Le nazioni in via di sviluppo sarebbero le più colpite da un fallimento della conferenza di Parigi sul clima: si rischiano migrazioni bibliche e tensioni geopolitiche. Ma anche per gli investitori finanziari le perdite per "l'inazione" sarebbero clamorose. Il dilemma è quanto far pagare le emissioni di Co2
di LUCA PAGNI
Il cambiamento climatico? Senza un'inversione di tendenza in tempi rapidi, con provvedimenti che riducano le emissioni di sostanze inquinanti, saranno i paesi in via di sviluppo a pagarne più di tutti le conseguenze. Sia in termini di spese per adattarsi a una temperatura media in salita di altri tre gradi centigradi, sia come riparazione dei danni ambientali.
A sostenere che saranno le nazioni più "deboli" le più colpite da una mancanza di decisioni al termine della conferenza sul clima è l'associazione Oxfam, una delle più importanti confederazioni nel mondo specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo, composta da 17 organizzazioni internazionali, con 3mila partner locali in 90 paesi. Secondo Oxfam, "l'adattamento necessario potrebbe costare circa 800 miliardi di dollari all'anno". Se il riscaldamento globale fosse contenuto a due gradi, invece, la spesa sarebbe di 520 miliardi all'anno, cioè 280 miliardi in meno.
Perdite economiche gigantesche. Ma non è solo questo. Anche le perdite economiche sarebbero gigantesche: fino a 1.700 miliardi all’anno fino al 2050, 600 miliardi in più rispetto allo scenario in cui il riscaldamento globale è limitato a due gradi. "Occorre ridurre ulteriormente le emissione di gas a effetto serra e aumentare i finanziamenti alle popolazioni vulnerabili, perché già oggi affrontano inondazioni, siccità e problemi nell’approvvigionamento di generi alimentari) se vogliamo consentire loro di sopravvivere", ha spiegato Winnie Byanyima, direttrice generale di Oxfam. Ma più che fondi a disposizione dei paesi più "deboli", quello che occorre è che i grandi della terra decidano politiche che vadano versio un raffreddamento della attività umana.
Il perché lo spiega, con il dettaglio dei numeri, sempre lo studio di Oxfam: anche se fosse mantenuto l'impegno preso sei anni fa alla Conferenza di Copenaghen, lo stanziamento di 100 miliardi di dollari all'anno fino al 2020 in favore dei Paesi poveri, sarebbe comunque insufficiente. Secondo le stime dell'associazione, nel 2013-14 il finanziamento pubblico per il clima è stato in media di 20 miliardi di dollari: di questi soltanto 3-5 miliardi sono stati devoluti all'adattamento ai mutamenti del clima. Frazionando la somma complessiva per gli 1,5 miliardi di piccoli produttori agricoli che è stato calcolato vivano nei Paesi in via di sviluppo, a ciascuno resterebbero appena 3 dollari all'anno per proteggersi da alluvioni, siccità e altri fenomeni climatici estremi.
Del resto, lo ha ricordato anche di recente in una sua conferenza a Milano (organizzata da Edison) l'economista e storico dei processi economici Paul Allan David, docente a Stanford, Oxford e Maastricht: "È urgente agire sul surriscaldamento globale perché l’assenza di cibo e la siccità causati dai cambiamenti climatici possono portare a migrazioni bibliche e a forti tensioni geopolitiche". Non a caso, Oxfam ha ricordato come negli ultimi 5 anni, più di 650 milioni di persone sono state colpite dai disastri legati al clima e 112.000 hanno perso la vita. Ogni anno da allora è stato infatti fra i dieci più costosi mai registrati per i danni a cose e persone.
Anche i ricchi investitori piangono. Da un estremo a un altro. Perché non sono solo i paesi più poveri a rimetterci. Anche i "ricchi" investitori che si rivolgono alla finanza per preservare i propri capitali rischiano di pagare seriamente "il costo dell'inazione". Lo ha così definito un documento redatto da una inchiesta del settimanale The Economist, presentato nel luglio scorso. Secondo la rivista, i gestori finanziari potrebbero aspettarsi perdite clamorose, comprese tra i 4,2 trilioni di dollari (pari a 379.000 miliardi di euro) ai 143 trilioni (130 trilioni di euro) entro la fine del secolo a causa del cambiamento climatico, equivalenti all'intero Pil del Giappone. È importante segnalare che questo non è un rischio di volatilità o temporaneo ma permanente, fatto di svalutazioni e minusvalenze.
Il settimanale economico suggerisce che anche i governi debbano intervenire con legislazioni adeguate. E citano come esempio positivo la Francia, con la nuova legge che obbliga le compagnie d'assicurazione, i gestori dei fondi pensione e altri investitori istituzionali a evidenziare "informazioni sulla valutazione di fattori ambientali, sociali e di governance nei lorobilanci e nelle loro politiche d'investimento". Inoltre, anche gli investitori sono obbligati a spiegare il modo in cui le attività contenute nei portafogli "sono esposte ai rischi climatici, compresa la misurazione delle emissioni di gas serra".
Far pagare di più le emissioni. Uno degli strumenti che potrebbero essere usati per ridurre l'attività umana più inquinante è rendere più costose le pratiche che producono più inquinamento. In pratica, rilanciare il principio secondo cui "chi inquina paga". Ma quale dovrebbe essere il giusto prezzo compensando almeno economicamente i danni all’ambiente? Negli Usa si tiene conto di un valore di 37 dollari per ogni tonnellata di Co2 emessa nell’atmosfera, secondo un parametro che tiene conto dei costi sociali in base a uno studio commissionato dalla Casa Bianca. Ma un recente report della Stanford università l'ha portato a 220 dollari perché tiene conto non solo dell'impatto sulla produzione economica ma anche di quello sul tasso di crescita economica, con un effetto che si accumula nel tempo.
Il costo della Co2 per tonnellata sarebbe più alto, perché le emissioni in realtà sono un fattore di mancata crescita. Secondo i ricercatori i molteplici danni collegati ad un aumento della temperatura globale come la diminuzione della produzione agricola, i danni per la salute umana ed una più bassa produttività dei lavoratori calcolandone l’impatto economico sul prodotto interno lordo ma vanno anche oltre, valutano ad esempio che importanti misure di mitigazione del clima sarebbero un grosso driver per la crescita economica soprattutto nei paesi poveri e che quindi una loro non-applicazione sarebbe un danno per l’economia mondiale. http://www.repubblica.it/economia/2015/11/28/news/senza_lotta_alla_co2_perdite_colossali_per_i_paesi_piu_poveri-128315954/?ref=HREC1-19
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