mercoledì 27 aprile 2016

Italia, i costi nascosti del nucleare 30 anni di referendum e scorie

Tra le «ricadute» del disastro di Chernobyl nel nostro Paese va annoverato anche il risultato delle consultazioni popolari che nel novembre 1987 e nel giugno 2011 fermarono le centrali della penisola. Oggi resta il problema dello smaltimento e smantellamento dei siti
di Silvia Morosi
L’8 e 9 novembre 1987 l’Italia ha detto no all’uso dell’energia atomica con il primo, storico referendum sul tema.  Il Paese patria di Enrico Fermi (nella foto sotto), il primo a innescare, nel 1942 a Chicago, una reazione nucleare a catena controllata, utilizzando uranio naturale all’interno di un blocco di grafite pura che rallentava i neutroni. La maggioranza dei cittadini che andò alle urne votò per il «sì», abrogando una serie di norme e orientando le successive scelte in ambito energetico in direzione contraria all’uso del nucleare. Il cosiddetto «referendum sul nucleare» non fu però, e non poteva esserlo, un voto sul «nucleare sì, nucleare no». I 3 quesiti riguardavano normative relative alla localizzazione degli impianti, l’abrogazione delle compensazioni agli enti locali che ospitavano centrali (anche a carbone) e il divieto all’Enel, allora azienda di Stato, di partecipare a progetti nucleari, anche all’estero. Il quorum per tutti e tre i quesiti fu largamente raggiunto e i «sì» furono nei tre casi superiori al 70%. In quell’occasione gli italiani furono chiamati a esprimersi anche su responsabilità civile dei giudici e commissione inquirente. Per la prima volta i «sì» vinsero in tutti e cinque i casi.

L’effetto di Chernobyl sul primo referendum

Occorre ricordare che erano gli anni della corsa agli armamenti e che l’anno precedente si era verificato il disastro di Chernobyl, di cui ricorre quest’anno il trentennale (all’1.45 del 26 aprile 1986). Secondo il rapporto 2006 del «Chernobyl Forum» dell’Onu (sfiora l’icona blu per consultare il testo) — l’unico mai pubblicato — meno di 50 furono i morti legati all’incidente e ben 4 mila i casi di decessi per cancro alla tiroide(sviluppato soprattutto nei bambini) «collegabili» all’incidente. Un disastro che, per la prima volta, fece prendere coscienza di come un giorno il genere umano sarebbe potuto incorrere nella autodistruzione. Con un secondo referendum, il 12 e 13 giugno 2011, si chiuse definitivamente la porta al nucleare, abrogando nuove norme che consentivano la ripresa di una strategia energetica basata anche sull’energia atomica.

Le verità negate sui numeri

Il voluminoso rapporto di oltre 600 pagine «Chernobyl’s legacy: Health, environmental and socio-economic impacts» è stato realizzato da otto agenzie delle Nazioni Unite assieme ai governi di Russia, Bielorussia e Ucraina, riuniti nel «Chernobyl Forum». Lo scopo è chiarire una volta per tutte gli effetti di Chernobyl a vent’anni dal disastro nucleare. Il rapporto fa scalpore, soprattutto tra quanti da due decenni lavoravano nelle zone contaminate a fianco delle vittime dell’incidente che sprigionò 50 tonnellate di materiale radioattivo pari a 200 volte la bomba di Hiroshima, liberando nell’atmosfera una nube tossica mai vista prima nella storia dell’umanità. I dati però vengono contestati e in molti parlano di «verità negate». Come riferito da Greenpeace nel 2011, ad esempio, le autorità ucraine hanno stimato che un totale di 5 milioni di persone abbiano sofferto per la catastrofe nucleare e che una buona parte di loro viva ancora nelle regioni contaminate. Le conseguenze della contaminazione radioattiva — tra malattie al sistema immunitario, cardiache, cancro — spiega l’organizzazione «potrebbero causare ancora tra i 100mila e i 400mila morti nelle tre ex repubbliche sovietiche».

2009, la mappa italiana delle possibili centrali

Nonostante l’esito delle due consultazioni referendarie, ad oggi in Italia esistono ancora sette siti nucleari, ex centrali elettriche e siti di stoccaggio. Nel 1987 erano presenti 4 centrali nucleari: Trino Vercellese  (Vercelli),  Caorso  (Piacenza),  Latina e Garigliano (Caserta). A queste va aggiunto Montalto di Castro (Viterbo), dove era in costruzione un quinto impianto. Il referendum, come detto, bloccò i lavori e portò alla chiusura dei siti funzionanti. Il nucleare, però, non ha mai smesso di essere uno dei temi di interesse (e anche una preoccupazione) dei governi. Basti pensare che nel febbraio del 2009 il nostro Paese firmò un accordo con il governo francese per realizzare quattro reattori di tecnologia EPR (centrali di «terza generazione») da 1.600 megawatt ciascuno. L’intesa tra Silvio Berlusconi e Nicholas Sarkozy prevedeva la cooperazione sulla produzione di energia con l’atomo. Lo scopo dichiarato di questa politica era tagliare le emissioni di gas serra, ridurre la dipendenza energetica dall’estero e abbassare il costo dell’energia elettrica all’utente finale.

