martedì 1 maggio 2018

La questione degli illeciti ambientali nel Basso Lazio . Presenze della criminalità ambientale

Doc. XXIII
                                                                                                            N. 32

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SULLE ATTIVITÀ ILLECITE CONNESSE AL CICLO DEI RIFIUTI
 E SU ILLECITI AMBIENTALI AD ESSE CORRELATI

 Relazione sul ciclo dei rifiuti di Roma Capitale e fenomeni illeciti nel territorio del Lazio
(Relatrici: Sen. Paola Nugnes, Sen. Laura Puppato)

 Approvata dalla Commissione nella seduta del 20 dicembre 2017

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Comunicata alle Presidenze il 20 dicembre 2017
ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 7 gennaio 2014, n. 1
 La questione degli illeciti ambientali nel Basso Lazio

7.2                Presenze della criminalità ambientale
(pag. 410 -416)  
Prima di esaminare il tema relativo alla presenza di rifiuti pericolosi sversati illegalmente negli anni passati – che, come visto, è considerato da sempre un tema socialmente sensibile per la popolazione dell’area – è bene disegnare un quadro relativo alla presenza della criminalità organizzata nell’area.
Si tratta sostanzialmente di elementi riconducibili al clan dei Casalesi, organizzazione, come è noto, particolarmente attiva nel campo del business ambientale, soprattutto tra la fine degli anni ‘80 (la seconda metà del 1988) e gli anni ‘90.
Come già ricordato in sede di audizione della società Ind.Eco il clan disponeva (attraverso alcuni soggetti che verranno compiutamente analizzati) di proprietà importanti proprio a ridosso della discarica. Elemento, questo, che riveste una certa importanza per comprendere appieno il contesto di Borgo Montello.
Le prime notizie sulla presenza di esponenti e di investimenti riconducibili al clan dei Casalesi provengono da alcuni atti di indagine scaturiti dal processo “Spartacus”. Nell'ambito di questa inchiesta il 13 marzo del 1996 la polizia giudiziaria di Latina  interrogò l'allora collaboratore di giustizia Carmine Schiavone “in relazione all'indagine in corso su diversi fenomeni criminosi riguardanti la provincia di Latina”[1]. Il verbale venne poi utilizzato in alcuni procedimenti penali della DDA di Roma (processo “Anni '90” e processo “Damasco”).
Lo Schiavone specificava di riferire notizie “circa le attività criminali condotte in provincia di Latina dal gruppo di appartenenza” ovvero il clan dei Casalesi; tali notizie erano “frutto di conoscenze dirette e di incontri con i soggetti di cui parlo”.
Secondo il collaboratore giustizia – le cui informazioni sono poi state confermate in sede processuale - “il clan dei Casalesi da moltissimi anni ha avviato, nella provincia di Latina, un'opera di infiltrazione e di investimento degli illeciti introiti comunque ricavati”. A capo dell'organizzazione in terra pontina vi era Antonio Salzillo, alias “Capocchione”, nipote di Ernesto ed Antonio Bardellino. Fino al 1988 la famiglia Bardellino era alleata con la famiglia Schiavone, formando un unico gruppo cresciuto in maniera esponenziale negli anni '80 dopo lo scontro con i cutoliani. Salzillo, capo zona di Latina, “ha subito trovato come attività di copertura la cointeressenza occulta nella società dei fratelli Diana, che avevano la concessionaria di veicoli industriali Scania, con sede in Latina” a borgo San Michele. I due fratelli Costantino e Armando Diana[2] sin dalla data del loro trasferimento a Latina erano, secondo Schiavone, “espressione diretta del gruppo dei casalesi in terra pontina”.
L'impresa dei fratelli Diana – spiega Schiavone – aveva partecipato fin dagli anni '80 ad importanti lavori pubblici, come la realizzazione della terza corsia dell'autostrada[3]. Salzillo controllava direttamente la società riscuotendo una percentuale del 10 per cento sulle commesse, versata nelle casse del clan.
