EMILIO
RIVA L’UOMO
CHE
RIVENDICAVA
IL
DIRITTO DI INQUINARE
È
MORTO A 87 ANNI IL PATRON DELL’ILVA. DOPO AVER SUBITO
DUE
CONDANNE ERA AI DOMICILIARI DA DUE ANNI
PER
I VELENI PRODOTTI DAL SUO IMPIANTO SIDERURGICO
di
Giorgio
Meletti
Èmorto
Emilio Riva, patron
dell’Ilva.
È cominciata
la
bonifica”. La ferocia
dell’annuncio
di
Spinoza.
it esemplifica
(per difetto) la
reazione
di quello che viene pigramente
definito
“popolo di internet”,
impegnato
in un lungo pomeriggio
di
invettive via Twitter. Il
punto
è però un altro. L’industriale
milanese
– che stava per compiere
88
anni e ieri ha ceduto alla malattia
che
l’aveva aggredito da tempo – era
da
quasi due anni agli arresti domiciliari,
accusato
di un reato odioso,
l’inquinamento
prodotto dall’Ilva
di
Taranto, responsabile secondo
la
procura della Repubblica di
morte
e malattie. Di fronte alla sua
scomparsa,
il dolore dei suoi familiari,
amici,
colleghi e ammiratori, e
la
rabbia talora sguaiata di chi lo ha
considerato
un cinico assassino si
intrecciano
e descrivono un grande
dramma
nazionale.
L’ITALIA,
a differenza degli
altri
grandi
paesi occidentali, non ha mai
risolto
il conflitto tra industria e ambiente,
tra
profitto e responsabilità
sociale,
tra diritto al lavoro e e diritto
alla
salute. Riva, che iniziò la sua avventura
imprenditoriale
fondando
la
prima società, con il fratello minore
Adriano,
nel 1954, muore sessant’anni
dopo
avendo costruito dal
niente
uno dei maggiori imperi
mondiali
dell’acciaio ma circondato
dalla
riprovazione sociale, avendo
creato
decine di migliaia di posti di
lavoro
in tutta Europa di cui pochi
lavoratori
credono di dovergli essere
grati.
Il
presidente della Federacciai, Antonio
Gozzi,
saluta il collega augurandosi
che la
giustizia dimostri rapidamente
“l’infondatezza
delle accuse
che lo
hanno tormentato nei
suoi
ultimi anni di vita”. Purtroppo
gli
alfieri dell’imprenditoria italiana
non
fanno i conti con il fatto che per
il
reato di inquinamento Riva era
sottoposto
alla terza inchiesta della
sua
vita, essendo già stato condannato
con
sentenza definitiva due
volte,
il 15 luglio 2002 e il 12 febbraio
2007,
sempre per l’acciaieria
di
Taranto.
Il
dramma nazionale, che rischia di
costare
molti posti di lavoro a Taranto
e
un’accelerazione dell’impo -
verimento
del Paese, è la contrapposizione
tra un
estremismo ambientalista
secondo
il quale non esiste
industria
che non inquini, e il
negazionismo
degli industriali come
Riva,
secondo i quali l’inquina -
mento
a Taranto non c’è mai stato,
tutt’al
più un po’ di
traffico
come nella Palermo
di
Johnny
Stecchino.
C’è
un secondo problema
nazionale
su cui
val la
pena di soffermarsi,
anche
per non
cancellare
con l’isteria
il
rispetto che comunque
merita
la morte di
un
uomo. Ed è il mito
dell’imprenditore
che
rischia
i suoi capitali
nell’impresa
per il bene comune. In
Italia
non è sempre così, e nella storia
di
Riva non è stato sempre così, a
dispetto
della fiera rivendicazione
dei
colleghi della Federacciai. Riva
ha
comprato l’Ilva di Taranto dall’Iri,
nel
1995, per 1.450 miliardi di
lire,
poi saliti a 1.649 per il calcolo di
un
conguaglio sugli utili realizzati
durante
la trattativa.
È
VERO CHE la gestione
pubblica
riusciva
a fare della più moderna e
produttiva
acciaieria d’Europa una
voragine
di perdite. Ma tutti sapevano,
allora,
che quell’impianti siderurgici,
in se
e per se, valevano almeno
dieci
volte il prezzo pagato. E
infatti
il gruppo Riva, grazie all’ac -
quisto
di Taranto passò, nel 1995, da
112 a
1.842 miliardi di lire di utile
netto.
Guardate bene i numeri: solo
con i
profitti del primo anno Riva si
riprese
il prezzo pagato. Insomma, il
grosso
degli investimenti del gruppo
Riva
li hanno pagati i contribuenti
italiani.
E del resto non si capirebbe
quale
spirito di sacrificio
abbia
spinto Riva a comprare dal-
l’Iri
nel 1988 l’acciaieria di Genova
Cornigliano,
mentre nel 1994-95 la
conquista
di Taranto fu oggetto di
una
contesa durissima con l’altro siderurgico
di
razza, bresciano Luigi
Lucchini,
e alla vittoria del milanese
non fu
certo estranea l’amicizia ferrea
con
Silvio Berlusconi, che aveva
appena
preso il potere e che si spese
anche
per fargli avere nello stesso
‘94
gli Acciai Speciali di Terni, poi
rapidamente
girati ai tedeschi della
Krupp,
poi ThyssenKrupp.
Nei
quindici anni successivi alla privatizzazione
di
Taranto la famiglia
Riva
ha accumulato miliardi di euro
all’estero,
ma non ha mai speso ciò
che
serviva per ridurre le emissioni
inquinanti
dell’acciaieria. Ha trovato
invece
i 120 milioni da investire
sul
salvataggio dell’Alitalia nel 2008,
quando
Berlusconi lanciò l’appello
ai
“patrioti” per salvaguardare l’ita -
lianità
della compagnia di bandiera,
e
subito dopo l’apertura dell’enne -
sima
inchiesta su Taranto, che
avrebbe
portato quattro anni dopo
all’arresto
di Riva.
Twitter@giorgiomeletti
il fatto quotidiano 1 maggio 2014
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