domenica 26 gennaio 2014

“Come nascono i lager? Facendo finta di niente” intervista di Biagi a Primo Levi giornata della memoria 27 gennaio

LE LEGGI RAZZIALI FURONO UNA DELUSIONE, NON UNA SORPRESA”;“NON CREDEMMO
AI RACCONTI INGLESI SULLO STERMINIO DEGLI EBREI”; “ERAVAMO STUPIDI E ANESTETIZZATI:
ABBIAMO CHIUSO GLI OCCHI E IN TANTI HANNO PAGATO”. PRIMO LEVIRACCONTA A ENZO
BIAGI LA SUA VITA DA TORINO AD AUSCHWITZ E RITORNO: STUDENTE, PARTIGIANO,
DEPORTATO, SOPRAVVISSUTO, SCRITTORE. “COME MI SONO SALVATO? FORTUNA, DIREI”
Questo secolo”
L’incontro tra Enzo Biagi e Primo Levi andò in
onda su RaiUno l’8 giugno 1982 nel programma
Questo secolo”: lo scrittore morirà cinque anni dopo
in circostanze non chiare (per alcuni si suicidò)
Qual è la differenza tra
i campi di concentramento
nazisti e quelli russi?
Il numero di vittime è
paragonabile, ma una ce n’è,
credo: lo scopo dei primi non
era stroncare una resistenza
politica, ma la morte
Erano stati costruiti
per lo sterminio di un popolo
di Enzo Biagi Levi come ricorda la promulgazione delle leggi
razziali?
Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto
nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto
della razza, dove era scritto che gli ebrei
non appartenevano alla razza italiana. Tutto
questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti
fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava
a quali conseguenze avrebbero portato le
leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo
che si sperò che fosse un’eresia del fascismo,
fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che
non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con
grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso

