venerdì 29 agosto 2014

Beni demaniali, “noi non vendiamo il nostro Paese”

“Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero. – Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?-. Ma il ferroviere, pronto e cortese: – Noi non vendiamo il nostro Paese”.

Era il 1960 quando Einaudi pubblicò “Filastrocche in cielo e in terra” di Gianni Rodari. Un libro per ragazzi che conteneva tanti spunti di riflessione. Compresi quelli desumibili da “Terza, seconda e prima classe”. Erano quelli gli anni di prorompente crescita. Forse molto più di quanto non lo fosse nella realtà dei fatti.

Quel che è certo è che allora l’Italia non considerava alcuni dei suoi beni immobili in vendita. Piuttosto il patrimonio era un’inalienabile eredità da conservare. Contrariamente a quanto si continua scriteriatamente a tentare. Con l’obiettivo di portare in cassa 500 milioni di euro.

Per mettere a posto i conti pubblici non solo tagli e privatizzazioni, ma anche dismissione di immobili. Idea non nuova. Più volte tentata. Mai davvero declinata.
Il primo tentativo vero contenuto nella legge 35/1992. Per questo si crea, nel 1993, la Immobiliare Italia Spa. Inutilmente. Dopo 5 anni il progetto viene abbandonato.
Nel 1996 ci prova il governo Prodi. La legge 662 nomina una commissione con il compito di classificare i beni da valorizzare. Ma la commissione non riesce nemmeno a censire i beni perché i dati forniti dalla Sogei, la società informatica del ministero delle Finanze, sono incompleti.
Nel 2002 nasce Patrimonio Spa, che dopo 9 anni, nel luglio del 2011, viene messa in liquidazione. Non è finita. Nell’aprile 2010 l’allora ministro Tremonti mette in vendita i fari, da trasformare in resort di lusso. L’idea rimane tale. Per questo ritorna alla carica nell’agosto 2011.
Altri capitoli con il ministro Grilli nel luglio 2012 e poi con Renato Brunetta nel luglio 2013. Si arriva così al 13 ottobre 2013, battesimo per Invimit, società di gestione che si sarebbe dovuta occupare della vendita delle caserme.

E ora ci si riprova. Sul sito dell’Agenzia del demanio ci sono i dieci progetti valutati ad alta fattibilità.

Il carcere di Sant’Agata, a Bergamo. Le caserme La Rocca e XXX maggio, a Peschiera del Garda. L’isola di San Giovanni in Palude, a Venezia. Il castello Orsini, a Soriano del Cimino. La caserma Piave e il complesso di Santa Maria della Stella, a Orvieto. Villa favorita, a Ercolano. Il faro di Punta Imperatore, a Forio d’Ischia e il faro di San Domino alle Isole Tremiti.
Spazi tipologicamente contrapposti. Parti, essi stessi, del paesaggio. Non soltanto perimetri. Strutture storicizzate e accumulate nei secoli. Pezzi d’Italia. Anche per questo sono beni da salvaguardare, piuttosto che da mettere sul mercato. Luoghi della memoria da riscattare in favore della collettività. Non un tesoretto, a lungo nascosto e ora da tirare fuori per fare cassa. Il salvadanaio da rompere.

Ma non è una novità neppure questa. Ogni crisi ha provocato la progressiva, corposa, erosione dei finanziamenti statali nel capitolo della cultura. Contemporaneamente si è diffusa l’idea di monetizzare il patrimonio immobiliare storico di proprietà statale. Una duplice soluzione costante nel tempo. Favorita da norme capestro.

Come la legge 133/2008 che impone a regioni, province e comuni di allegare al proprio bilancio un “piano di alienazioni immobiliari”, incoraggiando i comuni a introdurre varianti urbanistiche per commercializzare i beni alienati.
Come il cosiddetto “federalismo demaniale” che ha trasferito a comuni e regioni quasi 20 mila unità del demanio statale. Con l’esito quasi naturale di metterli sul mercato, in varia forma.

Con il sovrapporsi e l’interazione di questi strumenti legislativi un numero impressionante di edifici è in pericolo. A partire dalle caserme, dalle fortificazioni e dagli arsenali. La possibilità che strutture gloriose vengano trasformate in qualcos’altro da quel che sono state è una possibilità non secondaria.

Quasi sempre ogni tipo di operazione sembra indirizzata a un riutilizzo di quegli spazi a fini immobiliari. Il mercato è da tempo in sofferenza. Si sa. Ma non importa. Le case prima o poi si venderanno. Questo il progetto complessivo, stando alle intenzioni di chi mostra interesse per quei luoghi, spesso, da tempo in abbandono.
Così, autentici capolavori dell’architettura militare ottocentesca e novecentesca sono in attesa di essere trasformati. Potrebbero esserlo. A Verona, l’arsenale asburgico, la struttura militare intitolata a Francesco Giuseppe, è in corso di privatizzazione. A Peschiera del Garda, la fortezza è stata destinata a residenze e centro commerciale con il placet della Direzione ai beni culturali del Veneto. A Pavia, l’arsenale è stato messo in vendita a trattativa privata e il Piano di governo del territorio vi prevede la costruzione di circa quattrocento appartamenti. Esempi al contrario di politiche incapaci di trovare soluzioni differenti dal passato anche recente.

In questo panorama desolante il caso di Forte Marghera(foto in alto), la più grande delle fortificazioni vicine a Venezia, offre una speranza.

Anche qui il demanio militare ha dismesso i forti del campo trincerato. Ma il comune li ha acquisiti al proprio patrimonio, percorrendo una strada non consueta. Annullando la scelta di conferire il Forte in project financing a una grande impresa. Preferendo puntare a una gestione pubblica.

Un altro caso “virtuoso” potrebbe diventare quello di Forte Boccea, una delle 18 strutture militari romane, da tempo in attesa di un esito “positivo” al loro lungo abbandono.

Per gli spazi dell’edificio nel XIII municipio, appena pochi anni fa destinati da una delibera comunale a diventare edificabili, si prospetta un utilizzo diversificato, comprendente il nuovo mercato di via Urbano II, un parco pubblico, ostelli e servizi sociali.

Le storie di Forte Marghera e di Forte Boccea, al di là delle specificità tutt’altro che trascurabili, evidenziano tratti comuni che possono fornire anche suggerimenti per il Paese. Strumenti per contrastare indirizzi scellerati. A partire dalla partecipazione dal basso.

Dal lavoro di comitati nati per rivendicare il valore di bene comune di edifici di straordinaria importanza dal punto di vista storico, architettonico, paesaggistico e naturalistico.

Considerare non più in termini meramente economici quei beni culturali non è un’operazione contro il restyling del Paese, ma il tentativo di non svendere la nostra identità.

E’ necessario recuperare davvero quegli immobili, riempirli di nuove funzioni e creare musei polifunzionali in grado di non stravolgerne le linee antiche. Invece rompere il salvadanaio, come tante volte si è provato a fare, non sarebbe una novità. Non contribuirebbe a sanare il debito. In compenso accrescerebbe pericolosamente il deficit culturale del Paese e minerebbe le basi della sua incerta solidità.
Come scriveva Rodari “Noi non vendiamo il nostro Paese”.

Manlio Lilli 
(da ateniesi.it) http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2014/07/beni-demaniali-noi-non-vendiamo-il-nostro-paese/

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