L’ex Maflow di Trezzano sul Naviglio è diventata Ri-Maflow
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Dagli scarti dell’azienda è nata l’idea di creare una cooperativa per riciclare materiale elettrico
La Ri-Maflow di Trezzano sul Naviglio (Milano)
C’era una volta una fabbrica italiana che produceva tubi per gli impianti di climatizzazione delle auto. Poi è arrivata la crisi e ha spazzato via clienti, commesse e posti di lavoro. Più di trecento. Ora, in quegli stessi capannoni di Trezzano sul Naviglio, nel milanese, alcuni degli operai licenziati si sono “riciclati”. Letteralmente. Così dalla vecchia Maflow è nata la Ri-Maflow, una cooperativa che smonta, separa e ricicla i materiali di prodotti elettrici ed elettronici. Lavatrici, tastiere, monitor. Sempre lì, in via Boccaccio 1, dove i lavoratori per mesi hanno prima manifestato e scioperato contro la chiusura dell’azienda e poi si sono rimboccati le maniche. Coinvolgendo pensionati e giovani senza impiego, e pure alcuni dipendenti silurati dagli stabilimenti industriali vicini. Da disoccupati a imprenditori.
«Abbiamo occupato la fabbrica», dice Michele Morini, 43 anni, che alla Maflow ha lavorato per cinque anni nel reparto prototipia, dove si testavano i prodotti prima di essere consegnati alle casa automobilistiche. «Dall’Audi alla Wolkswagen a Bmw, e perfino la Ferrari», racconta fiero. L’area sulla quale sorgono i capannoni, quattro in tutto (30mila metri quadri di cui circa la metà coperti), è di proprietà di Unicredit, che l’ha affidata in leasing alla Virum srl. «Dopo l’occupazione abbiamo cercato un dialogo con la società per un accordo ufficiale», dice, «all’inizio abbiamo chiesto di poter usare lo spazio gratuitamente in comodato d’uso. Eravamo stati licenziati, non potevamo permetterci di pagare l’affitto. Poi, se l’idea avesse fruttato, avremmo pagato regolarmente». Dalla società, in realtà, un «sì» non è mai arrivato. In ogni caso, Michele e colleghi dicono: «Noi ci siamo e non ce ne andiamo». Alla fine «ci hanno fatto capire che se avessimo fatto i bravi, a loro poteva andar bene». Un accordo, sì, scherza Michele, ma «tacito».
Gli ex operai hanno ripulito i magazzini, riallacciato la fornitura elettrica e si sono messi all’opera. Di lavoro fuori da quell’azienda non ce n’era. Bisognava inventarselo. Proprio lì, dove la Maflow aveva prodotto i suoi tubi dal 1973 (quando si chiamava Murray), diventando una multinazionale con 23 stabilimenti in tutto il mondo. Dal 2007, poi, è arrivata la crisi e i debiti accumulati sono diventati 140 milioni. Nel maggio del 2009 il Tribunale di Milano dichiara lo stato di insolvenza della fabbrica e viene avviata la procedura di amministrazione straordinaria. L’azienda passa in parte nelle mani dell’imprenditore polacco Boryszew, che assume solo 80 dei 320 dipendenti, per poi chiudere dopo soli due anni. Davanti a quei portoni chiusi, gli operai hanno manifestato, urlato, chiesto un lavoro. E alla fine quelle porte le hanno oltrepassate da imprenditori.
Una volta “conquistati” i capannoni, bisognava pensare alla burocrazia. «Così ci siamo costituiti come cooperativa», racconta Michele Morini, «avevamo bisogno di essere un soggetto giuridico per poter prendere commesse, fare accordi ecc.». All’iniziativa hanno aderito in dieci. Tra di loro, non ci sono solo ex operai Maflow in mobilità, ma anche due lavoratori della vicina Novaceta di Magenta, azienda chimico-tessile che dal luglio 2010 ha dato l’avvio alle procedure fallimentari.
