanna per estorsione e usura ma vuole a tutti i costi mantenere segreto il business dei rifiuti (che prevede reati punibili con pene molto più gravi).
Trattano le facce pulite. Al tavolo delle trattative non siedono i boss ma le loro facce pulite. Il capo camorra comunica con il broker. E il “manager della monnezza” comunica con l’imprenditore che deve smaltire le tonnellate di rifiuti illeciti. Il primo conosce soltanto il secondo e il secondo interloquisce con il terzo, senza specificare per chi lavora. La gestione del business è a compartimenti stagni. I padrini sono gli unici a conoscere nomi e cognomi dei professionisti a loro servizio. i soldati dell’organizzazione non sono tenuti a saperlo. Anzi se fanno troppe domande rischiano di finire male. Questo serve a limitare i danni nel caso di blitz e indagini. Carmine Schiavone, pentito di primissimo livello, in una delle sue prime ricostruzioni ricorda quando nel 1988 propose a suo cugino Francesco Schiavone “Sandokan” di seppellire rifiuti a Casale. “Ma che vogliamo avvelenare il nostro Paese?”, rispose sdegnato. Ma i suoi buoni propositi cambiarono in fretta, e dopo appena un anno la grande famiglia Casalese entrò nel business trascinata dai compari di affari Bidognetti.
I re del disastro ambientale. È l’inventore dell’ecomafia profondo conoscitore della politica nazionale e locale. Il mediatore che ha trasformato in oro e denari per il clan montagne di spazzatura e scorie industriali. L’uomo che ha escogitato il meccanismo delle società commerciali – scatole vuote – per gestire il business della spazzatura. Questo e altro ancora è Cipriano Chianese, sotto processo a Napoli per disastro ambientale e truffa ai danni dello Stato insieme ai boss del clan dei Casalesi e a Gaetano Cerci, inserito in ambienti massonici della P2 e legatissimo al boss Francesco Bidognetti, alias “Cicciotto ‘e mezzanotte”. Rischiano una pena altissima per avere avvelenato le falde acquifere. Il periodo oggetto dell’inchiesta è quello che va dal 1985 al 2004. Vent’anni di veleni, scorie, liquidi industriali. I continui sversamenti nella discarica di proprietà di Chianese, la Resit di Giugliano, hanno prodotto un danno ambientale enorme. Una catastrofe. E per la prima volta in un processo sulla ecocamorra viene contestato l’omicidio dell’ambiente. Il massimo della pena prevista è 30 anni di carcere. Il dato storico è che per la prima volta un capomafia qual è Bidognetti viene indicato come il killer di un intera comunità. Un danno di immagine che potrebbe produrre effetti devastanti per i padrini, sempre attenti ad apparire in veste di salvatori del popolo, e ora accusati di avvelenamento. Indicati dalla pubblica accusa come i portatori di mali incurabili e tumori mortali.
Migliaia di tonnellate di veleni. Chianese, appoggiato dal clan Bidognetti, ha, secondo la procura antimafia di Napoli, interrato nella discarica non impermeabilizzata 806mila 509 tonnellate di rifiuti. Ben 30mila provenivano dalla Acna di Cengio, il che vuol dire residui e scorie pericolose derivanti dagli impianti chimici liguri. Il problema invece che risolverlo è stato spostato da Cengio a Giugliano. Gli esperti della procura hanno calcolato che quella massa di rifiuti pericolosi ha prodotto 57mila tonnellate di percolato, l’elemento che produce il danno peggiore, il quale lento scivola nel terreno e contamina le falde acquifere. La punta massima di inquinamento sarà raggiunta nel 2064, ma produrrà effetti fino al 2080. Per questo è necessaria una bonifica rapida e immediata. Che ancora non è partita.
Una storia durata nel tempo. La storia di Chianese e dei camorristi assassini dell’ambiente inizia tra l’88 e l’89. Secondo i magistrati è durata almeno 20 anni. Chianese lanciò l’idea di creare una società, una scatola vuota, senza mezzi e strutture produttive, chiamata Ecologia 89. Nella gestione diretta entrò anche il massone Cerci. “Attraverso la società Ecologia 89 e altre analoghe strutture hanno creato la copertura formale alla gestione mafiosa dello smaltimento  dei rifiuti”. “Operavano in regime di monopolio e consentivano lo smaltimento abusivo in discariche campane, in particolare nelle aree di Giugliano, di quantitativi ingenti di rifiuti in un arco temporale snodatosi tra il 1988 e il 1994″, si legge negli atti giudiziari. Il modello organizzativo fu quello scoperto con l’indagine Adelphi. Processo poi in parte azzoppato dalle assoluzioni ma che ha ricostruito per la prima volta il sistema messo in piedi dai Casalesi per gestire il business dei rifiuti. Già allora Cipriano Chianese veniva indicato come il fondatore dello smaltimento rifiuti in Campania.
