Sul litorale del Lazio,
rifugio periferia
a due passi da Roma
DA LADISPOLI A SABAUDIA VIAGGIO OLTRE LA CAPITALE
TRA PALAZZI RUMENI E CAMPI CUSTODITI DAI SIKH
LA SESTA TAPPA
COME NEL CALCO, NOI
SIAMO LA SERIE B DELLA
CITTÀ, UNA SUCCURSALE,
L’APPENDICE ROMANA
TRASLOCATA SUL MARE
di Antonello Caporale
Questo diario è una piccola indagine itinerante
e illustrata di come gli italiani custodiscono,
cambiano o sfasciano l’I ta l i a . . .
L
adispoli era a metà tra il
mare e il niente. Senza una
piazza vera, senza un municipio
vero, un campanile
vero. Era un camminamento
tra la spiaggia nera e l’autostrada,
un territorio attraversato da due
fiumi, il Sanguinara e il Vaccina. Roberto
Rossellini - che qui ha vissuto - l’ha amata
tanto proprio in virtù della sua inconsistenza.
Un perfetto “non luogo”, direbbe l’antropologo
francese Marc Augè.
Ladispoli, che nel 1949 era ancora frazione di
Civitavecchia, nel 1983 contava solo ottomila
abitanti. Con gli anni si è gonfiata come
la pancia di una rana. Prima diecimila, poi
quindicimila, poi venticinquemila. Poi trenta
e infine quarantamila. Il numero provvisorio
di oggi. “Muratori, piastrellisti, insegnanti,
donne incinte senza più compagni,
vedove con l’incubo dell’affitto di Roma, anziani
con la pensione sociale. Poi i disoccupati,
o i precari. E infine gli immigrati:
prima gli ebrei russi, i polacchi, poi i serbi, i
kosovari, gli africani del Senegal e dell’Eritrea.
Infine la sede eletta dei rumeni d’Italia.
La mia città è troppo vicina a Roma per non
essere una fantastica piattaforma della provvisorietà.
Chi non trova posto in città viene
qua. Nel calcio ci sono le squadre di serie A e
serie B. Noi siamo la serie B della città, una
succursale, l’appendice romana traslocata
sul mare”.
Dove i ricchi stanno in periferia
e i poveri sul lungomare
Fabio insegna storia e scrive sul giornale di
Ladispoli, Binario tre. Il binario è l’unico collettore,
il tubo che la unisce alla capitale e le dà
una ragione di vita. Alle sette del mattino si
va, schiacciati come sardine. Alle cinque del
pomeriggio si torna, schiacciati come sardine.
A Ladispoli, generalmente, resta solo il
tempo di dormire. Fabio è uno dei pochi che
resta in città. Uno dei pochi ad esservi nato e
ad amarla immensamente: “La mia ragazza
mi ha lasciato. Non ce la faceva a fare la pendolare
con Roma. Quando mi ha domandato:
vuoi me o Ladispoli? Non ho avuto dubbi: Ladispoli”.
A Ladispoli i ricchi stanno in periferia e i poveri
sul lungomare. I ricchi, cioè i benestanti
che hanno potuto contrarre un mutuo trentennale
per l’acquisto di una villetta a schiera,
hanno puntato a tenersi uniti, per riconoscersi,
lungo i complessi sorti allo svincolo autostradale,
poche decine di chilometri a sud di
Civitavecchia e un po’ prima di Fiumicino.
Costruzioni basse, giardini ben tenuti, viabilità
scorrevole e asfalto in migliori condizioni
di quello dei Parioli. Ladispoli, a dispetto dei
pregiudizi, è ordinata. Si è gonfiata senza perdersi
nell’abusivismo, ha avuto la fortuna di
tenere la pianura ai fianchi. Il cemento ha ottenuto
tutto lo spazio che desiderava. In faccia
ha il mare, ma non è da cartolina.
Mirko e Carola, coppietta sulla panchina:
“Mai fatto il bagno qui, non è balneabile e la
sabbia non è invitante. Il mare si vede. L’odore
del mare arriva invece a sprazzi, zaffate mixate
da agenti chimici non meglio identificati”.“I
rumeni stanno tutti in questo blocco di
palazzi. Guarda le targhe, tutte straniere”, dice
Silvia, collega di Fabio. “A dispetto di quel
che si pensa non esiste crisi sociale tra gli immigrati
e gli italiani. Sono pochi gli episodi di
razzismo alimentati da alcuni clochard che
non hanno dove andare e stazionano nei giardinetti,
trasformando siepi e panchine in orinatoi”.
Seguiamo la direzione degli aerei all’atterraggio
a Fiumicino, da nord verso sud, e ci teniamo alla
larga da Roma. Di domenica mattina il grande
raccordo anulare è una lingua d’asfalto senza
lamiere, libero dalla paura dello stop improvviso,
del disgraziato imprevisto. Una via larga e
dritta verso la meta. Ma una piccola fortuna si
compensa con una grande sfortuna. La domenica
è il giorno prediletto dei romani che scelgono
il mare, un’orda di clacson che si riunisce
all’Eur e si incolonna verso Ostia o sulla Pontina,
la strada che conduce al Circeo.