L'area controllata da Antonio Salzillo (almeno fino al 1988, anno dell'omicidio di Antonio Bardellino e del prevalere ai vertici dell'organizzazione della famiglia Schiavone, diretta da Francesco “Sandokan” Schiavone) era compresa tra Sabaudia e Roma. Includeva, quindi, la città di Latina e l'intera area nord della provincia. Spiega Schiavone: “Salzillo ricordo che gestiva un gruppo di circa trenta persone che venivano regolarmente stipendiate da me come cassiere del clan. Ogni mese io attribuivo circa cento milioni delle casse del clan al Salzillo perché potesse pagare i suoi uomini. Considerando che lo stipendio dei “soldati” o di coloro che comunque venivano utilizzati per le attività del gruppo era di tre milioni di lire al mese, posso dirvi che i ragazzi del Salzillo erano circa trenta”.
L'area a sud di Sabaudia, compresa tra Terracina e Formia/Gaeta, era controllata da Gennaro De Angelis, che gestiva un florido commercio di automobili. Uomo di fiducia del clan a Formia era il proprietario della discoteca SevenUp (poi distrutta da un incendio, probabilmente doloso) era Aldo Ferrucci. Altra figura sicuramente strategica per il clan a Formia era Ernesto Bardellino, fratello di Antonio, ex sindaco di San Cipriano d'Aversa.
Schiavone aveva già riferito negli interrogatori resi davanti all'autorità giudiziaria di Napoli sugli investimenti realizzati dal clan in provincia di Latina. Nell'interrogatorio del marzo 1996 fornisce ulteriori dettagli, concentrando l'attenzione sull'area di Borgo Montello (comune di Latina).
Altre informazioni sono desumibili dallo stenografico dell'audizione di Carmine Schiavone in Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti nella XIII legislatura, del 7 ottobre 1997:
“Per quanto riguarda i rifiuti noi già arrivavamo fino alla zona di Latina; Borgo San Michele e le zone vicine erano già di influenza bardelliniana, perché avevano società che vendevano nella zona di Latina insieme ai Diana”. Lo Schiavone aggiunge poi un dettaglio molto importante: “Dopo la guerra del 1988 contro i Bardellino, arrivammo noi [ovvero la famiglia Schiavone]. Io e mio cugino avevamo comprato un'azienda, che mi sono fatto sequestrare perché era 'sporca', proprio nella zona di Latina”[4].
Rispetto a questo investimento lo Schiavone aveva riferito nel 1996: “Come ho già avuto modo di riferire nella mia collaborazione a Napoli, proprio a Latina il mio gruppo ha realizzato un investimento di notevole entità in un'azienda agricola a Borgo Montello, ora non so se sottoposta a sequestro, costata alle casse del clan circa tre miliardi, comprensivi dei lavori fatti nei vigneti e nelle altre colture”[5]. 
Ancora: “L'azienda agricola acquistata qui a Borgo Montello, di cui ho già parlato, era intestata a mio cugino Antonio Schiavone fu Giovanni, persona incensurata ed alla quale mi rivolsi io per chiedere di intestarsi il bene che comunque consideravo mio e di mio cugino Sandokan” [6].
Dunque dopo il 1988 – anno dell'omicidio di Antonio Bardellino e dell'ascesa del gruppo Schiavone ai vertici del clan – lo stesso Carmine Schiavone, in qualità di cassiere del gruppo, decide di investire la considerevole cifra di tre miliardi di lire nell'area di Borgo Montello, dove, fin dal 1972, funzionava una discarica per rifiuti solidi urbani.
Rispetto a questo investimento esiste un riscontro documentale diretto relativo all'acquisto della proprietà e alla confisca di una parte delle terre acquistate dalla famiglia Schiavone. Il 6 ottobre 1989 il notaio Raffaella Mandato di Latina registra presso la conservatoria dei registri immobiliari di Latina la nota di trascrizione dell'atto di vendita a favore di Antonio Schiavone[7], di un fondo rustico sito in località Borgo Montello, via del Pero, di diciassette ettari[8]. Una seconda proprietà intestata a Nicola Schiavone, sita nel comune di Cisterna di Latina, località Piano Rosso, via della Curva Snc (poco distante da Borgo Montello) è stata definitivamente confiscata il 7 febbraio 2002.
La collocazione geografica dei diciassette ettari acquistati nel 1989 da Antonio Schiavone – su mandato dell'allora cassiere del clan, secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone – è particolare.
La proprietà è infatti sita a fianco dell'area occupata, fin dal 1972, dalla discarica di Borgo Montello.
