venerdì 4 marzo 2016

Ma la cocaina resta la regina della 'ndrangheta

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/03/03/news/il_nuovo_mondo_dei_narcos-132704241/#commento
di ANDREA PALLADINO
ROMA - Dieci è il numero chiave della rete dei narcos. Dieci è il moltiplicatore dei guadagni, dal produttore al grossista. Dai laboratori andini della coca, o dai campi afghani, primi produttori di oppio, ai magazzini delle periferie di Roma, la città italiana dove più gira la “bianca”. In mezzo c'è un esercito di broker, riciclatori, corrieri, colonnelli dei cartelli, capi decina, jihadisti, politici corrotti e stati canaglia. Tutti costantemente online sulle chat dei BlackBerry, dove si usa una nuova lingua che mescola spagnolo, portoghese, italiano e inglese. Frasi veloci, pin identificativi scambiati con codici segreti, nickname da b-movie. C'è  Spiderman, Modà, Beep beep, Pavarotti, Verdi, Mozart, Giotto. E poi, sul lato opposto dell'Atlantico, El leon, Soy yo, Noel, Eric Berne. Un sistema fluido, veloce, capace di cambiare rotta in pochi minuti, in grado di controllare linee commerciali imbottendo container o il corpo di disperati disposti a fare da “mulo”. Piccoli carichi, porti sconosciuti, vie che attraversano il deserto del Sahara dove comandano le bande di quella rete criminale che conosciamo come Isis. Oppure, sul lato occidentale, dominando le strade desolate della baixada santista, quell'area periferica cresciuta attorno alla grande San Paolo dove regna il PCC, Primeiro comando da Capital, il feroce cartello brasiliano nato vent'anni fa dentro le carceri, mutuando metodi e organizzazione dalle mafie italiane.

Rete fluida. E' un mondo lontano da quello della "Pizza connection" di Gaetano Badalamenti, l'inchiesta che unì negli anni '80 l'allora procuratore Rudolph Giuliani e Giovanni Falcone. La rete fluida del sistema criminale mondiale delle droghe è oggi il giusto milieu di gente come Gregory di Corona, al secolo Gregorio Gigliotti. Feroce e 'ndranghetista. Niente Rolls-Royce, maglietta di cattivo gusto, un banale Suv parcheggiato davanti al suo ristorante “Cucino a modo mio”, nel Queens. Con un arsenale pronto a sparare dietro il bancone, o in grado di saltare in padella a pranzo pezzi di organi di chi ha tradito. Quando i magistrati della Dda di Reggio Calabria lo hanno individuato – insieme ai colleghi di New York, nell'operazione Columbus - come organizzatore dei traffici di cocaina dagli Usa all'Europa, hanno coniato l'espressione “new bridge”, il nuovo ponte che ha sostituito il vecchio link degli anni '70 e '80. Allora l'eroina viaggiava tra Sicilia e Usa: l'oppio semilavorato partiva dalla Turchia, entrava nelle raffinerie di eroina dei corleonesi, finiva tra i tavoli delle pizzerie gestite dalle famiglie storiche di Cosa nostra emigrate un secolo fa negli States. Gigliotti faceva il percorso inverso, la coca la comprava dai narcos in Costa Rica, la faceva passare per i porti statunitensi del Dalaware, per poi spedirla in Calabria o nel porto di Rotterdam, dove sono stati sequestrati 3 mila chili di cocaina collegati – secondo la Direzione nazionale antimafia – al suo gruppo. Nonostante i numeri da brivido Gregory di Corona non è un generale. E' solo uno dei tanti broker della 'ndrangheta in giro per il mondo. Un terminale di una rete ampia, fluida, in grado di riparare immediatamente i nodi tagliati. Se uno cade, c'è già chi è pronto a prendere il posto. Pronti ad alleanze in grado di far girare la bianca ovunque.
 

Africa connection. Lo chiamano athtub Speed, Cadillac Express, Gagger, Go Fast, Goob, Jee cocktail, Jeff, Mulk, Mulka, Quicksilver. Più conosciuto come Cat, con il nome scientifico di Mephedrone, è il clone sintetico del Khat vegetale, la droga più diffusa nel corno d'Africa. Secondo i rapporti delle Nazioni unite del 2014 ha una diffusione ormai capillare nell'intero continente africano, dove viene prodotto in laboratori clandestini. Passa poi per l'Olanda e alla fine arriva anche nelle nostre strade. L'indicatore che non lascia spazio ai dubbi è l'aumento vertiginoso del mercato dei precursori chimici, le sostanze indispensabili per ricavare il Cat. Ma è solo la punta di un iceberg immenso, fatto soprattutto di polveri bianche. Cocaina. Ma anche eroina, la nuova arrivata sulle rotte a sud del Sahara.