istinto di conservazione: “Qui certe cose sono
impossibili”. Cioè negare il pericolo.
Che cosa cambiò per lei da quel momento?
Abbastanza poco, perché una disposizione delle
leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei,
già iscritti all’università, finissero il corso. Con
noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi,
perfino tedeschi che, essendo già iscritti
al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente
quello che è accaduto al sottoscritto.
Lei si sentiva ebreo?
Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo
a una famiglia ebrea. I miei genitori
non erano praticanti, andavano in sinagoga una
o due volte all’anno più per ragioni sociali che
religiose, per accontentare i nonni, io mai.
Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’apparte -
nenza a una certa cultura, da noi non era molto
sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano,
vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso
aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati,
eravamo indistinguibili.
C’era una vita delle comunità ebraiche?
Sì anche perché le comunità erano numerose,
molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente,
una vita sociale e assistenziale, per quello che
era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola,
una casa di riposo per gli anziani e per i malati.
Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la
comunità. Per me non era molto importante.
Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la
prese?
Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto,
come del resto molti miei coetanei. Non avevamo
un’educazione politica. Il fascismo aveva
funzionato soprattutto come anestetico, cioè
privandoci della sensibilità. C’era la convinzione
che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente
e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato
a vedere come erano messe le truppe che
andavano al fronte occidentale, abbiamo capito
che finiva male.
Sapevate quello che stava accadendo in Germania?
Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è
intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior
parte delle persone quando sono in pericolo
invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi,
come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante
certe notizie che arrivavano da studenti
profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia:
raccontavano cose spaventose. Era uscito
allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava
clandestinamente, su cosa stava accadendo in
Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io.
Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in
guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario.
Ci siamo costruiti intorno una falsa
difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno
pagato per questo.
Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del
fascismo?
Abbastanza tranquillo, studiando, andando in
montagna. Avevo un vago presentimento che
l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato
un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.
E quando è arrivato l’8 settembre?
Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per
una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i
miei che erano sfollati in collina per decidere il da
farsi.
La situazione con l’avvento della Repubblica sociale
peggiorò?
Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre
43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto,
che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per
essere internati nei campi di concentramento.
Cosa fece?
Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato
diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato
nel marzo del ’44 e poi deportato.
Lei è stato deportato perché era partigiano o perché
era ebreo?
Mi hanno catturato perché ero partigiano, che
fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti
che mi hanno catturato lo sospettavano già,
perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle
ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se
sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento
di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo
al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe
venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti
falsi che erano mal fatti.
Che cos’è un lager?
Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse,
compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire
giaciglio, vuol dire accampamento, vuol dire luogo
in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia
attuale lager significa solo campo di
concentramento, è il campo di distruzione.
Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?
Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un
vagone con cinquanta persone, c’erano anche
bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere
il latte, ma la madre non ne aveva più, perché
non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo
tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la
volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano
farci del male. Avrebbero potuto darci un po’
d’acqua, non gli costava niente. Questo non è
accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era
un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il
più possibile.
Come ricorda la vita ad Auschwitz?
L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte,
sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco
in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I
tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio.
Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire,
a spaventare per troncare l’eventuale resistenza,
anche quella passiva. Siamo stati privati
di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle
famiglie subito.
Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?
Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non
in condizioni molto diverse, cioè in transito durante
il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel
libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma
per quello che ho letto non si possono lodare
quelli russi: hanno avuto un numero di vittime
paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per
conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale:
in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo
scopo principale, erano stati costruiti per sterminare
un popolo, quelli russi sterminavano
ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello
di stroncare una resistenza politica, un avversario
politico.
Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di
concentra mento?
Principalmente la fortuna. Non c’era una regola
precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto
o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo.
Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza
la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità
verso il mondo intero, che mi ha permesso
di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere
l’interesse per il mondo era mortale, voleva
dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.
Come ha vissuto ad Auschwitz?
Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo
in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo
era incorporato nell’industria chimica, per me è
stato provvidenziale perché io sono laureato in
Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n.
4517, questo mi ha permesso di lavorare negli
ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un
laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere.
C’erano due allarmi al giorno: quando suonava
la prima sirena, dovevo portare tutta l’ap -
parecchiatura in cantina, poi, quando suonava
quella di cessato allarme, dovevo riportare di
nuovo tutto su.
Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente
quelli che avevano fede.
Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che
in molti mi hanno confermato. Qualunque fede
religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede
politica. È il percepire se stessi non più come individui
ma come membri di un gruppo: “Anche
se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza
non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza
non lo avevo.
È vero che cadevano più facilmente i più robusti?
È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un
uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà
di un uomo di novanta, ha bisogno di metà
calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle,
ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava
di più la vita. Quando sono entrato nel lager
pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato.
Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo
dei colossi, morivano di fame in sei o sette
giorni.
Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?
In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di
tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di
pane allora venivano a galla le altre mancanze, il
freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza
da casa...
La nostalgia, pesava di più?
Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano
soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano,
un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che
riguarda l’essere pensante, che gli animali non
conoscono. La vita del lager era animalesca e le
sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie.
Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a
qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte,
per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti,
in cui capitava che le sofferenze primarie,
accadeva molto di rado, erano per un momento
soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia
perduta. La paura della morte era relegata
in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la
storia di un compagno di prigionia condannato
alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava
per morire, davano una seconda razione di
zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela,
ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado
nella camera a gas quindi devo avere un’altra
porzione di minestra”.
Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi
suicidi: la disperazione non arrivava che raramente
alla autodistruzione.
Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi
e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le
ragioni erano molte, una per me è la più credibile:
gli animali non si suicidano e noi eravamo animali
intenti per la maggior parte del tempo a far
passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore
della morte era al di là della nostra portata.
Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?
Per gradi, ma la parola crematorio è una delle
prime che ho imparato appena arrivato nel campo,
ma non gli ho dato molta importanza perché
non ero lucido, eravamo tutti molto depressi.
Crematorio, gas, sono parole che sono entrate
subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva
più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli
impianti con i forni a tre o quattro chilometri da
noi. Io mi sono esattamente comportato come
allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci
e poi dimenticando. Questo per necessità,
le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio
calare il sipario e non occuparsene.
Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda
quel giorno?
Il giorno della liberazione non è stato un giorno
lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri.
Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati
senza mitragliarci, come hanno fatto in altri
lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono
rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo
stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi,
al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche
patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento,
in quei dieci giorni seicento sono morti di
fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato
vivo in mezzo a tanti morti.
Questa esperienza ha cambiato la sua visione del
mondo?
Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale
sarebbe stata la mia visione del mondo se non
fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non
fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha
insegnato molte cose, è stata la mia seconda università,
quella vera. Il lager mi ha maturato, non
durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho
vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né
l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna
mai nascondersi per non guardare in faccia
la realtà e sempre bisogna trovare la forza per
pensare.
Grazie, Levi.

Biagi, grazie a lei.
Il fatto quotidiano 26 gennaio 2014

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