La scelta della zona sembrerebbe non essere casuale. Dichiarava nel 1996 Schiavone: “Mi diceva Salzillo, ai tempi in cui faceva ancora parte del nostro gruppo, che lui operava con la discarica di Borgo Montello. Da tale struttura lui prendeva una percentuale sui rifiuti smaltiti lecitamente ed in tale struttura lui faceva occultare bidoni di rifiuti tossico o nocivi per ognuno dei quali mi diceva di prendere 500 mila lire”[9]. L'indicazione del prezzo stabilito per il presunto smaltimento illecito di rifiuti pericolosi era in linea con “il mercato” gestito dai casalesi anche nella zona del casertano, come lo stesso Schiavone ha ricostruito in Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti: “Pagavano 500 mila lire a fusto, perché per distruggerli dovevano avere una attrezzatura speciale, per cui ci volevano 2 milioni e mezzo. Allora lui [si riferisce a Chianese e alla DiFraBi] incassava per la ditta i 2 milioni e mezzo (o i due milioni) ed il clan incassava 500 mila lire a fusto”[10].
Dunque lo schema utilizzato fino al 1988 era quello classico e tristemente noto dell'area dell'agro aversano, con un accordo tra imprese, intermediari e clan dei casalesi. Un sistema che coinvolgeva anche la provincia di Latina, come lo stesso Schiavone ha spiegato.
L'inizio degli affari dei casalesi nel campo dello smaltimento illegale di rifiuti pericolosi ha una data precisa.
Così ricostruisce i fatti Schiavone davanti alla Commissione:
“Questo avveniva dal 1988 a salire. Già prima, però, la gestivano i Bardellino […] Presidente: […] Mi è sembrato di capire che l'attività di smaltimento illegale dei rifiuti fosse posta in essere, per conto del clan dei Bardellino, in epoca antecedente al 1988 in tutta la provincia di Latina. E' così?
Schiavone: Sì. Quando noi abbiamo fatto gli scavi... da noi gli scavi per la superstrada sono iniziati nel 1987, nel periodo giugno-luglio. Man mano che finivano gli scavi, questi ultimi venivano sistematicamente riempiti”[11].
L'investimento del clan nell'area nord della provincia di Latina, dunque, è stato considerevole, sia nell'era della gestione Bardellino, sia successivamente con il clan Schiavone. Oltre alla cifra di tre miliardi di lire – indicata dall'ex collaboratore di giustizia Schiavone come investimento nei terreni e  nelle opere nell'area di Borgo Montello – il cartello dei Casalesi avrebbe mantenuto una struttura militare notevole, con un costo di circa 100 milioni di lire al mese, pari a 1,2 miliardi di lire all'anno. Questo sarebbe avvenuto almeno per quattro anni (dal 1988, anno della morte di Antonio Bardellino, al 1992, anno dell'uscita di Schiavone dal clan), con una cifra ipotetica di quasi cinque miliardi di “costo di gestione”.
Secondo gli esiti di alcune indagini della direzione distrettuale antimafia (“Anni '90”) il clan dei Casalesi avrebbe tentato di entrare nella piazza del comune di Latina anche nella gestione del traffico di stupefacenti e delle estorsioni, scontrandosi con il clan sinti dei Di Silvio e Ciarelli, divenuti, poi, predominanti. La situazione degli ultimi anni vede una mappa dove il cartello dell'agro aversano mantiene una forte influenza sul sud pontino (sostanzialmente fino a Terracina), dopo aver lasciato la piazza del capoluogo ai sinti[12] (cfr. audizione del Questore di Latina Giuseppe De Matteis in commissione antimafia, XVII legislatura, 18 maggio 2016).
Nel 2008 gli investimenti della famiglia Schiavone nell'area di Borgo Montello vengono dismessi, con la vendita dell'area di diciassette ettari nella via adiacente la discarica a favore della società Indeco. Negli anni precedenti l'altro immobile adibito a fattoria nel comune di Cisterna di Latina (zona Piano Rosso) era stato, come già detto, confiscato. Dunque il periodo di riferimento oggetto dell'approfondimento è di due decenni, dal 1989 al 2008.
