sabato 9 marzo 2013

trattamento di fine rapporto: chemio e amianto

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Marco Vettori, operaio, malato di cancro per l'amianto
giovedì 7 marzo 2013 17:42
Marco se n'è andato

"Sono Marco, ti ricordi di me?".
Mi dice una voce al telefonino. Era tanti anni che non lo vedevo e sentivo ma come avrei potuto scordare Marco Vettori, quell'omaccione di Pistoia, operaio alla Breda, comunista di quando i comunisti erano comunisti. Marco che per anni ostinato e deciso aveva condotto la battaglia contro l'amianto che in fabbrica dovevano respirare.
"Certo che mi ricordo, come stai?".
"Benone. Però mi sono beccato il cancro pure io", mi risponde con il tono di chi ti sta raccontando una cosa ovvia. "Volevo invitarti ad un incontro con i malati qui nel reparto oncologico dell'ospedale di Lucca, ti va di venire a parlare un po' di satira?".
"Vengo, vengo", balbetto tanto basito da non avere neanche la lucidità di pensarci su un attimo.
Il reparto oncologico dell'ospedale di Lucca a tutto somiglia meno che ad un luogo di sofferenza. Alle pareti bei quadri coloratissimi, all'ingresso un flipper con tutti i suoi suoni e luci, e poi c'è la sala per gli incontri e la musica. Scopro che di qui sono passati un sacco di artisti, da Moni Ovadia a Vergassola, da Bollani a Renzo Arbore.
Il primario Maurizio Cantore ed il suo aiuto Andrea Mambrini sono instancabili ed entusiasti nell'organizzare eventi per i loro pazienti. E non certo per "distrarli" dalla loro malattia ma per curarli, oltre che con i farmaci, con quella impareggiabile medicina che è "l'essere vivi".
Ed essere vivi significa avere voglie e desideri, essere curiosi ed interessati, pronti al riso come al pianto, godere nello scambiarsi idee e nello scoprirne di nuove, non dare niente per scontato, nemmeno la morte. Insomma tutte quelle cose che noi cosiddetti sani abbiamo troppo spesso perso o che non abbiamo mai avuto. Sempre così impegnati a sbatterci di qua e di là come la pallina del flipper all'ingresso del reparto, storditi da suoni e rumori e luci artificiali. Convinti come idioti che noi non finiremo mai in buca.
"Marco cazzo: quattro ore di treno per arrivare qua e ora quattro per tornarmene a Roma...", gli dico salutandolo sulla porta dell'ospedale. "Se ti arrivano tutti gli accidenti che ti ho mandato non c'è cura che ti salvi". "Ma vattelo a ripiglià in culo", mi risponde ridendo, "Se i tuoi accidenti funzionassero quello là che so io al governo 'un sarebbe durato mica diciott'anni. E tu gli avresti dato sì e no una mezz'oretta. E io gli avrei dato anche di meno, su' ma' maiala!".

Vauro 13 marzo 2012


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