Dovevano trovare qualcosa che riuscissero a fare tutti. Senza grandi specializzazioni. E soprattutto senza investimenti iniziali. I capannoni bianchi, che «prima erano pieni di gente e di macchinari», dopo la dismissione della fabbrica erano rimasti vuoti. O quasi. Restavano diversi rottami incustoditi, qualche tubo di gomma e parecchi fogli metallici. Dopo un piccolo corso di formazione, l’idea è stata di buttarsi nel riciclo. E la prima fonte di ricchezza sono stati proprio i resti della Maflow, l’azienda che li aveva licenziati. «C’erano rame, acciaio, alluminio e altri scarti metallici», racconta Michele Morini, «e così siamo partiti da lì. Abbiamo riciclato l’azienda e ci siamo riciclati anche noi».
Per disassemblare computer, motori, stampanti non servono grandi macchinari. Solo «strumenti semplici», dice Morini. Cacciavite, pinze e chiavi inglesi. «Alcuni li abbiamo trovati qui, altri li abbiamo portati da casa». Le basi per partire c’erano tutte. Dopo un mese di lavoro, la cooperativa ha già ricevuto diverse commesse. E si cominciano a vedere i primi guadagni. «Si mettono in contatto con noi diverse persone, molta gente si ferma con la macchina e ci consegna rifiuti», dice Michele. «In più abbiamo incontrato le amministrazioni comunali e i sindaci del circondario per prendere degli accordi. Ma ci sono anche piccole aziende che devono disfarsi di vecchi computer e stampanti che prima non sapevano dove portarli e ora li portano qui». Michele e soci valutano prima se gli strumenti siano o meno funzionanti. Nell’ipotesi in cui i processori girino e le macchine funzionino, «o li ripariamo e li rivendiamo nel nostro mercatino interno, o li usiamo noi stessi», dice, «visto che abbiamo anche bisogno di risistemare gli uffici».
Non solo riciclo, però. Dietro la Ri-Maflow esiste «anche un universo di valori nuovo», dice Michele. La «fabbrica senza padroni», la chiama lui con un linguaggio che ricorda le vecchie battaglie operaie. Per far funzionare un’azienda, dice, «l’imprenditore non è indispensabile. Tenuto conto che molte imprese ora falliscono, vorremmo provarci anche noi. Tanto peggio di così non potevamo stare». Alla Ri-Maflow non esistono gerarchie, non ci sono direttori, presidenti, amministratori. «Tutti siamo uguali». E funziona? «È un esperimento interessante», risponde Michele. «I contrasti sono inevitabili. Sarebbe più comodo avere delle gerarchie. Così invece bisogna stare più attenti, è richiesta più tolleranza, più rispetto reciproco. Bisogna essere più responsabili, più elastici. Non recuperiamo solo vecchi materiali ma anche vecchi valori». Così si sono fissate delle regole. E si sono stilati i turni: 24 ore su 24, sette giorni su sette. «Perché qui abbiamo già subito un tentativo di furto», dice, «il rame fa gola a tanti».
Nei capannoni di via Boccaccio 1, ora vivono anche due profughi che dopo la fine del progetto Emergenza Nord africa rischiavano di restare senza un tetto. «Si chiamano Fred e Naiser», dice Michele. «Si sono scelti due uffici che sono diventati le loro camere. Ogni tanto ci vengono a trovare e ci danno una mano».
I 30mila metri quadri della ex Maflow si popolano ogni giorno di operai, pensionati, laureati in cerca di lavoro e disoccupati. «E c’è anche anche un ex senatore», rivela Michele. Dopo due anni di cassa integrazione, molti dei soci ora percepiscono l’indennità di mobilità. «Con la quale possiamo stare abbastanza tranquilli sulle necessità principali», racconta Michele, che ha una moglie e una figlia di tredici anni. Certo, ora la cooperativa non è ancora in grado di produrre degli stipendi per tutti. Ma la speranza è che «in futuro potremo magari comprare dei macchinari e crescere ancora, diventare di nuovo 200-300 operai e tornare occupare ancora tutti gli stabilimenti». «Sappiamo», ammette, «che tecnicamente ed economicamente non potremo competere con le altre aziende che sono già sul mercato da diversi anni, ma noi possiamo competere con i nostri valori e la nostra storia, che faranno la differenza».
Il video della Ri-Maflow
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