L'Africa è divenuta negli ultimi dieci anni il vero crocevia dei trafficanti, con il primo – drammatico – risultato dell'esplosione dei numero dei consumatori. E' la strada che hanno percorso gli altri snodi delle rotte della cocaina e degli oppiacei: si crea un mercato interno, che alla fine si sposa e si amalgama con le vie dei trafficanti. Già all'inizio del nuovo millennio l'Africa occidentale era divenuta la destinazione dei narcos, soprattutto brasiliani. Avere una piattaforma più vicina al mercato europeo, protetta da governi molto spesso compiacenti, è la chiave utilizzata dai cartelli, a occidente e a oriente. Le tracce delle rotte si perdono e si confondono, i grandi carichi si parcellizzano in tanti rivoli e l'incrocio con gli altri traffici – di armi, diamanti, commodities – può moltiplicare gli affari.  

E' l'eroina la vera regina dei traffici africani, mentre cala – secondo l'agenzia delle Nazioni unite UNODC – il flusso della cocaina. Tra Kenia e Tanzania negli ultimi cinque anni sono stati sequestrati complessivamente almeno 3 tonnellate di carichi, alcuni dei quali sarebbero stati controllati dai miliziani di al-Shabaab, gli alleati dello stato islamico in Somalia. Questo flusso si incrocia sulle vie del deserto con l'antica rotta della cocaina, il cui valore di mercato – secondo il segretario generale delle Nazioni Unite – ha raggiunto nel 2013 la cifra di 1,3 miliardi di dollari per il solo continente africano.

Piattaforma logistica. La Nigeria, mostrano gli ultimi dati delle Nazioni Unite, si è trasformata in una sorta di piattaforma logistica delle droghe. I primi corrieri iniziarono a trasportare i derivati della foglia di coca almeno una quindicina di anni fa, appoggiandosi alla grande comunità nigeriana presente nella città di San Paolo in Brasile. Pochi controlli al largo delle coste, dogane aeroportuali facilmente superabili e un certo effetto sorpresa hanno giocato a favore della nuova via dell'Africa occidentale. Da qui i viaggi verso il mercato europeo si dividono in tanti rivoli. C'è la via di terra, che segue il meridiano 10, passando per la città di Agadez in Niger, centro Tuareg divenuto lo snodo da dove partono le vie del deserto. Uranio, profughi e droga hanno sconvolto questa città patrimonio dell'Unesco che negli anni '80 era una meta turistica di eccellenza, tappa della Parigi Dakar. Le vie tradizionali del Sahara sboccano sulle coste del Maghreb, punti di partenza per l'ultimo viaggio verso i mercati europei. Ci sono poi i viaggi aerei dei “muli” disposti a inghiottire decine di ovuli di coca o di eroina, sperando di bucare i controlli agli arrivi negli aeroporti internazionali portoghesi, spagnoli, italiani. Ed è una questione di statistica: una buona parte ci riesce e i carichi che si perdono sono alla fine irrilevanti. I trafficanti si affidano poi al mare, utilizzando i container o le stive di piccole barche a vela, in grado di sbarcare nei piccoli – e poco controllati – porti turistici. Vie che oggi, accanto agli ormai tradizionali e consolidati carichi di cocaina, sono utilizzate per la nuova ondata di eroina, che sta iniziando ad invadere di nuovo l'Europa.
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Tra Santos e Gioia Tauro. Gestisce carichi da record - quasi 4 tonnellate di coca in un solo sequestro – con un arsenale di armi automatiche per proteggere i carichi. Il cartello più feroce del Brasile dei record di omicidi ed esecuzioni sommarie, il Primeiro comando da Capital, in sigla PCC, può contare su un vero esercito. Spietato, disposto a mettere a ferro e fuoco l'intera città se il governo non si piega ai diktat dei padrini reclusi; con una rete di almeno 6000 affiliati arruolati nelle carceri e 1200 in libertà, controlla il porto di Santos, il principale del Brasile, antico punto di partenza del caffè. Una copertura che è in grado di garantire ai broker internazionali della cocaina la gestione delle spedizioni verso l'Africa, gli Usa e l'Europa.