Il fattore incaricato dalla famiglia Schiavone per curare gli immobili acquistati nel comune di Latina – Borgo Montello – è Michele Coppola. Quando nel 1996 Carmine Schiavone depone davanti ai carabinieri di Latina, Coppola è già conosciuto dalle autorità giudiziarie. Risulta dalle banche dati un primo arresto eseguito il 5 dicembre 1995, per associazione mafiosa (articolo 416-bis del codice penale) e porto abusivo d'armi; verrà scarcerato il 4 marzo 1997.
Michele Coppola è stato poi colpito da un fermo per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso il 26 novembre del 2009, nell'ambito del procedimento penale 56021/09 r.g.n.r. della DDA di Napoli; il procedimento si è concluso con una condanna passata in giudicato nel 2015.
Dalle informazioni contenute negli archivi della polizia giudiziaria Coppola ha detenuto fin dagli anni '80 una importante quantità di armi, anche automatiche. Circostanza che conferma quanto riferito da testimoni locali, che hanno parlato di numerose armi detenute e mostrate dal Coppola[13].
Nella sua deposizione del 1996 Carmine Schiavone dichiara:
“L’azienda agricola acquisita qui a Borgo Montello, di cui ho già parlato, era intestata a mio cugino Antonio Schiavone fu Giovanni, persona incensurata e alla quale mi rivolsi io per chiedere di intestarsi il bene che comunque consideravo mio e di mio cugino Sandokan. So che dopo il mio pentimento il gruppo ha minacciato Antonio Schiavone che fu costretto a cedere la proprietà alla società dei Coppola, denominata Enogea. Tali Coppola, cognati di Walter Schiavone, fratello di Sandokan, erano in realtà i fattori. In effetti il fattore era Michele Coppola, da me e da Sandokan sistemato qui a Latina in quanto si era sposato e non aveva una casa. Lo piazzammo lì e gli passavamo anche tre milioni al mese dalla cassa del clan poiché l’azienda non rendeva ancora. Antonio Coppola, fratello di Michele, era rimasto a Casale, dove aveva un’impresa e, fino a quando non ho deciso di collaborare, non si occupava dell’azienda di Latina”.
L’episodio criminale più noto – per il clamore suscitato – avvenuto nella zona di Borgo Montello è l'omicidio dell'anziano parroco don Cesare Boschin, avvenuto nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1995. Sul caso ha indagato la procura della Repubblica di Latina, con l'ausilio dei carabinieri (stazione di Borgo Pogdora e NORM della Compagnia di Latina); una specifica delega venne affidata alla Questura di Latina, squadra mobile, nel 1996.
Don Cesare Boschin venne ritrovato cadavere verso le ore 9 del 30 marzo 1995 da Franca Rosato, sua assistente. Era sdraiato sul suo letto con le mani legate da nastro adesivo, un giro di nastro adesivo lento attorno al collo (probabilmente sceso dalla bocca) e un asciugamano annodato attorno ad un gamba. In sede di ricognizione del cadavere venne ritrovata la dentiera tra la gola e l'esofago, facendo ipotizzare la morte per asfissia.
L'allora procuratore della Repubblica di Latina delegò per le indagini il pubblico ministero Barbara Callari. Il 21 ottobre 1995, dopo alcuni mesi di indagini il pubblico ministero chiese l'archiviazione; il fascicolo risulta archiviato dal Gip il 22 dicembre 1995.
Due mesi dopo, il 20 febbraio 1996, viene segnalata al pubblico ministero l’opportunità di chiedere la riapertura indagini con informativa a firma del comandante del NORM Carabinieri di Latina. Un’ulteriore informativa della Squadra mobile di Latina, del 22 febbraio 1996 è inviata alla procura con analoga richiesta di apertura delle indagini.
Il 1° marzo 1996 il pubblico ministero chiede al Gip la riapertura della indagini. Il 2 maggio 1996 vengono iscritti nel registro degli indagati un sacerdote di nazionalità colombiana e un cittadino polacco. L'8 luglio 1996 il procuratore Francesco Lazzaro assegna il fascicolo al pubblio ministero Pietro Allotta, che il 2 novembre 1999 chiede l'archiviazione del procedimento, accolta il 9 gennaio 2001 dal giudice per le indagini preliminari. Nessun ulteriore elemento a carico dei due indagati era stato acquisito.