La ripresa del dibattito e l’addio ufficiale al nucleare

L’Italia dei Valori il 9 aprile 2010 presenta una proposta di referendum sul nuovo programma elettronucleare italiano. A inizio marzo 2011, viene proposta come data per lo svolgimento del referendum il 12 giugno e 13 giugno 2011, nell’ambito dei Referendum abrogativi del 2011. A seguito dell’incidente di Fukushima Daiichi dell’11 marzo 2011, il Consiglio del ministri stabilisce una moratoria di 12 mesi del programma nucleare italiano. La moratoria non riguarda l’Agenzia per la sicurezza nucleare, né il deposito di scorie. La consultazione viene però confermata:il quesito — in parte modificato rispetto alle intenzioni iniziali — dà mandato al governo, pur annullando la costruzione delle nuove centrali, di attuare successivamente il programma di energia nucleare in base alle risultanze di una verifica condotta sia dall’agenzia italiana che dall’Unione europea sulla sicurezza degli impianti. L’esito vede il raggiungimento del quorum con il 54% di votanti e una maggioranza di oltre il 94%. Mettendo un punto definitivo al nuovo programma nucleare.

L’onda lunga di Fukushima

Sono trascorsi cinque anni da quell’11 marzo del 2011, quando tre catastrofi, di cui due naturali, cancellarono 400 chilometri di coste giapponesi. Il bilancio fu di quasi 16.000 morti, 2.572 dispersi e 160mila evacuati, con oltre 127mila edifici distrutti. Il secondo più grave disastro nucleare dopo Chernobyl. Con una differenza sostanziale: se l’impatto del disastro in Ucraina fu quanto meno circoscritto dopo l’esplosione a cielo aperto, l’emergenza a Fukushima (nella foto sotto, Ap) non si può ancora definire conclusa. Tra reticenze e ritardi nelle bonifiche, il Giappone — che dell’atomo sicuro aveva fatto un credo — si trova oggi a vivere tra città abbandonate e radiazioni ben al di sopra del limiti consentiti. Il governo di Tokyo ha speso finora 135 miliardi di euro per bonificare le città della prefettura di Fukushima abbassando il livello delle radiazioni, ma l’incubo non è finito. Come spiega il rapporto di Greenpeace Giappone «Radiation reloaded» gli elementi radioattivi sono stati assorbiti dalle piante, dalle foreste, da fiumi ed estuari. I pesci d’acqua dolce che rivestono un ruolo di primo piano nel commercio nipponico, presentano altissimi livelli di cesio. Numeri alla mano «già oltre 9 milioni di metri cubi di scorie nucleari sono sparsi su almeno 113mila siti nella Prefettura di Fukushima». Per smaltire gli effetti del disastro — scrive l’organizzazione — occorreranno secoli.

Lo smaltimento: la mappa dei siti mancatiRifiuti pericolosi: l’elenco stilato dall’Ispra

Seguita nel febbraio 2010 dall’approvazione di un decreto ministeriale sui criteri di localizzazione, costruzione ed esercizio del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi (decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31). Formalmente ancora non è possibile stabilire la localizzazione degli impianti (manca l’Agenzia per la sicurezza nucleare che per legge dovrebbe indicare le caratteristiche territoriali dei siti idonei), ma conosciamo l’elenco delle 50 aree potenzialmente idonee a localizzare una centrale nucleare. Secondo l’elenco reso noto da Legambiente (sfiora l’icona blu), i siti sono dislocati in ben 15 regioni italiane: 7 sono in Puglia, 6 in Toscana, 5 in Sardegna e Sicilia, 4 in Calabria, Lombardia e Veneto, 3 in Emilia Romagna, Lazio, Friuli Venezia Giulia, 2 in Campania, 1 in Basilicata, Molise, Piemonte e Umbria.  

Secondo l’ultimo inventario dei rifiuti radioattivi compilato da Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), in Italia al momento sarebbero stoccati nei vari depositi temporanei circa 28mila metri cubi di rifiuti radioattivi, di cui oltre 1500 di terza categoria, cioè ad alta attività, con tempo di decadimento di migliaia di anni (sfiora l’icona blu per il dossier).  Anche se la produzione massiccia di rifiuti è cessata con lo spegnimento delle centrali nucleari e degli impianti di lavorazione del combustibile nucleare, la quantità è andata comunque aumentando di qualche centinaio di metri cubi ogni anno, passando dai 23mila del 1994 ai 27mila del 2007.