Terminale. Santos è il terminale finale della rotta che parte dai laboratori andini di Perù, Bolivia, Venezuela e Colombia, attraversa le strade amazzoniche per raggiungere i magazzini di stoccaggio della grande San Paolo, la zona più urbanizzata del Brasile. La rotta finale verso Gioia Tauro è la più gettonata, grazie all'alleanza win-win con i broker delle famiglie calabresi. Lo scorso giugno l'operazione del Gico di Catanzaro Santa Fè – costola di un analogo blitz in Brasile, “Overseas” - ha ricostruito un pezzo del mondo dei narcos fedeli alleati della 'ndrangheta. In Calabria era Antonio Femia a raccogliere tra le famiglie affiliate i soldi per gli acquisti, un gruppo che, secondo la Dda di Reggio Calabria, manteneva il comando dell'intera filiera. Sulle chat si faceva chiamare “Scarface”, “El rey” o un “Un toro y 7 vacas”.

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A gestire i contatti giusti in Brasile erano lo spagnolo José Ramon Alvarez e l'uruguaiano Claudio Marcelo Soto Rodriguez, collegati con il trafficante “Dido”; i terminali finali erano due colombiani, che garantivano i rapporti con cartelli dei produttori. L'area del porto era l'affare affidato ad uno dei leader della cellula del PCC nella baixada santista, tale André do Rap, l'interfaccia con i portuali, capaci di scegliere la nave giusta dove infilare la coca. La tecnica per l'invio utilizzata era nuova: nessun grande carico, appena una paio di borsoni con al massimo 100 chili, infilati in container esclusi dai profili di rischio della Agenzia delle dogane (ad esempio contenitori vuoti), con un sigillo clonato pronto per essere utilizzato dopo un veloce recupero nel porto di arrivo. E se a Santos era il PCC a fornire gli appoggi giusti, in Italia un gruppo di funzionari del porto di Gioia Tauro chiudevano più di un occhio. Uno sbarco discreto e sicuro. Una filiera camaleontica, flessibile e invisibile.

La nuova minaccia è il narcoterrorismo
Lo chiamano narcoterrorismo. E' l'alleanza che si sta creando sul campo tra le reti della jihad globale e i cartelli dei narcotrafficanti. La rotta africana dell'eroina è senza dubbio il fronte più delicato, con le milizie legate allo stato islamico in grado di garantire logistica e supporto armato in cambio di narcodollari. I primi a lanciare l'allarme sono stati i russi, che lo scorso anno nel consiglio di sicurezza delle Nazioni unite stimavano in quasi un miliardo di dollari annui il fatturato di Is derivante dal traffico di droga. Ma il patto tra jihadisti e narcos nasce a monte, tra i campi di papavero in Afghanistan.

Fino al 2001 l'oppio era considerato dai leader talebani comeharam, contrario all'Islam. Poi, lentamente, le cose sono cambiate. Nella prima fase – che è durata fino a tre, quattro anni fa – i talebani guadagnavano solo indirettamente dalla produzione dell'oppio, imponendo una tassa ai contadini e facendosi pagare per la protezione dei convogli che attraversano le zone controllate dai miliziani islamisti. Secondo il rapporto Unodoc del 2009, ai talebani finivano in tasca 22 milioni di dollari all'anno dai raccolti e 70 milioni di dollari per la protezione dei trasporti. Dal 2011 la strategia è cambiata. Secondo una recente inchiesta del New York Times, l'attuale leader dei Talebani, Mullah Akhtar Muhammad Mansour, è oggi all'apice della piramide tribale Ishaqzai, ovvero i tradizionali signori dell'oppio afghano. Grazie ai soldi derivati dalla partecipazione diretta nel narcotraffico, Mansour sarebbe riuscito a mettere a tacere gli oppositori interni conquistando la leadership.

L'altro segnale che gli investigatori stanno approfondendo è la contiguità che in Europa contraddistingue le cellule terroristiche. Molto spesso gli islamisti collegati allo Stato islamico hanno una storia personale con il mondo del traffico di droga. Una convergenza che rende ancora più difficili le indagini: sistemi finanziari occulti, organizzazioni radicate all'estero, in paesi dove la cooperazione giudiziaria è di fatto impossibile, nessuna fonte interna ed una compartimentazione difficile da penetrare.(an. pa.)


Fonte:http://www.unodc.org/

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