giovedì 1 maggio 2014

morto a 87 anni Emilio Riva patron dell'Ilva che rivendicava il diritto di inquinare condannato per i veleni prodotti nel suo impianto siderurgico

EMILIO RIVA L’UOMO
CHE RIVENDICAVA
IL DIRITTO DI INQUINARE
È MORTO A 87 ANNI IL PATRON DELL’ILVA. DOPO AVER SUBITO
DUE CONDANNE ERA AI DOMICILIARI DA DUE ANNI
PER I VELENI PRODOTTI DAL SUO IMPIANTO SIDERURGICO
di Giorgio Meletti
Èmorto Emilio Riva, patron
dell’Ilva. È cominciata
la bonifica”. La ferocia
dell’annuncio di
Spinoza. it esemplifica (per difetto) la
reazione di quello che viene pigramente
definito “popolo di internet”,
impegnato in un lungo pomeriggio
di invettive via Twitter. Il
punto è però un altro. L’industriale
milanese – che stava per compiere
88 anni e ieri ha ceduto alla malattia
che l’aveva aggredito da tempo – era
da quasi due anni agli arresti domiciliari,
accusato di un reato odioso,
l’inquinamento prodotto dall’Ilva
di Taranto, responsabile secondo
la procura della Repubblica di
morte e malattie. Di fronte alla sua
scomparsa, il dolore dei suoi familiari,
amici, colleghi e ammiratori, e
la rabbia talora sguaiata di chi lo ha
considerato un cinico assassino si
intrecciano e descrivono un grande
dramma nazionale.
L’ITALIA, a differenza degli altri
grandi paesi occidentali, non ha mai
risolto il conflitto tra industria e ambiente,
tra profitto e responsabilità
sociale, tra diritto al lavoro e e diritto
alla salute. Riva, che iniziò la sua avventura
imprenditoriale fondando
la prima società, con il fratello minore
Adriano, nel 1954, muore sessant’anni
dopo avendo costruito dal
niente uno dei maggiori imperi
mondiali dell’acciaio ma circondato
dalla riprovazione sociale, avendo
creato decine di migliaia di posti di
lavoro in tutta Europa di cui pochi
lavoratori credono di dovergli essere
grati.
Il presidente della Federacciai, Antonio
Gozzi, saluta il collega augurandosi
che la giustizia dimostri rapidamente
l’infondatezza delle accuse
che lo hanno tormentato nei
suoi ultimi anni di vita”. Purtroppo
gli alfieri dell’imprenditoria italiana
non fanno i conti con il fatto che per
il reato di inquinamento Riva era
sottoposto alla terza inchiesta della
sua vita, essendo già stato condannato
con sentenza definitiva due
volte, il 15 luglio 2002 e il 12 febbraio
2007, sempre per l’acciaieria
di Taranto.
Il dramma nazionale, che rischia di
costare molti posti di lavoro a Taranto
e un’accelerazione dell’impo -
verimento del Paese, è la contrapposizione
tra un estremismo ambientalista
secondo il quale non esiste
industria che non inquini, e il
negazionismo degli industriali come
Riva, secondo i quali l’inquina -
mento a Taranto non c’è mai stato,
tutt’al più un po’ di
traffico come nella Palermo
di Johnny Stecchino.
C’è un secondo problema
nazionale su cui
val la pena di soffermarsi,
anche per non
cancellare con l’isteria
il rispetto che comunque
merita la morte di
un uomo. Ed è il mito
dell’imprenditore che
rischia i suoi capitali
nell’impresa per il bene comune. In
Italia non è sempre così, e nella storia
di Riva non è stato sempre così, a
dispetto della fiera rivendicazione
dei colleghi della Federacciai. Riva
ha comprato l’Ilva di Taranto dall’Iri,
nel 1995, per 1.450 miliardi di
lire, poi saliti a 1.649 per il calcolo di
un conguaglio sugli utili realizzati
durante la trattativa.
È VERO CHE la gestione pubblica
riusciva a fare della più moderna e
produttiva acciaieria d’Europa una
voragine di perdite. Ma tutti sapevano,
allora, che quell’impianti siderurgici,
in se e per se, valevano almeno
dieci volte il prezzo pagato. E
infatti il gruppo Riva, grazie all’ac -
quisto di Taranto passò, nel 1995, da
112 a 1.842 miliardi di lire di utile
netto. Guardate bene i numeri: solo
con i profitti del primo anno Riva si
riprese il prezzo pagato. Insomma, il
grosso degli investimenti del gruppo
Riva li hanno pagati i contribuenti
italiani. E del resto non si capirebbe
quale spirito di sacrificio
abbia spinto Riva a comprare dal-
l’Iri nel 1988 l’acciaieria di Genova
Cornigliano, mentre nel 1994-95 la
conquista di Taranto fu oggetto di
una contesa durissima con l’altro siderurgico
di razza, bresciano Luigi
Lucchini, e alla vittoria del milanese
non fu certo estranea l’amicizia ferrea
con Silvio Berlusconi, che aveva
appena preso il potere e che si spese
anche per fargli avere nello stesso
94 gli Acciai Speciali di Terni, poi
rapidamente girati ai tedeschi della
Krupp, poi ThyssenKrupp.
Nei quindici anni successivi alla privatizzazione
di Taranto la famiglia
Riva ha accumulato miliardi di euro
all’estero, ma non ha mai speso ciò
che serviva per ridurre le emissioni
inquinanti dell’acciaieria. Ha trovato
invece i 120 milioni da investire
sul salvataggio dell’Alitalia nel 2008,
quando Berlusconi lanciò l’appello
ai “patrioti” per salvaguardare l’ita -
lianità della compagnia di bandiera,
e subito dopo l’apertura dell’enne -
sima inchiesta su Taranto, che
avrebbe portato quattro anni dopo
all’arresto di Riva.
Twitter@giorgiomeletti

il fatto quotidiano 1 maggio 2014

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