Le scorie «prodotte» dagli impianti spenti

Ciò è dovuto all’impiego di materie radioattive nell’industria, nella ricerca e nelle attività mediche e diagnostiche, ma anche alle operazioni necessarie al mantenimento in sicurezza degli impianti nucleari e alle azioni di decommissioning: l’ultima fase del ciclo di vita di un sito. Questa attività comprende le operazioni di mantenimento in sicurezza degli impianti, allontanamento del combustibile nucleare esaurito, decontaminazione e smantellamento delle installazioni nucleari e gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, in attesa del loro trasferimento al «Deposito Nazionale». Che ancora non desiste. Solo con lo smantellamento definitivo dei vecchi impianti la produzione di rifiuti radioattivi nel nostro Paese finirà del tutto, ma rimarrà comunque il problema del trattamento e gestione dei rifiuti accumulati. Oggi i rifiuti radioattivi in Italia sono distribuiti in 23 depositi.

Caccia al Deposito Nazionale

La maggior parte degli Stati ha già realizzato o localizzato il proprio «Deposito Nazionale» mentre altri – come l’Italia – si stanno muovendo ora in questa direzione, anche sulla base di quanto previsto dalla normativa europea. L’iter è già cominciato, l’obiettivo è di giungere alla costruzione di questa struttura nel giro di alcuni anni, in modo da dare così una soluzione definitiva al problema dello smaltimento di questi rifiuti, oggi sparsi in decine di depositi temporanei. Prima, però, bisognerà individuare l’area geograficamente e geologicamente giusta per un’opera del genere e – soprattutto – trovare un punto d’incontro e di mediazione con le popolazioni che quel luogo lo abitano. Nel deposito italiano saranno smaltiti definitivamente 75.000 metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività, ai quali servono 300 anni per perdere la radioattività e decadere. In via provvisoria – finché non sarà individuato e realizzato un deposito geologico europeo – vi saranno anche custoditi 15.000 metri cubi di rifiuti ad alta attività, quelli che per decadere impiegano invece centinaia di migliaia di anni. Così duraturi, quest’ultimi, da dover essere isolati in un deposito in profondità di tipo geologico. Nascerà poi anche un parco tecnologico per la ricerca, formato da un centro studi, un laboratorio ambientale e una scuola di formazione (nella foto sotto alcuni militanti di Greenpeace espongono copie di barili di scorie tossiche, in segno di protesta contro i rischi delle centrali).

Il caso dei costi di smantellamento tra Trino e Caorso

A partire dal 1999, la gestione e lo smantellamento delle centrali italiane è stata affidata alla Società Gestione Impianti Nucleari, che si occupa anche dello smaltimento delle scorie radioattive grazie a un accordo con la francese Areva. La Sogin si occupa dello smaltimento della centrale nucleare «Enrico Fermi» di Trino (nella foto sotto) dove è in corso la rimozione dei materiali radioattivi. Il termine delle operazioni è previsto tra il 2026 e il 2030. L’operazione, oltre alla demolizione fisica dell’impianto, prevede anche lo smaltimento di 2mila tonnellate di rifiuti radioattivi (circa 47 barre) e la bonifica dell’area. Per effettuare tutte queste operazioni, serviranno 234 milioni di euro che riporteranno l’area allo stesso stato in cui si trovava nel 1961, quando fu dato il via ai lavori di costruzione di questa centrale da 260 Megawatt entrata in funzione nel 1964 e chiusa nel 1987 sull’onda della paura provocata da Chernobyl.

Addio al reattore «Arturo» di Caorso

Oasi naturalistica a ridosso del Po o centro direzionale e produttivo? Con il decreto con il quale il ministero allo Sviluppo economico ha dato il via libera nel 2014 alla dismissione e alla decontaminazione del reattore «Arturo» e della centrale nucleare di Caorso — comune del Piacentino —, la Provincia e la Regione cominciano a formulare anche le ipotesi di riconversione. Finora sono state smantellate, decontaminate e allontanate dal sito circa 9.400 tonnellate di sistemi e componenti metallici, il 62% del metallo. Come si fosse smontata pezzo per pezzo l’intera Torre Eiffel.

Trecento miliardi degli anni ‘70

La centrale di Caorso, la più grande d’Italia, era stata realizzata dall’Enel tra il 1970 e il 1977. I lavori erano stati affidati al Consorzio di imprese Getsco-Anm (Ansaldo Meccanica Nucleare). Il costo complessivo dell’opera, negli anni Settanta, era stato di 300 miliardi di vecchie lire. Il primo gennaio 1981 la data fatidica in cui l’impianto ha iniziato a funzionare. Il periodo di esercizio è proseguito fino al 1986, quando è stato fermato per la periodica ricarica del combustibile. Poi dal 1987, a seguito dell’esito del referendum sul nucleare, il sito non è più stato riavviato (nella foto, Ansa, la catena umana realizzata dai cittadini nel 1987 contro la centrale).
26 aprile 2016
http://www.corriere.it/extra-per-voi/2016/04/18/italia-costi-nascosti-nucleare-30-anni-referendum-scorie-eacbb6be-055f-11e6-9d1f-916c0ba5b897.shtml

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