Nella prima fase delle indagini (30 marzo 1995 – 21 ottobre 1995) i Carabinieri seguirono esclusivamente la pista del delitto derivato da un tentativo di rapina o da contrasti economici (era stata individuata l'ipotesi di prestiti effettuati dal parroco). Vennero ascoltati a sommarie informazioni diversi abitanti della zona, alcuni soggetti tossicodipendenti o conosciuti per reati minori. Non venne iscritto nessuno nel registro degli indagati. Particolarmente attivo in questa fase era il maresciallo della stazione carabinieri di Borgo Pogdora, Antonio Menchella.
Nella seconda fase d'indagini (dal febbraio 1996) l'attenzione investigativa si concentrò su un cittadino polacco senza fissa dimora, che aveva abbandonato la zona di Latina il 30 marzo 1995, nelle prime ore della mattina e su un sacerdote colombiano, legato a don Boschin da stretti rapporti, pare anche di natura economica (avrebbe ricevuto un prestito dall'anziano parroco), ritenuto inizialmente legato ad una famiglia di narcotrafficanti di Medellin (ipotesi poi caduta a seguito di specifica ricerca informativa, che diede risultato negativo). Anche queste due ipotesi si rivelarono inconsistenti e non supportate da indizi.
Per quanto riguarda il movente è da notare che nulla di valore venne sottratto al parroco: al polso aveva un orologio, nel portafogli circa 600 mila lire e altri oggetti (anche preziosi) nella canonica. L'ipotesi, dunque, di un omicidio come conseguenza di una rapina sembra non avere nessun fondamento negli elementi oggettivi desumibili dagli atti delle indagini; dai quali non emergono particolari approfondimenti rispetto ad altre ipotesi investigative.
Rispetto al possibile legame dell’omicidio Boschin con la discarica di Borgo Montello nel fascicolo sono reperibili pochi elementi. Il principale riguarda la deposizione di un agricoltore residente nella zona, ex seminarista, vicino a don Cesare Boschin, Claudio Gatto, che dichiarò agli investigatori: “Ricordo infatti che una volta, circa sei-sette anni fa, don Cesare, nel narrarmi di persone dirigenti della discarica che si erano resi disponibili alla riparazione del tetto della chiesa, probabilmente per accattivarsi la sua simpatia in considerazione che la discarica non era e non è ben vista dagli abitanti del luogo e da don Cesare in particolare, questi rispose che ‘con i soldi miei la chiesa posso rifarla dalla prima pietra’”. Lo stesso Gatto il 29 aprile 1995 dichiara al pubblico ministero:
 ADR: Confermo quanto dichiarato ai CC; voglio precisare che la figura di don Cesare - che negli ultimi due anni effettivamente si era ritirato quasi completamente a vita privata – conservava comunque una grande importanza nel borgo; ciò in quanto da una parte costituiva la memoria vivente della popolazione del borgo e dall'altra negli anni passati aveva di fatto partecipato alla vita del luogo; intendo riferirmi in particolare alle vicende che hanno riguardato la discarica negli anni passati ed attualmente la realizzazione dell'inceneritore.
ADR: In proposito posso aggiungere che negli anni passati don Cesare aveva manifestato chiaramente la sua opposizione alla realizzazione della discarica in ciò sostenendo quel comitato di cittadini che io con altri del borgo avevamo fondato; in particolare mi riferisco al comitato per la tutela ambientale del quale io faccio parte così come Solazzi Loreto, Menegatti Rolando Favoriti Vittorio - attuale presidente della circoscrizione – Gomiero Valerio, Paolo Bortoletto e svariati altri”[14].
Queste dichiarazioni non vennero, però, approfondite nel corso delle indagini. E' anche vero che altri abitanti del luogo affermarono la sostanziale estraneità di don Cesare Boschin alle attività del comitati antidiscarica. In tempi più recenti Gatto ha ulteriormente rafforzato le sue dichiarazioni in diversi articoli di stampa.
Gli investigatori esclusero completamente anche la pista della criminalità organizzata.
Michele Coppola – residente all'epoca dei fatti a Borgo Montello, a ridosso della discarica - non è stato mai interessato dalle indagini, pur essendo già all'epoca un soggetto molto conosciuto nella zona ed essendo nota alla polizia giudiziaria la detenzione di diverse armi da fuoco (fatto registrato, come già detto, nelle banche dati delle forze di polizia fin dagli anni '80). Anche il successivo arresto di Coppola nell'ambito dell'inchiesta sul clan dei casalesi “Spartacus” (avvenuto il 5 dicembre 1995) non spinse gli inquirenti ad approfondire un eventuale coinvolgimento del clan nell'omicidio. Nulla è accaduto neanche dopo le dichiarazioni di Carmine Schiavone del marzo 1996, davanti a quelle stesse forze di polizia delegate alle indagini.
