lunedì 1 dicembre 2014

Da Chernobyl alla guerra: l’inferno dei bimbi a Kiev PER LE BOMBE SONO CHIUSE O DANNEGGIATE 45 STRUTTURE.

NELLA CAPITALE
SONO ARRIVATI
I MALATI DI
TUTTO IL PAESE.
LA SITUAZIONE
È DRAMMATICA
COME DONARE
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di Milano. Indica nome, cognome e indirizzo e
la causale “Emergenza Ucraina”.
L’ONG SOLETERRE
DENUNCIA:
I PICCOLI NON
HANNO FARMACI,
MUOIONO ANCHE
PER UN’INFEZIONE.
E MOLTE FAMIGLIE
NON HANNO
PIÙ NEANCHE
UNA CASA”
di Alessandro Ferrucci, Lorenzo Galeazzi

e Vauro Senesi
inviati a Kiev (Ucraina)
Due rampe di scale, un odore pungente,
un mix tra disinfettante, chemioterapico
e candeggina. Per chi lo
conosce, quell’odore, è inconfondibile,
la nausea assale anche al solo ricordo. Alla
fine dei gradini c’è una porta bianca e di metallo,
al centro la scritta “neurochirurgia infantile”.
Varcata la soglia, solo penombra. Non
è una metafora rispetto al pudore, al dolore, è
realtà: “Oggi è sabato, dobbiamo risparmiare
sulla corrente, dobbiamo centellinare su ogni
voce. Siamo in guerra. Siamo in Ucraina”,
spiega il medico di turno. Camice blu, nessuno
stetoscopio al collo come stereotipo vorrebbe,
voce bassa e sguardo deciso, il dottor Svyst
Andriy è uno dei responsabili del reparto: “In
questo momento sono ricoverati 45 bambini,
quando i posti sono 35, qui eravamo in difficoltà
già prima del conflitto, ora è il dramma:
non abbiamo medicinali, sono insufficienti le
camere sterili, possiamo solo scrivere le ricette
e sperare che i genitori siano in grado di procurare
i farmaci”. Procurare, la parola chiave.
Vuol dire arrangiarsi, vuol dire vendere qualunque
cosa, ripensare alle priorità della vita,
relativizzare, tutto diventa superfluo e funzionale,
dalla casa all’auto, pur di recuperare la
cifra necessaria e acquistare i medicinali, anche
attraverso il mercato nero, un mercato alimentato
dalle stesse farmacie
degli ospedali – spiega Damia -
no Rizzi, presidente della Ong
Soleterre, unici a operare
nell’ex granaio d’Europa – Sono
dieci anni che interveniamo
in questi luoghi massacrati
da Chernobyl, nel tempo
siamo riusciti a recuperare
molto, ma il conflitto ci ha riportato
indietro di anni.
Guardate lì...”, e indica la corsia.
Letti poggiati al muro, flebo
sparse, macchinari accatastati,
un padre ha costruito
una sedia a rotelle fai-da-te
grazie a una pieghevole di plastica
poggiata su un vecchio
carrello; due mamme passeggiano
con i loro bimbi, sono
idrocefali, testa penzoloni e
un’agocannula inserita nella tempia. Altri due
piccoletti tentano di giocare con una bambola,
per loro l’agocannula è nel piede, la testa fasciata
per una recente operazione chirurgica.
Hanno il cancro al cervello. Uno dei due non si
salverà, lo spiega la mamma, lo conferma l’infermiera,
il male è troppo ramificato. “Sapete
cosa accade? – continua Rizzi – Anche se riusciamo
a curarli dal tumore, possono morire
per un’infezione, purtroppo è impossibile
mantenere gli standard di igiene e sicurezza
opportuni”. Specialmente ora.
Mancano pure gli antidolorifici
Da quando è iniziato il conflitto, sono state
distrutte o danneggiate 45 strutture sanitarie,
secondo i dati forniti dalla Ocha (Ufficio delle
Nazioni Unite per gli affari umanitari), gran
parte del personale ha lasciato le zone di Donesk
e Luhansk, regioni al confine con la Russia,
dove la guerra è viva, dove si muore tutti i
giorni, dove il suono delle pallottole è una colonna
sonora permanente. Non solo: i fondi
stanziati per il 2015 dal ministero della Salute
ucraino riusciranno a coprire solo il 30-40 per
cento dei bisogni sanitari nazionali, le gare