Dopo l’asfalto del Gra, verso Littoria
al ristorante dal Duce
È una bretella che nei giorni della settimana serve
a misurare la distanza che separa Torvaianica,
Aprilia, Pomezia e le altre città satelliti dalla
Capitale. Quasi sempre un’infinità. Alla domenica
la coda si allunga ancora di più e stretti
stretti si tenta di raggiungere, in tempo per il
pranzo a Sabaudia, tra le dune del Duce.
Prima delle dune il Duce, durante gli anni della
costruzione di Littoria, l’odierna Latina, si consolò
con gli gnocchi dell’unico ristorante aperto
nella città eletta del fascismo: l’Impero. Che oggi
è esattamente nel luogo in cui sorse allora: in
piazza della Libertà, di fronte alla prefettura. Al
posto del papà alla cassa c’è sua figlia Iris Silvestri,
solo novantadue anni. “Si stava meglio
allora”, dice. E si capisce. Sua cognata Marisa
Piemontesi, di qualche anno più giovane, è l’assistente
di sala. In cucina Alessandro, di soli 75
anni. Alle pareti lo sviluppo della grandeur
mussoliniana. Lui da solo. Lui con i gerarchi. E
poi il principe, le milizie, le piante della città in
costruzione. L’epica del tempo. Gnocchi anche
per noi!
Alle quattro del pomeriggio è l’ora della pennichella.
Le villone tra le dune di Sabaudia sono
già aperte. È la società affluente che riposa, stanca
di una settimana di impegni metropolitani e
in ambasce per la fatica del ritorno che s’annuncia
in colonna sulla Pontina, così com’è stata
l’andata. Questa volta, a dispetto di Ladispoli, i
ricchi si sono presi il mare, le dune, la meravigliosa
macchia mediterranea. Tra loro e la Pontina
ci sono i sikh, gli schiavi moderni, eroi delle
nostre tavole. A loro, una comunità che da queste
parti raggiunge il numero di 1200 persone, è
devoluta la selezione e raccolta degli ortaggi, la
presa in carico di pomodori e zucchine, angurie
rosse, pesche e albicocche, fragole, insalata riccia,
lattuga.
I ricchi riposano al mare e i sikh attendono il
lunedì nei capannoni agricoli adibiti ad abitazione,
oppure in comodi bilocali che gli italiani si fanno pagare 600 euro al mese. I sikh non
sporcano, non si ubriacano (l’alcol è vietato
dalla loro religione), sono disciplinati, eseguono
con cura l’attività cui sono chiamati. E
soprattutto non protestano.
Nel deposito degli attrezzi di una fattoria di
Sabaudia giacciono nell’attesa di riprendere il
lavoro, prima che il sole si alzi, Satwant Singh
25 anni e il suo amico Sowant di 28 anni.
“Vengono dal Punjab e fanno parte dell’élite
imprenditoriale nella loro realtà.
Il trasferimento in Europa è sempre provvisorio
e serve a raccogliere il danaro da investire
nel loro Paese.
Dietro le dune di Sabaudia, nel regno
del lavoro a 3 euro l’o ra
In genere sono imprenditori agricoli, gente
che conosce la terra e aspira a un benessere
che, senza questi viaggi, sarebbe impossibile
da agguantare”, dice il sociologo Marco
Omizzolo, mediatore culturale e voce italiana
all’interno della comunità. Quanto guadagna
Satwant? Lui, imbarazzato: “Bene, anche novecento
euro al mese”. Sicuro? Novecento?
Lo interrompe Harbajan, l’anziano della comunità,
responsabile nel tempio delle cucine
pubbliche (la mensa comune è un elemento
strutturale della religione sikh. Al tempio ci si
ritrova e si mangia lo stesso pasto, un modo
per affermare il principio di uguaglianza, uno
dei pilastri della cultura di
questo popolo del nord
dell’India ndr). “Alcuni
guadagnano settecento euro,
altre seicento e non è raro
che alcuni di noi si trovino di
fronte datori di lavori che
non rispettano l’impegno. O
ritardano di mesi i pagamenti
oppure, purtroppo, si
dilegua no”.
Il contratto nazionale per i braccianti agricoli
prevede un corrispettivo di otto euro per ogni
ora lavorata. Qui nel Lazio non si arriva ai tre
euro, per dieci ore di lavoro al giorno. A che
ora ti svegli Satwant? “Alle tre del mattino,
andiamo a letto alle nove della sera”. Piegati
nelle serre per dieci ore al giorno. Freddo o
caldo. Inverno o estate. Fatica mostruosa alla
quale a volte si fa fronte – per sopportarla –
anche con la droga. Harbajan: “So di persone
che ne fanno uso”.
Drogarsi per lavorare, e pregare perché la
Pontina non li mandi prima del tempo al
Creatore. “È successo, succede spesso purtroppo.
Noi andiamo in bici, e a volte gli italiani...”.
A volte succede persino che gli italiani,
magari gli stessi che chiedono legalità,
controllo e poi, alla luce di queste serre li tengano
fuori dalle regole e dalla dignità, si esercitino
a mandarli a gambe all’aria. Aprendo lo
sportello con l’auto in corsa, lanciando bottiglie
di birra vuote. “Ma noi ci troviamo bene
qui”, dice Harbajan.
(6 – continua) il fatto quotidiano 21 giugno 2015
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