venerdì 23 febbraio 2018

Maxi tangente, colpo all'Eni: ora rischia di pagare nove miliardi La Nigeria vuole dalla società italiana un gigantesco risarcimento per la mazzetta pagata al vecchio governo di Abuja. Descalzi, Scaroni e altri dirigenti alla sbarra anche a Milano: 
il processo partirà il 5 marzo

di Paolo Bondiani
http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/02/20/news/eni-rischia-di-pagare-nove-miliardi-1.318435
alla corruzione miliardaria dell’Eni in Nigeria è successo di tutto. E dopo mesi di manovre torbide, culminate con un omicidio, il colosso dell’energia controllato dallo Stato italiano deve fronteggiare rischi legali colossali. Il danno finale della maxi-tangente per il petrolio nigeriano potrebbe arrivare fino a 9 miliardi di euro. Una cifra spaventosa.

Il presidente della Nigeria ha infatti deciso di cestinare le proposte politiche di chiudere senza processi e senza sanzioni lo scandalo Opl 245, sigla che identifica la controversa licenza per il greggio ottenuta dall’Eni, in alleanza con la Shell, nel paese più popolato del continente nero.

Il ricchissimo giacimento è anche al centro del processo per corruzione internazionale che si aprirà a Milano il 5 marzo, il giorno dopo le elezioni. L’attuale numero uno dell’Eni, Claudio Descalzi, il suo predecessore, Paolo Scaroni, e altri top manager di Eni e Shell - che respingono tutte le accuse - sono imputati di aver autorizzato il pagamento della tangente più grossa che sia mai stata scoperta dai tempi di Mani Pulite: un miliardo e 92 milioni di dollari. Un fiume di soldi destinati in teoria allo Stato nigeriano ma in realtà intascati interamente da ex ministri, politici e faccendieri legati all’ex presidente Goodluck Jonathan.

La vicenda s’incrocia con le indagini delle procure di Roma e Messina su una cordata di presunte toghe sporche: magistrati che sarebbero stati comprati da avvocati. Un ex pm di Siracusa, in particolare, è accusato di essersi fatto corrompere da un legale dell’Eni per aprire una falsa inchiesta su un inesistente complotto contro Descalzi, nel tentativo (fallito) di fermare le indagini milanesi. Un intrigo giudiziario di cui resta da capire il movente: perché, pur di bloccare il processo contro l’Eni, si sarebbe arrivati a inventare una fanta-indagine a Siracusa? Come mai era tanto importante fermare i magistrati milanesi?

La risposta arriva dalla Nigeria e vale diversi miliardi. L’attuale presidente, Muhammad Buhari, è un ex generale che ha vinto le elezioni nel 2015 promettendo una durissima lotta contro la corruzione, piaga che infesta e impoverisce la nazione africana dai tempi della dittatura di Sani Abacha. Il governo di Buhari è nato però dalla fusione di quattro partiti e alcuni gruppi parlamentari sono ancora condizionati dal clan Abacha. Anche l’attuale ministro della giustizia, Abubakar Malami, è un avvocato che in passato ha difeso la famiglia dell’ex dittatore. Quando si scopre la maxi-tangente petrolifera, al centro di indagini in Italia, Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti, il ministro nigeriano deve aprire una procedura sanzionatoria. Malami affida il caso al capo della procura federale, che dipende da lui. Smentendo le aspettative di insabbiamento, nel 2016 il procuratore nazionale presenta un rapporto esplosivo: gli accordi del 2011 con Eni e Shell vanno considerato «vuoti e nulli»; la Nigeria deve riassegnare la licenza con una nuova gara internazionale. Questo significa che l’Eni rischia di aver pagato un miliardo e 92 milioni per niente. E con la quota della Shell si arriverebbe a 1,3 miliardi di perdita diretta, oltre alle spese già effettuate per esplorare il giacimento sottomarino.

Al conto vanno aggiunte le sanzioni, calcolate dal procuratore in base alle «migliori pratiche della giustizia internazionale»: sei miliardi e mezzo di dollari, cinque volte il valore della licenza corrotta. Senza calcolare i costi di riacquisto del giacimento e le altre multe applicabili in Italia e all’estero.

Sulla maxi tangente indaga anche l’autorità nigeriana anti-corruzione, guidata da un ex poliziotto, Ibrahim Magu, 54 anni. All’inizio del 2017 Magu fa partire il primo processo contro due ex ministri e altri politici nigeriani. Il capo dell’anticorruzione chiede anche il sequestro della licenza di Eni e Shell, che in febbraio viene convalidato dall’Alta Corte. A quel punto iniziano le contromanovre. La prima è legale: Eni e Shell vincono un appello all’Alta Corte e riottengono la licenza. Ma l’Anticorruzione presenta un nuovo ricorso, ancora pendente. Mentre Magu, intervistato dall’Espresso, riconferma la linea dura: revoca della licenza e «multe per almeno due miliardi contro Eni e Shell». Il ministro Malami invece avvia una trattativa riservata con le due multinazionali, di cui filtrano sulla stampa i dati essenziali: stop ai processi, licenza confermata, l’unica richiesta è far entrare nell’affare anche una società statale.