d’appalto per i medicinali sono state realizzate
con un gravissimo ritardo e sempre per il 2015
è stato acquistato appena il 26 per cento dei
farmaci necessari. “In questo reparto non abbiamo
neanche gli antidolorifici – continua il
dottore – Morfina? Ma quale morfina!” La sofferenza
psicologica, famigliare
e fisica è vissuta fino in fondo,
nessuno sconto, nessun
sollievo, anche in questo caso
funziona il fai-da-te, quando è
possibile, oppure è necessario
attendere l’intervento di Soleterre:
Ma i problemi si sommano,
sempre più, il costo dei
farmaci aumenta con percentuali
spaventose, e non è parliamo
solo di antidolorifici,
ma di chemioterapici – prosegue
Rizzi –E con certi prezzi
siamo in difficoltà. Un esempio?
Il Melfalan ad aprile costava
35.48 euro a confezione,
mentre a novembre il suo
prezzo è diventato di 199.80
euro; così il Busulfano ad aprile
costava 8.91, a novembre è
passato a 312.95 euro. Cifre pagate anche dallo
stesso sistema sanitario italiano per i suoi pazienti”.
Sulla questione il Fatto ha interpellato
l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), che ha
risposto: “La società Aspen Pharma (produttrice)
ha richiesto la riclassificazione in fascia
C, ossia a totale carico del cittadino, delle suddette
specialità in quanto la stessa riteneva che
i prezzi attualmente praticati non erano più
sostenibili. E ha allineato le cifre a quelli degli
altri paesi europei”. Con buona pace dei bambini,
delle casse dei genitori e dello Stato. “Ora
vi mostro il reparto di oncologia infantile, è da
un’altra parte di Kiev”, interviene Rizzi. Tutti
in macchina. I due ospedali sono a circa dieci
chilometri di distanza, sono pubblici, delle eccellenze
per l’Ucraina. Durante il tragitto, piano
piano, si svelano piccoli segnali di una nazione
in guerra: poche auto in circolazione, la
benzina è un costo, corone di fiori in molti
angoli delle vie per ricordare i morti, considerati
martiri” dalla popolazione locale; miliziani
in mimetica, ragazzi non miliziani ma
sempre vestiti da combattimento, “se guardate
bene potete vedere dei fori da proiettile sulle
cortecce degli alberi”, indica una ragazza mentre
posa un fiore su un altarino. È vero, il segno
c’è.
Eccoci, questo è l’ospedale, quando siamo arrivati
nel 2007 –ricorda Rizzi –non c’era quasi
nulla, la pioggia penetrava dal soffitto, non
avevano neanche i cerotti o le garze, le amputazioni
si effettuavano con una sega manuale.
Ora riusciamo a mantenere un fisioterapista
per i bambini operati di cancro alle
ossa”. Ossa, fegato, polmoni, sono i tumori
solidi”, i liquidi come le leucemie non vengono
presi in considerazione perché, paradossalmente,
considerati troppi semplici, quindi
curabili altrove. Oltre la porta, il solido odore.
Oltre la porta una comunità di mamme, piccoli
senza capelli e gonfi di cortisone, grigi in
volto, grigi nello sguardo, medici distrutti per
la stanchezza emotiva e fisica, camere diventate
stanze nelle quali vivere con i genitori,
storie di famiglie scappate dalle zone più pericolose
del paese e nelle quali non è consigliabile
tornare. “Noi abbiamo perso tutto –
racconta Anja – con mio figlio Sasha siamo
arrivati qui per curarlo da un cancro alla gamba,
ora abbiamo finito la chemio (parla al plurale),
ma non sappiamo dove andare, abbiamo
paura e la nostra casa è probabilmente inagibile”.
Riuscite a sentire qualche amico o parente
ancora a Donesk? “Raramente, tutti ci
dicono di restare qui, ma non sappiamo dove
vivere, come mantenerci, io non ho un lavoro
e il conto in banca è bloccato”. Come lei, come
loro, sempre più.
Il campo profughi della città