Cambiano le rotte. “Il traffico di rifiuti si può dividere in due momenti storici”, spiega a Sergio Costa. “Il primo è quello del traffico da Nord a Sud, proseguito fino al 2000, col tempo diminuito di pari passo con l’alzarsi della soglia di attenzione da parte degli investigatori e dei cittadini. I rifiuti hanno seguito questa direttrice per  25 anni”. Poi qualcosa è cambiato, all’inizio del nuovo millennio e con rischi sempre maggiori i boss e i loro broker hanno mutato strategia.  “La mia sensazione è che lo spartiacque è stato il nuovo millennio. Oggi scopriamo discariche precedenti al 2000, nel traffico da Nord a Sud i rifiuti venivano interrati, c’era bisogno di un’organizzazione strutturata. Oggi per esempio troviamo anche rifiuti che da Sud vanno verso Nord: la raccolta del ferro, i metalli non bonificati, che arrivano in Lombardia (Bergamo e Brescia) e nell’est Europa. Il fatto che non si muovano da Nord a Sud non vuol dire che non sia finito il traffico. Per esempio una rotta che oggi i manager dei rifiuti scelgono è quella verso i paesi in via di sviluppo. Dove la corruzione è diffusa e l’attenzione minore. Ci sono i paesi balcanici e alcuni stati dell’Africa”.
Destinazioni lontane. I rifiuti partono dai porti italiani per raggiungere destinazioni lontane, competenza esclusiva di broker internazionali, o meglio, “manager della monnezza”. Le nuove frontiere dello smaltimento o del riciclo dei rifiuti si sono spostate a Oriente, Cina e Hong Kong. “Il traffico di rifiuti transfrontaliero è in rapida crescita, soprattutto in direzione della Repubblica Popolare Cinese e Hong Kong”, si legge nella relazione della Commissione parlamentare. Le  attività investigative del Nucleo ecologico dei Carabinieri hanno individuato organizzazioni criminali che attraverso alcune società del settore dello smaltimento dei rifiuti sparse nelle regioni italiane, spedivano rifiuti in plastica camuffandoli alle dogane di Salerno e Gioia Tauro, come materie prime. “Sarebbero poi state riutilizzate nei paesi orientali per la produzione di merci per il mercato europeo. Una volta acquistati i rifiuti in plastica presso varie imprese italiane, l’organizzazione si limita a pressarli e ridurli di volume e con apposite dichiarazioni il materiale era trasformato, da rifiuto in materia prima”. In realtà la merce veniva acquistata mediante denaro contante da intermediari specializzati, “consapevoli che in realtà si trattava di rifiuti speciali”. Le spedizioni sono poi organizzate tramite imprese di comodo di Hong Kong. Con la complicità di titolari di agenzie di spedizionieri di Bari, Napoli e Salerno, vengono prodotti documenti fasulli che certificano una normale spedizione di merci. E il gioco è fatto.
Imprenditori riciclati. Nel 1999 si chiude in secondo grado il processo Adelphi. Reati prescritti per gran parte delle figure centrali dell’inchiesta. Prescrizione anche per Gaetano Cerci e Luca Avolio. Se di Cerci tanto si è detto e continua a essere protagonista nel dibattimento assieme al broker Chianese, Avolio è scomparso dalla scena giudiziaria dopo Adelphi. Nonostante una dettagliata informativa del 1996 della Criminalpol di Roma-rimasta per lungo tempo nei cassetti della Procura e oggi, dopo 16 anni, acquisita nel processo contro Chianese in cui sono elencati i contatti, le società e le telefonate tra Avolio e i manager dei rifiuti. Un dossier successivo all’inchiesta madre della ecomafia Casalese ma con dati allarmanti. Stessi nomi e cognomi, massoneria, aziende del Nord. Il copione è lo stesso. In più ci sono le dichiarazioni di un altro pentito, un nome pesante del Clan, Carmine Schiavone, cugino del super boss Francesco Schiavone “Sandokan”. Dichiarazioni inascoltate, quasi snobbate dai giudici che non hanno inserito la sua audizione nelle motivazioni della sentenza. Carmine Schiavone nel lontano 1994 “descriveva con dovizia di particolari” accordi tra i vertici del Clan e Cipriano Chianese, l’avvocato, “sia Gaetano Cerci che Chianese sono massoni. Anche Chianese frequentava il circolo massone di Aversa del quale ho già detto”.