Al processo nigeriano per corruzione, intanto, i politici sotto accusa restano assenti, per cui gli avvocati chiedono di annullare il giudizio. E nell’attesa calano un asso: una lettera segreta del ministro Malami al presidente Buhari, datata dicembre 2017. Il ministro conferma «l’irregolarità» della licenza, ma sostiene che non ci sarebbero prove sufficienti per processare Eni e Shell per corruzione. Contro le indagini si schiera pure il ministro del petrolio. Sentito dal Parlamento, il capo dell’anticorruzione ribadisce però la linea opposta: «Contro la corruzione in Nigeria dobbiamo agire o morire». Appena 48 ore dopo, un commando di killer organizza un agguato nella casa di Magu, che si salva, mentre il capo della sua scorta resta ucciso.

Ora tutto dipende dal presidente. Che secondo quanto risulta all’Espresso, ha già deciso: nessun compromesso, la maxi corruzione va punita. A confermarlo sono fonti molto vicine al presidente, in stretto contatto con Re:Common, l’organizzazione internazionale che ha presentato la prima denuncia contro Eni e Shell a Milano. Le fonti nigeriane precisano che il presidente Buhari, di fronte allo stop del ministro, ha chiesto all’Anticorruzione la sua versione dei fatti. Il rapporto scritto gli è arrivato però edulcorato, modificato da ignoti. A quel punto il presidente ha voluto incontrare di persona il capo dell’Anticorruzione, Magu, che ha potuto ripresentargli il dossier integrale. Dopo averlo studiato, il presidente ha trasmesso a Magu una risposta scritta di suo pugno: l’autorizzazione ufficiale a «procedere con il caso giudiziario fino alle sue logiche conseguenze». Per l’Eni sarebbe un disastro, a meno di nuovi colpi di scena nigeriani.

Per rendere più chiara questa complessa vicenda, abbiamo riassunto in un grafico  i risultati dell’inchiesta della procura di Milano: è la ricostruzione dei bonifici bancari.

Nel maggio 2011, per comprare la licenza Opl 245, l’Eni versa un miliardo e 92 milioni su un conto inglese del governo nigeriano. Per questo Eni e Shell dicono e ripetono dall’inizio delle indagini di aver «trattato solo con il governo Jonathan», senza mediatori in odore di tangenti, e «versato l’intero prezzo allo Stato nigeriano». Il problema è che nelle casse della nazione africana non è arrivato neppure un soldo. Nell’agosto 2011 infatti spariscono 801 milioni di dollari. Quattrocento finiscono alla Malabu Oil and Gas Limited, una società offshore controllata da Dan Etete, ex ministro del petrolio con il dittatore Abacha. Proprio Etete, nel 1998, aveva assegnato la licenza alla Malabu, presentata come una società esterna: in pratica il ministro ha regalato il giacimento a se stesso. Oggi Etete è incastrato perché ha usato personalmente nove milioni di dollari della Malabu per comprarsi, tra l’altro, un jet privato e tre Cadillac blindate. Il resto del suo bottino è stato distribuito tra altre offshore (ancora anonime), faccendieri e politici nigeriani, tra cui le indagini milanesi hanno identificato l’ex ministro della giustizia Bayo Ojo.

Nell’agosto 2011 sparisce anche la seconda fetta del tesoro: altri 401 milioni di dollari finiscono sui conti di tre offshore controllate da Abubakar Aliyu, che si presenta come «consigliere del presidente Goodluck Jonathan». Soprannominato dagli inquirenti americani «mister corruzione», Aliyu ritira in banca oltre 54 milioni in contanti. Altri soldi vengono distribuiti a presunti prestanome di senatori, deputati ed ex ministri.
La terza quota del tesoro, 215 milioni, era stata bloccata su richiesta di un presunto mediatore, Obi Zubelum, che rivendicava la sua provvigione da Etete. Anche se Eni e Shell giurano che non ci fu nessun mediatore, Obi riesce a farsi assegnare 118 milioni da un giudice inglese. E ne gira una bella fetta, 21 milioni di franchi svizzeri, a un italiano, Gianluca Di Nardo, socio di Luigi Bisignani: il piduista già condannato per la maxi-tangente Enimont, che era in ottimi rapporti con Scaroni, allora numero uno dell’Eni.

Al mediatore Obi si lega anche un altro troncone italiano. I pm milanesi, che in questo caso però non hanno prove documentali, sospettano che circa 50 milioni in contanti siano finiti a uno o più manager dell’Eni. Vincenzo Armanna, l’unico che sembrava collaborare con la procura, ha accusato Roberto Casula, l’attuale numero due dell’Eni. Ma la sua credibilità è diventata dubbia quando la Guardia di Finanza ha scoperto che proprio Armanna nel 2012 ha ricevuto un bonifico di 917 mila dollari dall’ex ministro nigeriano Bayo Ojo, a suo dire «per un’eredità» estranea alle tangenti.

Di certo dalle varie offshore è uscita una somma enorme, oltre 384 milioni di dollari, attraverso agenzie di cambio valuta: decine di valigie piene di soldi, intascati da ignoti. I ricercatori di Re:Common sottolineano che la Nigeria, con il miliardo rubato dai corrotti, potrebbe pagare «l’80 per cento di tutte le spese annuali per la sanità del Paese». Per ora, in quella nazione ricca di gas e petrolio, la popolazione resta poverissima: le inchieste sulla corruzione aiutano anche a capire perché tanti nigeriani continuano a fuggire dall’Africa per emigrare in Italia.


Aggiornamento del 22 febbraio 2018
Preciso che "Non sono socio di Bisignani"

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