E basta andare al campo profughi di Kiev per
capirlo: palazzine basse, edilizia sovietica, mattoncini
a vista, curate, un parco attorno, per
entrare dentro gli edifici è
educazione togliere le scarpe.
Siamo a meno due gradi, a
mezzogiorno è in arrivo la prima
neve. Qui i figli sono separati
dai genitori, a meno di
casi estremi, l’eccezione è prevista
anche in guerra, il disagio
non intacca il concetto di
opportunità. È il caso della famiglia
Chygerovy, anche loro
di Donesk, mamma, padre e
tre figli. La più piccola, Masha,
non ha neanche un anno e da
otto mesi combatte con un
cancro al fegato, inizialmente
derubricato come “non curabile”.
Poi sì. Quindi no. Vediamo.
Infine un viaggio in
Belgio, finalmente la sala operatoria
e la speranza di uscirne.
Insieme vivono al campo
profughi, insieme stanno affrontando
il dolore della piccola e la paura
della guerra, i due figli più grandi, quindici e
dieci anni, hanno atteggiamenti da adulti, non
parlano molto, seguono la sorellina, la coccolano,
ne assecondano i capricci, rassicurano
i genitori. “Vedete questi abiti? – spiega il padre
Sono dei regali, non possediamo più
nulla, tutti i soldi sono stati investiti per nostra
figlia, il conflitto ci ha tolto il resto. Perché c’è
un conflitto, siamo in guerra, nonostante l’Europa
non se ne stia rendendo conto. Quando
eravamo in Belgio i giornali ne parlavano poco,
mentre a Donesk si muore. Ma ora la priorità
è lei, e anche gli altri due. Sì, sono cambiati,
specialmente il maschio, è terrorizzato. Dove
andremo? Non lo so, viviamo alla giornata, ma
tra dieci giorni dobbiamo lasciare la stanza ad
altri bambini”. Destinazione ignota. “Alcune
persone dormono in stazione – interviene Rizzi
o magari in macchina se non l’hanno ancora
venduta. Noi abbiamo aperto una casa
nella quale possiamo ospitare fino a cinque
nuclei famigliari, nelle emergenze arriviamo a
sei, sette, ma in questi casi la convivenza diventa
complicata per la medesima struttura”.
Poco fuori Kiev la villetta di Soleterre con dentro
figli e genitori, figli malati e genitori pronti
a sostenerli. Insieme. Un grande tavolo per
mangiare, un piccolo palco in salotto per organizzare
dei momenti di svago, delle giostre
in giardino. Solidarietà ovunque. “Sapete qual
è la follia?”, interviene Natalia
Onipko , presidente della Fondazione
Zaporuka associazione
gemella di Soleterre a Kiev,
è che dopo Chernobyl non è
stato organizzato nessun registro
dei tumori, nessuno!
Hanno preferito smussare,
quando la centrale è a soli settanta
chilometri da qui”. Settanta
chilometri in linea
d’aria. “Con quello che è successo
nel 1986, con un po’ di
coscienza, in questa zona del
mondo avrebbero dovuto organizzare
il più grosso laboratorio
del pianeta, avrebbero
dovuto studiare le varie forme
tumorali. In queste zone solo
il numero di patologie al cervello
è sei volte superiore alla
norma, è chiaro?”. Purtroppo
sì, è chiaro. Com’è chiaro lo
stato di abbandono, le difficoltà generali, la
sofferenza di piccoli e grandi, la ricerca quotidiana
di medicinali, lo spirito di resa negli
atteggiamenti di alcuni genitori, la volontà di
lucrare di altre strutture. È chiaro come il freddo
che sta arrivando, la luce che manca, il
riscaldamento che scarseggia, i numerosi Suv
dei ricchi locali, loro circolano. È chiaro come
gli occhi persi della madre di Masha, una la
guarda, pensa a una frase di J. Moehringer in
Oltre il fiume: “Lei ha sempre avuto il dono di
sognare il futuro. Adesso, non può fare a meno
di rivivere il passato”.

1. continua il fatto quotidiano 1 dicembre 2014 

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