Informazioni preziosissime. Il collaboratore rovescia sul tavolo dei magistrati napoletani un mare di informazioni preziosissime. “Una fotografia dai contorni netti e nitidi delle varie fasi attraverso cui si realizzavano le attività legali della camorra: un vero e proprio ciclo compiuto che inizia dallo sventramento dell’ambiente approvvigionandosi di materiale per le costruzioni e termina con lo sversamento di enormi quantità di rifiuti di vario genere negli immensi crateri”, scrivono i detective della Criminalpol di allora. Carmine Schiavone indica anche luoghi e zone esatte. Dichiarazioni che non saranno sufficienti a far condannare Chianese nel procedimento Adelphi. In quella informativa di 17 anni fa compare il nome della Bohemia Sud. “Punto di raccordo tra i settori masson-affaristici di Napoli e Caserta” per quanto riguarda la gestione dei rifiuti. In liquidazione dal 1995, la Bohemia Sud è, secondo gli investigatori dell’epoca, la propagine campana della Bohemia con sede a Roma. Ufficialmente commerciano macchine per l’industria, in realtà i poliziotti le descrivono nel loro rapporto come centri di gestione del traffico.
Intrecci societari. Un altro elemento, mai utilizzato nei processi processo, salta agli occhi rileggendo quegli atti ormai datati. Una delle società di Chianese, intestate alla moglie, ha sede nella stessa via e allo stesso civico della Bohemia Sud diretta espressione di Luca Avolio. Imputato nel processo Adelphi perché titolare della Alma, la società di gestione della discarica di Villaricca (Napoli). Una delle discariche insieme alla Resit di Chianese da cui è iniziata la storia delle ecomafia campana. Entrambe, si legge nelle informative, utilizzate per lo sversamento dei veleni di mezza Italia. Condannato in primo grado, il salvagente della prescrizione l’ha salvato in appello. In quel procedimento c’erano indagati eccellenti. Dal fratello dell’ex ministro Gava al deputato Altissimo, fino a un assessore liberale, Raffaele Perrone Capano, assolto per falso in secondo grado e prescrizione per i reati di corruzione e abuso d’ufficio. Oggi la Bohemia Sud è in liquidazione, ma Avolio insieme ad altri imprenditori risulta nella compagine societaria del Consorzio Ecologico Italiano, con l’ufficio nella centralissima via Toledo a Napoli. Si occupa di smaltimento rifiuti. Anche se non risulta operativa per conto della Sapna, l’ente provinciale che si occupa della gestione integrata dei rifiuti.
Nuovi patti. Sono passati più di dieci anni dalla conclusione del primo processo sull’avvelenamento delle terre di Gomorra. Vent’anni dalle dichiarazioni esplosive e inizialmente sottovalutate di Carmine Schiavone. E solo nel 2011 Cipriano Chianese, il re e primo broker dei rifiuti è stato incastrato. Ma la storia amara di avvelenamento non finisce con Chianese. Ci sono nuovi intermediari, nuove rotte, nuove società. Nuovi patti. E metodi più raffinati hanno permesso di continuare i traffici nonostante la pioggia di sequestri e arresti. I grandi business si decidono negli studi di commercialisti e di avvocati con la passione per “la monnezza” e il disprezzo per l’ambiente.
Questione di fatturato. Anche perché senza “monnezza” il clan muore. Correva l’anno 2001. La polizia accerta il versamento di 30????mila euro a un clan di Mondragone, Caserta. “Contributo significativamente incidente sull’attivo del bilancio mafioso, rappresentando infatti circa i 2/5 dell’intero fatturato annuale relativo alle entrate ordinarie”, si legge nell’ultima relazione della Commissione sul ciclo dei rifiuti. Pentiti hanno parlato di miliardi di vecchie lire,  un quarto del fatturato del Clan dei Casalesi. Cifre impressionanti non scritte su libri contabili ufficiali. Dalle parole del pentito Gaetano Vassallo, principale accusatore di Nicola Cosentino e imprenditore dei rifiuti per i Casalesi, si comprende bene l’entità dell’affare: nel periodo d’oro tra gli anni ’80 e ’90 i clan guadagnarono, solo da Vassallo, la somma complessiva di due miliardi di lire, con incassi di circa 10 miliardi di lire per lo smaltitore. Ecco perché il business fa gola al Clan. E alle mafie.Dallo sversamento nelle discariche e nei terreni agricoli, al controllo della gestione del ciclo dei rifiuti urbani (il caso del Consorzio Eco4 in cui è coinvolto il politico Nicola Cosentino, referente politico della camorra Casalese) e ora il pericolo di infiltrazione nelle bonifiche dei terreni contaminati che gli stessi clan hanno avvelenato. Ci sono segnali in questo senso. Ma le attività degli inquirenti sono blindate dal massimo riserbo.

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