L’inchiesta appare per alcuni aspetti lacunosa. Nel fascicolo non sono presenti attività tecniche o analisi di tabulati telefonici (ad esempio una analisi del traffico telefonico di don Cesare Boschin avrebbe potuto fornire indicazioni importanti) e le indicazioni, anche se parziali, fornite da alcuni testimoni su una eventuale pista investigativa riconducibile ai traffici illeciti di rifiuti non venne seguita fino in fondo. 
A distanza di oltre due decenni dai fatti appare oggi difficile riuscire a ricostruire gli eventi. La figura di don Cesare Boschin, in ogni caso, è nel tempo divenuta una icona della lotta alla criminalità mafiosa. Dunque sarebbe in ogni caso auspicabile riconsiderare quelle indagini, chiuse dall’autorità giudiziaria, per tentare di ricostruire almeno il contesto, ascoltando anche i tanti collaboratori di giustizia che hanno già illustrato fatti relativi al sud del Lazio.




[1]          Regione Carabinieri del Lazio, Comando provinciale di Latina. Verbale d'interrogatorio di persona imputata in procedimento eventualmente connesso del 13 marzo 1996, pagina 1. L'interrogatorio di Schiavone avviene alcuni mesi dopo l'esecuzione della OCC “Spartacus”, del 5 dicembre 1995, e fu svolto dal t. col. Dei Carabinieri Vittorio Tommasone, dal commissario della Polizia di Stato Francesco Di Maio, dall'ispettore superiore Luigi Pescuma e dal maresciallo Alessandro Pagliaro.
[2]          Uno dei due fratelli potrebbe identificarsi con Diana Costantino fu Salvatore Nicola  e  di  Cirillo  Teresa,  nato  a  S.  Cipriano  d'Aversa  il 12.6.1931,  residente  a  Casapesenna,  via  Quasimodo  n.  4,  imprenditore  edile,  detto  "'O  repezzato”, deceduto  in  data  17/02/2005,  tratto  in  arresto per  associazione  a  delinquere  di  stampo  mafioso, nell’ambito dell’operazione denominata  “Spartacus 1” (cfr. ordinanza cautelare N. 36856/01 R.G.N.R Dda di Napoli nei confronti di Nicola Cosentino).
[3]          Da una ricerca sull'archivio dell'agenzia ANSA risulta che i lavori di realizzazione della terza corsia dell'autostrada Roma-Napoli sono iniziati a metà degli anni '80, per concludersi in un periodo precedente il 1990, anno dei Campionati mondiali di calcio a Roma.
[4]          Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, XIII legislatura, audizione di Carmine Schiavone del 7 ottobre 1997 (documento declassificato, deliberazione ufficio di Presidenza della Camera numero 50 del 31 ottobre 2013), pagina 18.
[5] Regione Carabinieri del Lazio, Comando provinciale di Latina (doc. cit.), pagina 2
[6] Regione Carabinieri del Lazio, Comando provinciale di Latina (doc. cit.), pagina 6
[7] Nato a San Cipriano d'Aversa (CE) il 17 marzo 1946
[8] Conservatoria dei registri immobiliari di Latina, nota di trascrizione Reg. Particolo 13475 del 19 ottobre 1989
[9] Regione Carabinieri del Lazio, Comando provinciale di Latina (doc. cit.), pagina 5
[10] Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, XIII legislatura, audizione di Carmine Schiavone del 7 ottobre 1997 (doc. cit.), pagina 15
[11] Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, XIII legislatura, audizione di Carmine Schiavone del 7 ottobre 1997 (doc. cit.), pagina 19
[12] Ne ha riferito il Questore di Latina, Giuseppe De Matteis, in audizione davanti alla Commissione antimafia, il 18 maggio 2016
[13] Vedi, infra, le testimonianze raccolte dalla Commissione
[14] Verbale di assunzione di informazioni del 29 aprile 1995, rese davanti al pubblico ministero Barbara Callari (pagina 212 del fascicolo).


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